Un giorno, nell’ora di ricevimento, uno studente mi espone alcune idee in merito alla sua tesi di licenza (laurea magistrale, per capirci). Il suo interesse verteva su questioni legate al turismo, un ambito questo difficilmente intercettato dalla prassi pastorale ordinaria.
La discussione si fa interessante: opportunità, problemi, prospettive… Ad un certo punto, lo studente formula la “classica” domanda che mi capita di ascoltare anche in altre occasioni: “professore, vorrei sapere quale fondamento teologico dare al lavoro”. Io provo a rigirare la domanda: “tutto quanto hai appena evidenziato, cosa può suggerire alla teologia o, più in generale, alla catechesi e alla prassi pastorale?”
“Fondare”: un passato teologico che non passa…
La domanda dello studente è rivelatrice di un’impostazione teologica che stenta a lasciare le nostre aule di teologia (e non solo, come dirò appena dopo). Essa affonda le radici nella teologia scolastica: qui la citazione di un’autorità (Scrittura, padri della Chiesa, filosofi greci) serviva a corroborare il proprio discorso. Ma questa impostazione della quaestio, comprensibile nei secoli prima dell’avvento della ragione storica, ha continuato a pervadere la teologia anche in seguito, prima in quella controversistica e poi, a partire dall’Ottocento, nella teologia manualistica (i trattati teologici).
Era la cosiddetta teologia dei dicta probantia che si strutturava grosso modo nei seguenti passaggi: enunciazione della tesi, explicatio terminorum, argomento della tesi, diverse posizioni sulla questione trattata, eventuale qualifica o “nota teologica”, possibili obiezioni e corollari conclusivi. La tesi esprimeva direttamente l’insegnamento del magistero, cosicché il riferimento alla Scrittura e alla tradizione risultava semplicemente funzionale a provare la verità dell’enunciato insegnato dal magistero.
Se il rinnovamento conciliare ha dato un nuovo impulso allo studio critico delle fonti, non sembra che tutto ciò abbia inciso nella precomprensione teologica, o almeno in quel “modo di fare” (Certeau) o “sapere implicito” (Foucault) che fa funzionare, almeno in parte, i discorsi teologici ed ecclesiali.
Detto più francamente, a tutt’oggi questo pregiudizio, che per comodità chiamo deduttivistico, è ancora visibile nelle modalità con cui i nostri studenti di teologia organizzano i lavori scritti (elaborati o tesi). Sovente si nota un certo utilizzo disinvolto della Scrittura, adoperata per “fondare” l’argomentazione teologica. Questo uso “non problematico” dell’esegesi biblica nella riflessione teologica rivela come spesso gli studenti diano per assodato che l’esegesi faccia da supporto e possa inserirsi armoniosamente nel tema che ci si prefigge di sviluppare[1].
E così si cade nell’ingenuità di trasporre in un contesto sistematico idee e posizioni che rispondono in primis a vicende ecclesiali e storico-culturali in cui sono sorte, dando per scontato che sia possibile dipanare le differenze che sussistono tra le stesse tradizioni teologiche. Tra l’altro, su quest’ultimo punto la pubblicistica teologica dei decenni passati ha ampiamente sguazzato. Si vedano, solo per fare due esempi, slogan del tipo: “la teologia e le teologie”, oppure le critiche (molto di moda fino a non molto tempo fa) alle cosiddette “teologie del genitivo”.
Questa impostazione è sintomo di una teologia che fatica a interagire realmente con le istanze del tempo presente: tanto in riferimento al vissuto della gente, quanto alle provocazioni e ai confronti con le scienze umane. Naturalmente, non è possibile qui approfondire la questione, ma mi piace solo ricordare come, proprio in merito al confronto con le scienze storico-sociali, già nel 1971 Michel de Certeau constatava che la teologia era ancora «elaborata fuori dalle razionalità critiche» o al massimo si accontentava «di ripeterne e volgarizzarne i prodotti al servizio di convinzioni immutate»[2].
“Applicare”: quando l’attività pastorale non si percepisce come generatrice di un sapere
Dieri che un certo deduttivismo persiste anche fuori dagli ambienti accademici. Qui ovviamente gli slogan sono diversi, ma la sostanza è molto simile. Ne ricordo solo alcuni: “La dottrina non cambia, ma occorre tenere presente le situazioni”; “Quali sono le ricadute pastorali di quanto ascoltato o elaborato sul piano teorico”; “Come applicare tale o tal altra riflessione/teoria alla vita di tutti i giorni” ecc.
