La riflessione di Pierangelo Sequeri sulla rilevanza estetica della forma artistica in relazione alla forma morale della vita umana, è sorta in occasione della presentazione del volume F.A. Iraci, La forma oltre la bellezza. Indagine sulla forma dell’ethos alla luce di alcuni autori contemporanei, collana Dissertatio series romana 53, Glossa, Milano 2017, e si è tenuta presso l’Aula Magna dell’Accademia Alfonsiana di Roma il 23 marzo 2017. Pierangelo Sequeri ha anche elaborato la prefazione al volume, dal titolo L’enigma e il miracolo della forma, pp. XI-XIV.
Una prima verità che riguarda il tema cui Filadelfio Alberto Iraci si è applicato – il tema importante della forma e soprattutto della forma che interessa la filosofia morale, la teologia morale e l’orientamento della vita – consiste nella sapienza di non individuare lo specifico di questa categoria nella sua capacità di rappresentare, di visualizzare, sebbene questa sia l’accezione più consueta della forma e che, allo stesso tempo, rappresenta uno dei difetti dell’estetica, ossia il suo legame ancora troppo forte con la struttura figurale della forma. Per protesta a ciò, infatti, l’arte moderna ha disertato la forma, pretendendo con questa via di trovare una soluzione che, di fatto, non ha ancora individuato.
Il miracolo della forma
Una prima verità sul tema, dunque, nell’ambito della filosofia e della teologia pratica, risiede nel fatto che la bellezza della forma è la sua capacità di «tenere» nel gioco delle forze, ossia di individuare punti di contatto, di generare armonia, cooperazione. Con l’espressione «gioco delle forze» si intendono, nell’ambito della vita pratica, le passioni, le idee fisse, le invenzioni, le sperimentazioni, il desiderio del nuovo che spinge a cercare oltre quello che è già. La capacità di tenere – di tenersi e di tenere – in relazione tutti questi elementi, che confliggono ed entrano in dialettica e in contrapposizione reciproca, è il compito più alto che si possa assegnare alla forma nell’ambito della filosofia e della teologia pratica.
La tenuta della forma cattolica, la forma che è capace di tenere, si deve affermare soprattutto là dove sono in campo tendenze, orientamenti, ricerche, insoddisfazioni, che spesso hanno la loro bontà nel fatto di essere indicatori di qualcosa di più profondo, ossia della volontà di rigenerare la vita, di modellare comportamenti, attitudini, condotte all’altezza delle esigenze della vita. Qui la forma sprigiona la sua peculiare bellezza, che sta appunto non nella sua capacità di rappresentare al meglio qualcosa, ma nell’abilità di tenere e in questa tenuta fa percepire la bellezza, la fecondità, il carattere non distruttivo del gioco delle forze. Il suo compito è quello di insegnare alle forze la strada dell’armonia, della trasparenza, della proporzione: integritas, claritas, proportio, infatti, sono le antiche categorie della bellezza quando essa non era una qualità semplicemente estetizzante.
Chi sa trovare la forma o sa modellare la forma, in particolare la forma cattolica, in maniera che non si perda nel gioco delle forze e anzi sia capace, sia persuasiva, sia attraente per la sua attitudine ad allontanare le forze distruttive e armonizzare le forze costruttive, questi scopre il miracolo della forma. Quello che Balthasar definisce il miracolo della forma cristologica trova il suo nucleo sostanziale nell’armonizzazione delle potenze divaricanti dell’umano e del divino.
La forma di Dio
Una rigorosa estetica teologica dovrebbe ricordarsi che, quando Dio creò l’uomo, lo plasmò non come copia conforme ma come fronteggiante, ossia uno in grado di resistergli e pose proprio in questa prerogativa l’immagine e la somiglianza (cf. Gn 1, 26-27): l’uomo creato ha quindi un proprio spirito, una propria libertà, una propria inventiva.
Il bello e la straordinarietà dell’immagine e somiglianza è individuabile nel il fatto di non essere una semplice copia conforme: in essa brilla la bellezza dell’invenzione creatrice di Dio, che per tutto il resto della storia cercherà di convincere gli esseri umani che non vuole essere subìto ma amato. Esisterebbe una ragione ineccepibile per subire Dio, dal momento che lui è il fondamento, il legislatore di tutto, il Creatore.
