La teologia irrilevante o latitante?

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È un bel dilemma, ma forse la condizione del teologo si situa in entrambe le prospettive: quella della irrilevanza, soprattutto a causa della diffidenza che si percepisce da parte del contesto ecclesiale nei confronti di chi lavora in campo teologico e quella della latitanza, per il fatto che, forse scoraggiati dal non essere presi in considerazione nella chiesa, che pure sentiamo nostra, evitiamo di esporci proponendo soluzioni che sappiamo in partenza verrebbero osteggiate dai pastori e dalla gente.

In questa sede non intendo affatto affrontare la questione in termini generici o generalisti, ma semplicemente soffermarmi con alcune considerazioni sul documento finale (Per una chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione, 26 ottobre 2024) prodotto dall’ultima assemblea sinodale, che è quanto mi è dato del sinodo e a cui possono attingere i comuni mortali che non vi hanno partecipato. Sarà anche «sinodo di carta» e non «di carne», ma è tutto quello che ho a disposizione.

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Il presidente dell’Associazione Teologica Italiana, mons. Riccardo Battocchio, nella conferenza stampa di presentazione del documento, sollecitato dalla questione circa il suo valore magisteriale, così si è espresso: «Ciò che ha dichiarato il Pontefice è conforme alla costituzione Episcopalis communio in cui si dice che, se approvato espressamente dal Pontefice il documento partecipa del suo Magistero, non con valore normativo, ma dando delle linee di orientamento».

Si tratta di una questione decisiva e l’aver escluso la valenza normativa delle indicazioni a favore di quella orientativa la dice lunga su quella che eventualmente potrà essere la ricezione dei contenuti di questo documento nelle comunità locali.

Quanti orientamenti sono stati espressi a diversi livelli? Penso in particolare a quelli della Conferenza Episcopale Italiana negli scorsi decenni. Forse troppi, tanto che il disorientamento è palese. L’ecclesiologia del magistero ci insegna che quanto non è normativo richiede rispetto e attenzione, ma in ultima analisi risulterà opinabile e dunque consegnato alla libera scelta di coloro a cui è destinato.

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Una più che discreta quantità di citazioni l’assemblea sinodale le dedica a un documento della Commissione Teologica Internazionale del 2018, intitolato La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa. Praticamente il sinodo sulla sinodalità ha finito col ripetere quanto già precedentemente delineato proprio sul tema specifico che era chiamato a svolgere. In particolare, sul sapere teologico, il sinodo non ha avuto nulla di nuovo da dire se non riproporre quanto già scritto dalla commissione teologica (si veda a questo riguardo il n. 67 del documento sinodale), dove si ribadisce la necessità di «fare teologia in forma sinodale», con citazione del n. 75 della CTI.

Da tempo mi sono espresso, per esempio in particolare a proposito del convegno sulla frammentazione del sapere teologico (1996), sulla necessità di fare teologia lavorando in équipe e non più in maniera individuale e con particolare riferimento alla ricerca, una volta che sono venute a mancare le grandi personalità che il secolo breve è stato capace di esprimere.

Ma ciò che mi sembra disatteso e risulta pertanto cifra della irrilevanza della teologia nella chiesa e nella società è il carattere propriamente «scientifico» di questa forma del sapere. Dal 2018 ad oggi, ad esempio, si è verificata la pandemia, per non dire delle guerre, a proposito delle quali il documento non propone nient’altro che l’insegnamento del papa, senza avviare alcuna riflessione sul concetto di «guerra giusta» (tema che richiederebbe l’esercizio di una teologia sinodale e che avrebbe potuto risultare esemplare).

Il periodo pandemico ha inferto un duro colpo non solo alla partecipazione al culto, bensì allo stesso esercizio della sinodalità. Non ci siamo ancora del tutto ripresi da questa crisi, di cui il sinodo avrebbe dovuto tenere conto, offrendo indicazioni alle chiese locali per uscirne e rinnovarsi facendo tesoro di quella esperienza.

Inoltre, possibile che non abbiamo nulla da imparare dall’esperienza di ricerca che, nella drammatica circostanza della pandemia, le scienze hanno saputo attivare? E perché questo non può essere un paradigma anche per la teologia?

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Nella misura in cui persegue la propria dimensione scientifica, la teologia rende un servizio alla comunità ecclesiale, aiutandola a tenere a bada tentazioni populiste e fondamentaliste sempre in agguato.

Nella chiesa dell’oggi la teologia come scienza non sembra godere di molto consenso. Infatti, spesso i teologi parlano di sapienza bypassando la scienza e le sue fatiche. L’intuizione del ricorso al metodo della «conversazione nello Spirito», certamente suggestiva, potrà risultare feconda a due condizioni: 1) che venga attuata nelle chiese locali e 2) che sia accompagnata da una riflessione critica e teologicamente rigorosa.

