La Pasqua è un ossimoro: è morte e vita, umiliazione e vittoria, dolore e gioia. È sull’ultima parola che vale la pena fermarsi in riflessione sommessa e raccolta, perché la gioia è il culmine della Pasqua. Sarebbe disastroso non arrivare a quel culmine, ma fermarsi alla tristezza della croce: il nostro vero problema è quello di salire fino alla cima del colle pasquale.
La gioia è grazia prima d’essere impegno: è grazia pasquale soprattutto. Anzi, la gioia non la si può avere senza un umile riconoscimento della propria pochezza e della propria insufficienza: la pace non è un prodotto delle mani dell’uomo, ma di Dio.
La vocazione alla gioia
La gioia c’è quando Dio ci tocca con le sue mani, come dice il poeta: «Quando mi sfioreranno le tue mani immortali, il mio piccolo cuore si smarrisce dalla gioia e sgorgano parole ineffabili» (R. Tagore).
Gli uomini possono essere collaboratori della loro gioia, non gli autori.
Noi cristiani, poi, sappiamo che la gioia è una grazia pasquale, che deve accolta e nutrita, ma, di nuovo, con altri doni che vengono dall’alto: il Vangelo, il pane eucaristico, le ispirazioni, i doni dello Spirito.
La gioia è il fine ultimo dell’esistenza umana. Forse è una delle cose più universali: tutti gli uomini vogliono essere felici e avere gioia. Essi hanno sete di felicità, di sviluppo, di potenziamento, di crescita, di elevazione, di pienezza, di un approdo all’autenticità e alla beatitudine. Tutto questo ci dice che l’uomo è un essere itinerante, un nomade e – in termini biblici e cristiani – un pellegrino. La definizione dell’essere umano è, perciò, “colui che migra”: egli, più che un abitatore di case, è un abitatore di tende.
Il suo destino è l’itineranza: egli è nato per partire, ma anche per tornare. Il punto comune è la condizione normale e pellegrinale: l’uomo cerca sempre e, in questa continua ricerca, mostra la sua vocazione alla gioia, che, da questo punto di vista, è esperienza di povertà e non di pienezza: per avviarsi verso la gioia occorre infatti sradicarsi, uscire da molti gusci, soprattutto da quello squallido del peccato. Per il viaggio verso la gioia la prima grande cosa è iniziare a camminare, anche se l’ora non piace; l’esperienza dei ricercatori di gioia dice che quando s’arriva alla soglia della gioia, l’ora sarà comunque gradita e benedetta. Ancora dalla loro testimonianza consolidata sappiamo che già il viaggiare verso la gioia è premiato dalla visita della stessa gioia.
Comunque, la nostra verità è questa: non si tratta di amministrare la gioia, ma di partire alla sua ricerca a mani aperte, sapendo che, mentre la cerchiamo, Dio ce la dona con generose misure anche se spesso sotto vesti non sempre riconoscibili. Davvero è da credere che si giudicherà di noi seguendo le orme dei passi dati per cercare la gioia nella nostra vita. Ma, nell’incamminarsi verso di essa, non è indifferente scegliere l’una o l’altra strada, perché solo una è quella buona: la strada di Pasqua, anche se siamo così spesso stolti e incuranti da sceglierne una sbagliata.
La gioia, frutto pasquale
La gioia autentica ci viene sempre e solo come dono; è la partecipazione alla gioia del Cristo pronto a celebrare la sua Pasqua: «Ma ora vengo a te Padre, e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia», pregò Gesù, prima di lasciare questo mondo (cf. Gv 17,13).
Il battesimo, sacramento squisitamente pasquale, riempie i credenti di una gioia che viene dallo Spirito (cf. At 13,52) e fa perfino cantare gli apostoli in mezzo prove della missione (cf. At 16,22‑25).
Ed è in specie la carità come servizio al prossimo che procura una gioia costante, e che, nella durezza della povertà e nelle persecuzioni, conduce ad una letizia perfetta, alla paradossale gioia della croce pasquale. È significativo che la Chiesa della prim’ora, fresca di Pasqua, si sia distinta per la testimonianza alla gioia. Scrive san Paolo: «afflitti», i ministri di Dio sono «sempre lieti» (2Cor 6,10) e lui stesso sovrabbonda di gioia nelle sue tribolazioni (cf. 2Cor 7,4). La comunità cristiana vive in una letizia semplice (cf. At 2,46) e la predicazione della buona novella è dovunque fonte di grande gioia (cf. At 8,8).
Ancora adesso il cristianesimo ha il suo distintivo nella gioia. Perciò, siccome Dio non può essere trovato se non nell’uscire da se stessi e nel darsi all’altro, l’altruismo è l’unica via alla gioia autentica. La gioia è il frutto di un’armonia che noi abbiamo con noi stessi, con gli altri, con le cose che ci circondano. Quest’armonia è percepita, allo stesso tempo, come dilatazione e compimento del nostro “io” personale, alla cui attuazione mai può mancare una gioia vera e autentica.