La formica, ad esempio, nella sua struttura creaturale subisce Dio, non lo fronteggia, lo onora come tutta la creazione, che canta le lodi di Dio, ma non lo può amare, non lo può scegliere e volere. Dio invece, a dispetto del fatto di essere Dio, vuole essere amato e si irrita ogni volta che l’uomo adotta un atteggiamento servile, strumentale, contrattuale nei suoi confronti, trattando Dio alla stregua del faraone, che può ingannare al fine di avere dei vantaggi. Questa natura amante, che richiede una risposta d’amore, è in verità l’intimità più profonda di Dio e c’è bisogno della forma per capire la differenza tra questo «a dispetto» e questo «in verità».
Adamo era approdato a una forma di Dio simile a quella del faraone, che è la forma di Dio che l’uomo assume quando immagina di essere onnipotente e, in tal caso, si adopera per non farsi sottrarre la prerogativa dell’onnipotenza. Adamo proietta su Dio l’immagine distorta di sé ed è giunto il momento di modificare una forma di Dio similmente autoriferita, sebbene sia stata predicata per troppo tempo.
È urgente adesso trovare una forma capace di comunicare Dio, altrimenti la parola che annuncia Dio rimane un flatus vocis: tale parola non è credibile se non prende forma e prende forma quando diviene un’immagine divina. La ricerca di Iraci propone di ritornare sul tema cristologico in questa chiave: Gesù Cristo inteso non come forma alla quale solo conformarsi, ma come forma formante, come forma che dà orientamento, dal momento che la vita morale non è semplicemente riprodurre pedissequamente, ricopiare, la vita pratica non è statica ma dinamica e questa dinamica corrisponde al processi di conformazione: in Gesù Cristo il segreto di questa forma c’è poiché la sua categoria è proprio quella di morphé[2].
Il «delitto perfetto»
Questo secondo elemento di riflessione dichiara che la forma non è un idea fissa, non è statica. Siccome la forma ha l’obiettivo specifico e proprio di armonizzare le forze, la sua bellezza si situa proprio in questo compito che è anche la sua prerogativa: in tal modo come il principio cristologico lavora nella vita cristiana e non solo con il registro iconico, che imporrebbe la forma di Cristo come uno stampo al quale adeguarsi pedissequamente.
La forma è oltre la bellezza perché, senza la forma, si arriva solo a una bellezza irrealizzabile, che allontana gli interlocutori dal messaggio cristiano come se non interessasse la vita. La qualità insuperabile della forma è quella di armonizzare anche forze contrarie, di far risplendere persino la debolezza.
È necessario, nel contesto dell’estetica teologica, uscire dal registro iconico abbandonare le questioni della disputa sulle immagini, del problema della pittura sacra, del comandamento di non farsi immagini. Questo approccio è sterile, a differenza del rapporto tra immagine e sacramento: l’immagine rappresenta, il sacramento trasforma. Nella storia della Chiesa non c’è mai stata, in realtà, una battaglia tra chi pensava di dipingere Dio e chi rifiutava l’idea: è sempre stato chiara l’impossibilità di raffigurare Dio. Il vero problema consisteva nel comprendere se le immagini avessero la stessa potenza e gli stessi effetti del sacramento. La questione connessa era la simonia del sacramento, ossia pagare perché l’immagine svolgesse la funzione del sacramento, ossia trasformare, guarire, perdonare.
Nella nostra cultura odierna, la rappresentazione non è in alcun modo interessata ad armonizzare le forze, ma solo ad eccitare l’incantamento e l’attesa magica. Si è diventati così bravi a simulare l’evento e le sue caratteristiche che l’evento reale è morto e nessuno se ne è accorto. Questo è stato definito il «delitto perfetto» (da chi?).
Nella civiltà attuale dell’immagine e dei media è impossibile distinguere l’evento reale dall’evento simulato. La simulazione finge di governare le forze, ma è amorale per definizione e governa solo le forme: una volta che la forma è bella sembra che sia vera. La grande depressione diffusa è generata dal non poter raggiungere determinati standard estetici, professionali, relazionali e, di conseguenza, la bellezza estetizzante e il piacere disimpegnato finiscono per sostituire la forma come sua alternativa. In innumerevoli posti di lavoro la selezione avviene secondo questo canone, la bellezza oltre la forma, dal momento che non importa delle forme che sanno governare le forze, che sanno portare avanti la loro missione.
La bellezza in tal modo intesa supera la forma e l’importante è che venga rinviata la percezione di qualcosa di attraente, che incanta nella misura sufficiente a pensare che il resto verrà da solo, in maniera automatica e si potrà raggiungere senza sforzo e senza impegno. Di contro la bellezza va pertanto riscoperta dentro tale dialettica e in questo il titolo dello studio di Iraci – La forma oltre la bellezza – mostra tutta la sua audacia.
