Il teologo è in grado di aprire delle differenze?

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ultima cena

Patti Rokus, Last Supper

Prendo spunto dall’interessante scambio avutosi tra i colleghi Ferrario, Lorizio e Grillo in merito al ministero sacerdotale e i temi ad esso connessi (potere, sacralità/sacramentalità, visione ontologica o funzionale), non tanto per ritornare sull’argomento, quanto per fare un’annotazione in merito al richiamo al Vaticano II.

La teologia come sapere critico

Ritengo che la teologia debba essere una scienza «critica» in grado di articolare un’esperienza (la sequela di Gesù) entro un orizzonte culturale (presente). Il contesto generativo è dunque quello esperienziale (la verità del vangelo) da cui occorre lasciarsi «disciplinare» (discernimento) piuttosto che disciplinare (dottrinalismo).

Tenendo presente queste (sommarie) indicazioni epistemologiche, ritengo che la teologia sia chiamata a una funzione critica in grado di aprire delle differenze, degli scarti, rispetto ad una omogeneità della tradizione che, in realtà, è più un presupposto dell’immaginario cattolico anziché un riscontro effettivo. Ed è proprio per evitare questo tranello che la teologia deve impegnarsi in una riflessione al tempo stesso storiografica e teorica.

Il concilio: materialità di un evento e sue diverse interpretazioni

Veniamo così al Vaticano II. Spesso nelle nostre discussioni teologiche ed ecclesiali, quando prendiamo posizione su un determinato problema, ci richiamiamo al Vaticano II e, a seconda dei casi, parliamo di un concilio tradito o vissuto coerentemente. Quando riteniamo che il concilio sia stato tradito, diciamo che non siamo stati al passo con le sue indicazioni, che la nostra prassi si è ripiegata su se stessa, che ci siamo lasciati ammaliare da nostalgie del passato ecc. Per carità, non dico che ciò non sia anche vero. Ma il nostro esercizio critico dovrebbe farci fare un passo ulteriore.

Il Vaticano II non è un evento che cade dal cielo. In esso, come in ogni convocazione sinodale, si rende presente (raepresentatio) il Signore, ma ciò non avviene nonostante l’umanità dei partecipanti, bensì a partire da tale dinamica (compromessi, accordi, ritrattazioni).

Ora il concilio, nella sua «materialità» di avvenimento (testi delle commissioni, interventi in aula, testi approvati, diari dei partecipanti ecc.) è grosso modo davanti a noi. Quello che invece non è davanti a noi, e che dunque non costituisce una sorta di obiettività oculare, sono le sue interpretazioni e recezioni.

Il Vaticano II visto dal magistero postconciliare

Quando parlo però delle recezioni del concilio non intendo solo quelle «esterne» ma anche «interne», vale a dire quelle recezioni espresse dallo stesso magistero ecclesiastico successivo. Theobald, ad esempio, richiama il Sinodo straordinario dei vescovi del 1985 e si chiede se esso non costituisca un cambio di marcia rispetto ad alcune intenzioni conciliari (enfasi sulla continuità, richiesta di un catechismo, critica al postconcilio).

L’«officina bolognese» (Alberigo, Ruggieri, Melloni) vede in diversi documenti postconciliari una virata verso una concezione dottrinalistica della verità (vangelo) rispetto ad una presentazione storica, vitale e relazionale espressa nel concilio (non solo Dei Verbum).

Il caso del magistero definitivo (can 750 §2)

Come la pubblicistica teologica ha ormai ampiamente dimostrato in questi decenni, entro lo stesso magistero ecclesiale e i pontificati che si sono succeduti nel tempo, sono presenti diverse prese di posizione nei confronti del concilio. In alcuni casi direttamente, in molti altri casi indirettamente.

Prendiamo l’esempio di LG 25 che affronta il tema del magistero. Una serie di documenti successivi al Vaticano II ha offerto una lettura «estensiva» del testo (complice l’uso del termine definitivus, sia in forma aggettivale che avverbiale) al fine di includere quello che solo nel 1998 (motu proprio Ad tuendam fidem), diventerà ufficialmente il magistero «definitivo».[1]

Domande per il teologo

Le domande che dunque il teologo (il quale a mio avviso non può non essere anche uno storico del dogma) deve porsi sono:

  • Quale opzione personale (frutto di studi, incontri, sensibilità) per il Vaticano II?
  • In base a questa opzione, come interpretare − per restate nel tema del magistero − documenti quali: Mysterium ecclesiae (1973), Professione di fede e giuramento di fedeltà (1988), Donum veritatis (1990), Catechismo della Chiesa cattolica,[2] Ad tuendam fidem (1998) e la Nota dottrinale illustrativa che segue?

Ognuno ha le sue opzioni (valori di fondo), persino il teologo! Queste prese di posizione vanno riconosciute, articolate e confrontate, in uno spirito di collaborazione e di rispetto reciproco. Spesso invece ho l’impressione che la teologia cattolica voglia evitare tutto ciò, cadendo in una sorta di lettura «lineare» ad ogni costo. Ma credo che quell’inveterato «et … et» oggi convinca sempre meno non solo gli studiosi delle scienze storico-sociali, ma anche gli stessi attori ecclesiali (laici, preti, vescovi) a prescindere dalle proprie opzioni.


[1] Sul magistero definitivo, rimando al mio articolo su SettimanaNews: «Magistero, modernità e riforma».

[2] In riferimento al magistero definitivo, si veda il cambiamento nella versione latina del 1997 (n. 88).

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Un commento

  1. Mauro Mazzoldi 5 agosto 2023

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