Sovente tali slogan sono formulati proprio da chi non ha grandi simpatie per il sapere teologico. Generalmente, infatti, i detrattori della teologia contrappongono ad essa la concretezza della vita e dell’attività pastorale. Sarebbe questa, secondo costoro, il vero metro di misura di ogni manovra ecclesiale[3].
Peccato però che, ad un certo punto, i nodi vengano al pettine. Di fronte a novità, stili di vita, sfide che provengono dal nostro mondo (e a cui magari non si è dedicato tempo, lettura, desiderio di formarsi), i tuttofare concreti cominciano a traballare: con tutto il loro fare … non sanno cosa pensare!
E, allora, s’incomincia a invocare il sapere (della teologia o del magistero). Nasce l’esigenza di sapere “come stanno le cose” (in campo morale o dogmatico) al fine di “applicare” (gergo orribile ma ancora in uso) questo sapere (norme, idee) nel concreto. Si chiamano gli esperti (teologi, scienziati ecc.) percepiti come onniscienti: loro studiano i meccanismi del mondo, sapranno quale cura prescrivere!
E così, quella che dovrebbe considerarsi una delle fonti centrali della conoscenza teologica, ovvero l’esperienza (che è già “sapere”), va a farsi benedire, dal momento che i primi che non ritengono davvero centrale l’esperienza/concretezza della vita sono proprio coloro che nelle parole considerano la prassi pastorale più importante del sapere teologico.
Cosa può insegnarci il deduttivismo?
Il cortocircuito qui sommariamente descritto è rivelatore di un’atavica giustapposizione fra teoria e pratica, dove la prima (la teoria come campo vergine non contaminato da prassi, istituzioni e costumi) sarebbe la detentrice di una verità, mentre la seconda (la pratica come pura vitalità che può avere senso solo se addomesticata dall’eteronomia di un pensiero) sarebbe lo svolgimento concreto di essa.
Pertanto, anche fuori dagli ambienti accademici (ma sarebbe meglio dire “scolastici”) aleggia questa precomprensione (agere sequitur esse?): il sapere è immaginato come quell’insieme di teorie astratte di carattere normativo tese a dare forma ad una prassi, la quale, se non vuole restare nel campo di pura vitalità indeterminata, non deve far altro che conformarsi a tale sapere.
Anche qui è il caso di rigirare la domanda: cosa ci suggerisce l’esperienza di incontro con la gente? L’ascolto empatico di situazioni più disparate? Che valore attribuire a dubbi e speranze? Cosa suggerisce l’indifferenza di alcuni? Cos’altro, invece, le gioie di altri?
Quali atteggiamenti scatenano in noi le esperienze inattese? Sono queste, credo, alcune delle domande con cui possiamo ricalibrare la nostra vita spirituale di cristiani che abitano e che sono abitati da questa storia contemporanea[4]. Direi che siamo in buona compagnia, dato che su questi sentieri ci hanno preceduto già i mistici e, in genere, le scuole di spiritualità: «piuttosto che elaborare una teoria», essi hanno voluto «mostrare come si possa vivere dell’Assoluto nelle condizioni reali fissate da una situazione culturale»[5].
[1] Questo andare a caccia del cosiddetto “fondamento biblico” (o di altra fonte) dovrebbe però interrogare gli stessi docenti: ci si deve chiedere se si è stati in grado di trasmettere agli studenti un approccio epistemologico più critico e una maggiore accortezza storiografica, onde evitare indebite estrapolazioni e/o ingenue scorribande in altri registri.
[2] La debolezza del credere. Fratture e transiti del cristianesimo, Vita e Pensiero, Milano 2020, 174.
[3] E non sarei onesto se non aggiungessi alla nutrita schiera dei detrattori tutti quei preti che considerano la teologia una seccatura a cui si sono dovuti sottomettere durante la formazione seminaristica.
[4] Mi sembrano essere queste alcune tra le domande che ritroviamo anche nel magistero di papa Francesco.
[5] M. de Certeau, La debolezza del credere, 40.
La parola magica: esperienza. Basta vedere dov’ è finita CL. Inutile inseguire il mondo. Una solida formazione teologico dogmatica ” astratta” come dice lei ti dà le linee guida per entrare con empatia nelle esperienze della persona. L uomo è sempre uguale pur indossando abiti diversi. Diciamo che l aver nascosto le domande fondamentali hanno ridotto l uomo a pura merce. La teologia , ovvero discorso su Dio è il fondamento per il discorso sull uomo. Oggi i sacerdoti non sanno neppure che era San Tommaso per es quindi non riescono mai ad intercettare le vere domande che arrivano dall’ esperienza delle persone.