Più dell’icona e più della bellezza
Dinanzi all’avanzata dell’estetizzazione del mondo, le soluzioni degli iniziatori dell’estetica teologica, venivano liquidate con diffidenza e malcelata sufficienza. Le recensioni su Balthasar negli anni ’60 e ’70 erano scettiche nei confronti di una teologia che raccontasse la bellezza teologica e medesima era la reazione agli appelli del Sequeri. Una simile prospettiva era, senza troppo credito, definita interessante e, allo stesso tempo, era tenuta a distanza. Si dichiarava che per la teologia le categorie dell’estetico fossero inservibili, se non pericolose, dal momento che l’estetico è soggettivo, non ha logos, non ha ontologia.
Da qualche anno è invece esplosa, in maniera indiscriminata, la via puchritudinis, si è diffusa la vulgata de «la bellezza che salva e che porta a Dio» ma, paradossalmente, si percorre questa via con strumenti inadatti e riferendola essenzialmente all’arte sacra.
È interessante notare che, nel Cinquecento e nel Seicento, una Chiesa che viene raccontata come fissata nel dogma ha saputo riempire di meraviglie l’Europa, senza aver paura neanche della forza che sprigiona la raffigurazione del corpo umano. Adesso la Chiesa, che si dice impegnata con il mondo della cultura, non è in grado di realizzare la bellezza di una forma che tiene insieme le forze, neanche nelle chiese, in cui non è possibile percepire e sentire nessuna una bellezza palpabile. L’oscenità non è solo la pornografia, ma si verifica anche quando si vede tutto, quando tutto è a vista, come nella super-esposizione della persona nelle chiese moderne, in cui non rimane un angolo di intimità. Dove si riesce lì a rinvenire la forma che tiene insieme le forze?
Questa è la sfida dal lato del regime rituale e il medesimo processo avviene nell’ambito della forma pratica. La Chiesa è viva e vitale, ma di fatto c’è difficoltà a indicare la forma cristiana e a dire come si riconosce e come si trasmette e si comprende drammaticamente che se non si fa questo ci si limita ad una mera riproduzione e si abdica al mandato missionario. Il cristianesimo in questo momento non riesce ad avere il dominio della forma, sostituisce con un’immagine e con delle icone la forma che tiene insieme le forze vitali e dà loro la verità necessaria. La forma è più dell’icona e più della bellezza: se però la forma è rispettosa della bellezza e anche dell’icona, si possono avere molte bellezze e anche molte icone.
Tra Schiller e Kant
L’autore, per aprire il gioco sulla necessità della forma nell’ambito della filosofia e della teologia morale, segue l’idea che nel lavoro della forma l’etico e l’estetico devono incontrarsi, altrimenti rischiano di confondersi l’uno con l’altro o di porsi in alternativa. In questo egli è erede di un famoso dialogo che ha inaugurato per la modernità l’avvio e il congedo di questo tema anche in filosofia, ossia il famoso confronto tra Schiller e Kant.
Schiller sosteneva che senza estetica anche la forma morale perde la sua forza e il suo rapporto con la grazia, anche con la grazia soprannaturale, divina, perché diventa semplicemente una regola, una norma, un dispositivo, un manuale di istruzioni per eseguire certe condotte. L’uomo, però, aderisce con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente alle condotte degne dell’uomo solo perché in esse riconosce la bellezza della forma umana che ne scaturisce.
Di contro Kant asseriva con molto garbo la bellezza di questa prospettiva, ma preferiva insistere sui comandamenti, in attesa dell’avvento della bellezza. Kant, invece che della forma morale, si era appassionato del formalismo della morale, cioè del fatto che il principio della morale è il rigore con il quale il soggetto rimane fedele al principio del dovere e cioè sa che la dignità della vita umana si riconosce là dove qualcuno fa il suo dovere. Anche questa è una forma, che tuttavia si delinea immediatamente come formalistica, poiché prescinde da ogni contenuto. È questa la prospettiva diffusa con cui si intendono molte delle professioni civili quando ci si appella al «proprio dovere».
Schiller però aveva a sua volta una concezione della grazia, e quindi della qualità estetica del bene, che creava un altro tipo di dipendenza, la dipendenza del bene dal desiderio.
