Lo Jago sistematico e il tradimento della teologia

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Nell’Otello di Shakespeare il tradimento è attribuito, contemporaneamente, a Jago, a Otello, a Desdemona e a Cassio. Jago tradisce intenzionalmente il padrone insinuandogli il dubbio sulla fedeltà di Desdemona e di Cassio. Otello tradisce per debolezza la fedeltà di Desdemona e Cassio appare a Otello come il primo traditore.

Il dramma sta nella ferita che il tradimento comporta all’esperienza degli uomini e delle donne: acceca ogni lucidità, sfrena ogni temperanza, apre alla perdita di sé. Non il tradimento, ma il sospetto del tradimento conduce a tradire sé stessi. Anche gli intellettuali possono tradire: tradiscono come Jago, come Otello, come Desdemona e come Cassio. Ci sono tradimenti reali e apparenze di tradimento: ma ciò che è apparente spesso è più consistente di ciò che è reale.

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Ogni tradizione è esposizione al tradimento: dove ci si fida, si può essere ingannati. Consegnarsi è poter essere traditi: consegnarsi allo scudiero, al consigliere o alla consorte è possibilità di tradimento e ferita aperta. Ma il tradimento, come in Jago, può prendere la figura dell’assoluta e deferente fedeltà; come in Otello, dell’onore macchiato da restaurare; come in Desdemona, della relazione fraintesa o come in Cassio, della rivalità proiettata. Sei un traditore, ma appari come un fedelissimo servitore, sei un fedele collaboratore, o una moglie fedele, ma appari doppio, vieni capovolto, ridotto alla caricatura di te stesso.

La storia della Chiesa cattolica degli ultimi secoli è piena di “tradimenti”: il nemico mette in pericolo la tradizione e la tradisce. Il nemico peggiore è, come sempre, il più vicino, il falso amico. Per questo dev’essere isolato, smentito, eventualmente scomunicato. Da Lutero in poi, la storia della relazione tra tradizione e tradimento è intensa e sofferta, porta lotta e anche sangue.

Ma ciò di cui ha parlato recentemente Severino Dianich, nel suo appassionato intervento su SettimanaNews (qui), tocca una questione molto delicata: ossia quel “tradimento” che avviene nella forma del “servizio teologico”. Il centro del tradimento, per Dianich, avviene a causa di un’autocomprensione della teologia, che delimita il proprio sguardo alle questioni “interne” alla Chiesa. Tutti i problemi fondamentali delle donne e degli uomini contemporanei sembrano restare estranei al lavoro teologico.

Per Dianich il tradimento consiste essenzialmente nel silenzio. Un “tradimento dei teologi” si ha quando essi, anziché parlare, tacciono. Soprattutto perché non alzano la voce sull’uso politico della Scrittura e della Liturgia, sulla legittimazione dei conflitti, delle emarginazioni e delle ingiustizie mediante un riferimento a parole e azioni autorevoli che sia falso e traditore. Su tutte le questioni che affannano il mondo di oggi, sembra che i teologi non abbiano nulla da dire, se non in modo generico. Qui per Dianich sta la questione.

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Nei giorni successivi Marcello Neri ha ripreso il testo di Dianich, sempre su SettimanaNews (qui), mostrando una questione ulteriore. Per Neri il problema non è tanto di “teologi traditori”, ma della “teologica cattolica traditrice”. La questione non riguarda né i singoli, né la comunità teologica, ma l’impostazione sistematica del pensiero cattolico, che si è irrigidito in una contrapposizione tra interno ed esterno, tra fede e cultura, diventata negli ultimi 200 anni un “corsetto” che contrae e paralizza tutta la tradizione. La teologia cattolica potrà uscire dal proprio “tradimento” solo se cambierà il modo di pensare il proprio rapporto con le culture: solo se uscirà dall’idea semplificata e falsa (e traditrice) di un “mondo esterno” in cui tradurre il messaggio “di sempre”.

Tra le due analisi non ci sono veri contrasti: direi piuttosto che una implica l’altra, pur parlando il linguaggio di due diverse generazioni di teologi. La forma dei due testi dice un’evoluzione della tradizione. Per non alimentare una “teologia che tradisce”, entrambi ritengono che occorra un lavoro autocritico sul sistema teologico generato dalla tradizione moderna (tridentina) e tardo-moderna (otto e novecentesca). Un’autocomprensione rigidamente antimodernistica della Chiesa cattolica genera paralisi della tradizione e tradimento della propria identità. Genera verbalizzazioni autoreferenziali e silenzio sulle questioni.

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Una traccia di questa tendenza la vediamo anche nel laborioso cammino verso la seconda Assemblea sinodale sulla sinodalità, dove, ad es., anziché affrontare la questione dei soggetti del ministero ordinato, si pensa di convertire la questione nell’artificio retorico della “ministerialità della Chiesa”, dove anche le idee più avanzate e rispettabili possono essere utilizzate – più o meno consapevolmente – per paralizzare la tradizione e impedire ogni novità.

Non il tradimento di Jago (queste sono cose da tragedia teatrale, nella Chiesa sono sempre casi-limite), ma il tradimento di Otello, quello di Desdemona e quello di Cassio sono all’ordine del giorno. Il nostro Jago cattolico è l’inerzia del sistema moderno tridentino-ottocentesco e le apparenze di tradimento che paralizzano la ragione e autocensurano i cuori: ecco il punto di continuità tra l’analisi di Severino e quella di Marcello.

Sulla soglia del Sinodo dei vescovi (e del Giubileo) una discussione sulla teologia che fa tradizione, e che per onorare il proprio servizio non deve cadere nei tranelli che ingannano Otello, Desdemona e Cassio, (senza dimenticare lo Jago sistematico, che canta come un basso continuo “il fazzoletto” inventato da G. Verdi), deve tener fisso lo sguardo sui due fuochi messi in luce dai due articoli di Dianich e Neri: sulle questioni vitali dell’esistenza comune, nelle quali Cristo è incluso in radice; e sui linguaggi con cui facciamo esperienza oggi di questa comunione con Dio in ogni atto della vita quotidiana.

La correlazione tra oggetti da onorare e linguaggi da non strumentalizzare è la vera sfida ai teologi cattolici e alla teologia cattolica. Il tradimento porta ad uno stravolgimento del rapporto di fiducia e allo sfiguramento di sé: anche la teologia, ripetendo le alte parole di K. Barth, in quanto è “la scienza più bella, quella che tocca più profondamente l’intelligenza e il cuore… ma anche la più difficile e la più pericolosa… può diventare la cosa peggiore che si possa immaginare, la caricatura di sé stessa”.

  • Pubblicato il 3 Settembre 2024 nel blog: Come se non.
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6 Commenti

  1. Fabio Cittadini 6 settembre 2024
    • Luigi Pertici 6 settembre 2024
      • Anima errante 8 settembre 2024
      • anima errante 8 settembre 2024
  2. Salvo Coco 5 settembre 2024
  3. Angela 4 settembre 2024

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