Il timore che spesso anima i pastori e le comunità è che si possa cedere a un certo intellettualismo del credere, per cui si preferisce saltare direttamente alla dimensione sapienziale senza affrontare le forche caudine della ricerca e del lavoro scientifico. E ciò accade anche nelle istituzioni accademiche.

Ma se fosse realmente impegnata sul piano della ricerca e nel dialogo con le altre forme del sapere, la teologia renderebbe un servizio anche alla società in quanto tale, consentendole di allargare la propria razionalità, secondo il significativo messaggio di papa Benedetto XVI.

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Il sapere scientifico è anche un pensiero critico che mette in discussione scelte ecclesiastiche inadeguate. Il fatto, inoltre, che, in momenti di particolare apertura della prassi cattolica su temi caldi, si ripeta che comunque la dottrina non si tocca, confligge con quella che ritengo una necessità impellente per la stessa vita della nostra chiesa e per l’evangelizzazione: quella che riguarda lo sviluppo della dottrina in senso newmaniano.

A tal proposito i teologi potrebbero avere molto da dire e proprio per questo vengono tenuti al guinzaglio, onde non si sviluppi un confronto critico e dialogico sulle più rilevanti questioni ecclesiali. Nel momento in cui si sottrae ai Concili particolari la dimensione dottrinale, morale e di disciplina sacramentale (n. 129) tali assemblee si riducono anch’esse al ruolo meramente applicativo e la decentralizzazione rischia di risultare monca e nominalistica.

Non dico che tali organismi debbano deliberare in queste materie, ma almeno discuterne. Siamo, infatti, chiamati a vivere l’unità della fede non della dottrina, perché come insegna Tommaso d’Aquino: «Actus [autem] credentis non terminatur ad enuntiabile sed ad rem» (S. Th. II/II, 1, 2, ad 2). E la res eccede ogni formulazione linguistica e dottrinale.

Un esempio significativo, circa l’opinabilità di decisioni prese da Roma, è stata la vicenda della pubblicazione da parte del Dicastero della dottrina della fede del documento sulla benedizione delle coppie non regolari, sul quale ci siamo espressi in questa sede (cf. qui su SettimanaNews), e ciò per non voler infierire col riferimento all’esortazione Amoris laetitia.

Perché non ipotizzare la possibilità di un «consenso differenziato» riguardo a certi argomenti ritenuti divisivi? In tal modo l’auspicata «armonia nelle differenze» (n. 1) non costituirebbe espressione meramente retorica, ma si realizzerebbe rispetto alla dottrina, mentre la fede ne garantirebbe l’orizzonte unitario. Questo sarebbe davvero un campo di prova della «teologia in stile sinodale».

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L’esperienza (mi riferisco anche alla pandemia) insegna che non si può attivare e rendere efficiente l’ospedale da campo (metafora della chiesa cara a papa Francesco) senza che alle spalle di quanti sono in prima linea non si aprano dei laboratori di ricerca teologica.

Non mancano casi di lavoro virtuoso nel campo della ricerca strutturata, ma ciò accade con grande fatica da parte di quanti vi partecipano e scarsa attenzione della comunità credente e degli editori, che scommettono piuttosto sul vincente ricorso a forme blande ed edulcorate di comunicazione del credere. Ammirevole e da promuovere certamente il volontariato anche in questo campo, ma da solo non può sopperire alla necessità di figure altamente specializzate anche di stampo teologico.

Personalmente, nel corso del mio lavoro alla Università Lateranense, ho potuto utilizzare limitate, ma decisive, risorse economiche, per esempio erogate dalla fondazione Civitas Lateranensis, voluta per questo dall’allora rettore Angelo Scola e dal competente ufficio della Conferenza Episcopale Italiana, posso quindi ritenermi fortunato, mentre il mio pensiero va ai giovani che, al contrario, non possono disporre di alcun supporto e devono pagare di persona le loro pur pregevoli pubblicazioni.

Come teologi siamo chiamati ad interrogarci, riflettere, progettare il futuro, a partire dal fatto che l’ospedale da campo ha bisogno di energie, che nell’ordine possiamo individuare come: persone, luoghi e risorse economiche per la formazione e la ricerca.  Se tale prospettiva è almeno plausibile bisogna denunciare la carenza di una politica culturale da parte delle organizzazioni ecclesiastiche ai diversi livelli e soprattutto il fatto che non si investe nella ricerca strutturata (sinodale).

Nelle istituzioni ecclesiastiche – come del resto nella politica mondana – sembra prevalere la tendenza a destinare risorse esigue alla ricerca scientifica con evidente disattenzione nei confronti del lavoro intellettuale. Un auspicabile cambio di rotta non sembra alle porte. E anche questo è un «grido di dolore».

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