Molta teologia è stata kantiana per secoli, insistendo sul dovere, poi è passata sul fronte opposto asserendo che il cristianesimo non è una morale, non è un insieme di verità astratte. Effettivamente il Vangelo non è un trattato morale, non si pone, in prima istanza, il problema di moralizzazione dell’umanità e allo stesso, tuttavia, tempo senza la mediazione dell’ethos morale il Vangelo rimane inefficace, assieme alla rivelazione che porta.
Dinanzi a questa dialettica il problema consiste nel trovare la forma del legame tra i due poli. Per reazione si è proclamato il cristianesimo come la religione del sì, la cui magna charta non sono i comandamenti ma le beatitudini. Un po’ imbarazzati dalla morale formalistica ci si è orientati sulla morale del desiderio, sulla tesi di Schiller, che ha anch’essa i suoi difetti. Queste contrapposizioni sono indebite se non vengono adeguatamente bilanciate, senza passare da un estremo all’altro.
Ingiunzione morale
Il tema della forma è un tema serio e della forma morale fa parte l’ingiunzione. Le forme di trasmissione dell’ingiunzione morale sono mediate personalmente, dalle figure genitoriali ad esempio: per mostrare che qualcosa è giusto il padre è disposto a rimetterci personalmente per onorare la sua parola su quella giustizia. Il modo per dire che una cosa è giusta è: «si deve fare, a costo di qualsiasi sacrificio» e, viceversa, «questo non si fa mai a una persona e, se lo fai, il primo con cui dovrai misurarti sarà tuo padre».
Questo è ciò che un padre dice o dovrebbe dire al figlio e, poiché è necessaria una declinazione concreta di tale ingiunzione, a questo va dato un contenuto: «Approfittare di una persona debole e indifesa, non è giusto, non si fa mai neanche se ti pagano».
L’ingiunzione morale è il corrispettivo della sua serietà e da ciò il ragazzo capisce che la cosa è importante e che c’è in gioco qualcosa di veramente degno dell’uomo, altrimenti non parlerebbe il linguaggio dell’ingiunzione. È la forma del messaggio che dischiude la sua bellezza, comunica l’onestà intellettuale di chi lo proferisce e permette a chi lo riceve di orientarsi, anche perché il repertorio dell’ingiunzione non è infinito.
L’ingiunzione chiede inoltre la negazione: se non viene comandato «non uccidere», l’amore può essere predicato ma rischia di perdere forma e di diventare un tema che esce semplicemente dalla valutazione del senso comune delle condotte e dei comportamenti e non è più decifrabile. I piccoli, infatti, in questo momento fanno fatica a decifrarlo. L’eliminazione dell’essere umano ha una soglia molto sottile di inibizione: è un evento che una volta era raro e adesso è frequente nelle giovani generazioni, tra cui ha fatto la sua comparsa, in maniera anaffettiva, l’omicidio, lo stupro, la violenza del branco. È, per certi versi, il frutto della predicazione propositiva, estetica, charmant, che segue il desiderio e non è capace di nominare l’interdetto, che è il corrispettivo dell’ingiunzione.
L’ingiunzione e l’interdetto fanno parte della bellezza della forma umana nel suo splendore e comunicano la sensazione che noi essere umani, infingardi e fragili come siamo, non siamo così incapaci da cedere al primo impulso a distruggere, o a godere senza limiti, ma siamo capaci di vero bene.
L’autore, nel suo cammino di ricerca, affronta tre autori che sono in qualche modo attinenti al tema e allo stesso tempo tutti e tre in rotta di collisione con l’idea figurativa di forma. La forma rettamente intesa rimanda al precetto, inteso come «la forma che riguarda la norma». Da questa idea di forma si tenta di indagare anche il modo con cui la norma riesce ad intervenire sulle forze della realtà e limitandosi alla bellezza della rappresentazione non si raggiunge la forma della norma.
Quando Pareyson escogita la sua teoria della formatività, sia pure partendo da una certa reazione nei confronti del carattere speculativo, contemplativo, anestetico di ciò che ora si chiama il consumo dell’arte; quando Balthasar ringhiosamente protesta perché la sua estetica teologia è stata tramutata in una teologia estetica e, in risposta a ciò, scrive furiosamente la Teodrammatica, sono entrambi in controtendenza con questo equivoco, diventato ormai irresistibile. L’equivoco cioè di coltivare la forma sul registro della rappresentazione, quindi della simulazione, come fa la televisione che rappresenta l’evento. La forma della rappresentazione, però, essendo finta, non è in grado di governare l’evento, perché non è una forma di governo, di intelligenza o di regia dell’evento, ma è piuttosto la regia di una finzione dell’evento.