Ed è qui che l’esperienza pasquale può nutrire la gioia specie con l’eucaristia che trasmette nel modo più concreto e più di ogni altro mezzo cristiano, la gioia di Gesù risorto. Questa gioia è completa soltanto quando questa realizzazione armonica della nostra vita è attuata nell’apertura a Dio, grembo santo dal quale la nostra esistenza è fiorita, e che ora è nutrita con la «forza della risurrezione» (Fil 3,10): questa consente al cristiano di sperare e di operare attivamente in direzione della pace, che sarà totale e definitiva solo nel regno di Dio.
Liberare la gioia pasquale
Dobbiamo liberare la gioia e questo è possibile se demoliamo gli ostacoli ad essa e se liberiamo qualcosa nel nostro cuore dall’imprigionamento della tristezza.
Nella misura in cui cerchiamo di scioglierci dai lacci della mediocrità, sentiremo rinascere in noi una vivacità nascosta, come il resto d’una brace a lungo nascosta, che di nuovo prende ad ardere, non appena lo liberiamo dalla coltre di cenere che lo copre e non appena gli diamo un po’ d’aria.
Questo avviene quando ci apriamo al fratello, quando ci spendiamo per lui e diventiamo il suo custode, quando lo preferiamo a noi, gli diamo il primo posto nel nostro cuore e gli dimostriamo di credere davvero che la nostra fede in Dio Padre è sincera se è sincera la nostra carità, che è la condizione preliminare della gioia: si conquista la gioia nella misura in cui la comunichiamo agli altri nella forma della carità.
Noi cristiani abbiamo una missione speciale da compiere: quella di ricordare il fascino del Vangelo, il carattere festivo del cristianesimo, la bellezza della sequela di Cristo. Tuttavia, i discepoli e gli apostoli non s’improvvisano: essi vanno formati. Potremo diffondere la gioia intorno a noi se la possederemo in modo stabile e in misura sovrabbondante, se porremo in essa profonde radici. In concreto, la costruzione della gioia e il suo esercizio passano per alcuni necessari percorsi formativi:
Valorizzare i beni che Dio ci ha dati. La fedeltà alla Pasqua richiede la sapienza di scoprire e sfruttare tutto ciò che c’è di buono in noi. Non aspettiamo di incontrare un cieco per scoprire quale bene prezioso siano i nostri occhi. Usiamo nella gratitudine e nella gioia i beni che Dio ci ha donato.
Accettare serenamente i limiti dell’esistenza. La letizia pasquale non permette che ci ripieghiamo malinconicamente sul nostro dolore, quando questo viene a visitarci. Pensiamo a chi ha meno di noi, a chi soffre più di noi. Se siamo saggi e virtuosi nell’accettare le prove della vita, la gioia non ci abbandonerà mai, ma sarà più dentro di noi che di fianco a noi.
Credere all’efficacia dell’amore. Se vogliamo che la gioia non invecchi in noi e soprattutto che non muoia, dobbiamo entrare nella logica del dono pasquale, preoccupandoci più di amare che di essere amati e sforzandoci di avere un’anima sempre aperta a nuove esperienze. Dobbiamo soprattutto impegnarci ad acquisire una più fondata e più vasta speranza, senza la quale – è fin troppo evidente – non è possibile la gioia.
Rivedere costantemente la scala di valori. La serietà della Pasqua, data dal suo lato martiriale, contesta in modo radicale ogni scelta che voglia idolatrare l’effimero, mentre invita a considerare più ciò che resta che ciò che passa, a valutare più ciò che non si vede che ciò che è esteriore, a tenere sempre in buona classifica l’amicizia, la bellezza della natura, l’avventura culturale, l’esperienza artistica e quant’altro serve a nutrire la gioia dello spirito, che s’eleva al massimo con i doni dello spirito.
Essere costruttori di ponti. Con la sua opera pasquale il Cristo ha costruito un arco di fiamma caritativa fra noi e il Padre e fra di noi. Questo spinge a costruire, a nostra volta, ponti di preghiera, di carità, di pace nelle due direzioni della croce pasquale: in alto, verso Dio, e in orizzontale, verso gli uomini, rammentando sempre che creare ponti è un’impresa molto dura. La Pasqua, come evento di riconciliazione, chiede di essere un ponte o di costruire ponti. Questo evoca la sapienza di saper essere fedeli a due sponde, allude alla capacità d’essere uomini di comunione, simboleggia la genialità di saper suscitare riconciliazione e reciprocità.
L’ascesi del Crocifisso ricorda che essere ponte vuol dire rinunciare alla propria libertà personale: comporta il sopportare il peso di tutti coloro che passano sul ponte stesso, le cui “virtù”, per così dire, sono la resistenza, la sopportazione, la solidità. Un ponte, in più, vive nell’ingratitudine: nessuno si ferma a viverci: esso serve solo per essere attraversato, per essere superato, per arrivare all’altra sponda. È questa la rinuncia che Gesù ci insegna con la sua croce pasquale: egli è un ponte (… è pontefice) messo a disposizione per andare al Padre.