La realtà è varia e appunto per questo non restituisce una morale unica, ossia quella che sta dietro al congegno secondo cui di tutto si può fare tutto, ogni storia è a sé, si può scrivere come si vuole. Questo è nel regime della forma che rappresenta, di cui noi siamo un po’ schiavi ed è necessario il disincanto in questo ambito. Giuseppe Angelini dice che per ottenere questo risultato, per uscire da questo incanto bisogna adottare una mediazione che fa la «prova del nove», la verifica.
Quando si può avere la sicurezza di aver trovato la forma morale che fa il lavoro della forma morale cioè governa la conformazione? Si tratta della forma che è in grado di governarla e quindi ha una sua persuasività estetica, cioè mostra sensibilmente ed è capace di suscitare la sensibilità necessaria alla conformazione. Quando avviene questo? Quando si accetta l’idea, difficile da assimilare, per cui il racconto della fiction è riconosciuto come tendenzialmente falso, mentre l’ethos umano, le condotte dei popoli, ciò che è degno dell’umano si riesce a decifrare, anche se non si hanno le parole per dirlo.
Alla prova dell’evento reale
Sono fondamentali in questa verifica le esperienze comuni della vita umana: un bambino che piange è uguale su tutto il pianeta e gli esseri umani sanno riconoscerlo benissimo. Se rispetto a ciò che si deve fare per prevenire, consolare, neutralizzare il pianto dei bambini, se alla prova del pianto dei bambini la moralità mostra la sua bellezza, la sua dignità, la sua capacità umana e quindi formula ingiunzioni e interdetti ricevibili su ciò che si deve fare o no, allora ha superato la prova, quindi è degna di fede e può essere seguita e proposta a modello.
La sfida è quella di accettare di mettersi alla prova e a confronto con l’evento reale. L’evento reale porta un ethos del quale gli umani sono chiamati a essere responsabili ma della cui verità non sono responsabili: è una verità che trovano divenendo umani. Noi viviamo purtroppo in una parte di pianeta ingozzata e ingorda in cui un’elite di intellettuali cerca di spiegare ai popoli che l’essere umano non è come loro pensano, vivono, sperimentano: questi pensieri producono forme che non hanno alcuna corrispondenza con l’ethos reale umano. Il mondo non è ancora affondato perché milioni di uomini ogni mattina si alzano e sacrificano la loro vita quotidiana per le loro creature e per quelle degli altri.
Il racconto postmoderno, che propugna il diritto dell’individuo a realizzarsi e indica il suo primo dovere nel fare di tutto per saturare i suoi bisogni e realizzare i suoi desideri, è falso di diritto e di fatto. A tale racconto si può dare un’estetica, l’estetica della pubblicità commerciale che fa concorrenza a Raffaello e Michelangelo e in cui sono passate le arti belle, che hanno abbandonato le mostre d’arte, ma tale estetica non resiste alla prova.
Occorre falsificare il racconto che uniforma l’essere umano alle bestie, a piccoli esserini predatori che in fondo hanno anche il diritto di agire in tal modo. Si sente raccontare e predicare che il cristianesimo è la risorsa più grande che l’uomo ha per realizzare finalmente se stesso e la propria felicità, si sintetizza il messaggio evangelico nell’esigenza di dover innanzitutto imparare a voler bene a se stessi per poi voler bene al prossimo. Se questa fosse la bellezza della forma la partita sarebbe persa, poiché questo messaggio non ha niente di dirompente, questa è con-formità, è la forma corrente, «verniciata» di cristianesimo.
La conformazione di cui parla il tema della conformazione cristologica è evidentemente altra cosa. È forse priva di bellezza? La scommessa di questo percorso di ricerca è la pazienza di questa argomentazione, che in un primo momento rinuncia alle soluzioni che sembrano a portata di mano nel collegamento di questi temi, per poi ritrovarli quando si tratta di mostrare il modo con cui la forma svolge il suo compito e non si limita semplicemente a rappresentare o addirittura ad abbellire quello che c’è o il racconto unico di quello che c’è. Questa pazienza è ricompensata.
[2] Cf. Fil 2, 6-8: «[Gesù Cristo] pur essendo in forma di Dio, non considerò l’essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, ma svuotò se stesso, prendendo forma-morphé di servo, divenendo simile agli uomini; trovato esteriormente come un uomo, umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce».