La vita del mondo che verrà

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“Aspetto…la vita del mondo che verrà”, recita il Credo niceno-costantinopolitano. “Et exspecto…vitam venturi saecŭli” dove saecŭlum sta per secolo, stirpe, generazione, età, epoca, mondo.

I termini di questa folgorante, appassionante professione di fede meritano di essere chiariti. Attendiamo? Stiamo a guardare (spectāre)? Oppure crediamo? Oppure speriamo? La vita che avrà luogo nel futuro è da pensare analoga alla vita terrena? Oppure ha per suo rivoluzionario ed esclusivo referente la vita di Gesù risorto prima dell’Ascensione? La vita “al futuro” è già presente hic et nunc ed è apprezzabile nei suoi doni-primizie, o è solo in potenza (una potenza che attende chi la porterà all’atto)? Oppure è come un microscopico germe orientato verso un’intrinseca, spontanea crescita quantitativa? Il granello di senape esploderà fecondamente da sé alla stagione opportuna? Oppure si deve attendere un intervento decisivo, una soprannaturale iniziativa divina?

E tale intervento sarà efficace da solo, oppure, per quanto unilaterale e scuotente, sarà condizionato, nei suoi effetti, al nostro assenso? Forse ogni volta che una persona fa del bene contribuisce ad aprire le porte a una vita nuova. Ma se il regno tarda, non c’è che rimettersi al Dio che, confermando l’atto creatore, condurrà a salvezza quanto di positivo troverà nel mondo.

Iniziazione all’escatologico

Nel rispondere ai suddetti quesiti, due teologi e un biblista di scuola ambrosiana (nel solco della lezione di Giuseppe Colombo, 1923-2005: si pensi al volume collettivo edito da Glossa, Facoltà teologica milanese, “L’evidenza e la fede”, 1988), elaborano un’escatologia che potremmo chiamare “di iniziazione” o “ascensionale”. Gli stretti rimandi tra i contributi, la competenza degli autori e la densità tematica raccomandano la lettura di questo saggio, che consentirà approfondimenti innovativi e aprirà feconde discussioni. Un indice della letteratura citata, un elenco finale degli argomenti ed uno delle fonti bibliche menzionate avrebbero agevolato la fruizione d’insieme.

Gli autori di riferimento più espliciti sono: lo stesso Sequeri, Florenskij, Mancini, Salmann, Bloch, Moioli, Nitrola, Bonhoeffer, Rahner, Balthasar e appunto Colombo[1]. Non è svolto in questo libro un confronto punto a punto con le disparate, confliggenti correnti dell’escatologia (realizzata, conseguente, relazionale, cosmica, ecc.), poiché ci si concentra sull’esposizione di una sola linea congetturale, quella privilegiata dagli Autori, i quali non sottolineano punti di disaccordo tra loro, ma grazie a un Prologo (affidato a Sequeri) e a un Riepilogo (Bonazzoli), siglano un lavoro comune e sinergico. L’opera non è un trattato, ma ambisce a “riaprire il Credo”, dando al biblista la prima e l’ultima parola e ai teologi il compito di interpretare, integrare e mantenere in tensione dialettica le diverse affermazioni teoriche.[2]

“Iniziazione” è la cifra interpretativa della vita umana, dal suo esordio natale, alla morte, al dopo morte. Iniziazione non è, di per sé, un nome cristiano (“ire in”, andare verso). Essa è l’insieme dei riti che propiziano il passaggio (di un individuo o gruppo) da uno status all’altro, entro comunità che segnano e celebrano le transizioni dei cicli di vita, prospettando un incremento di maturità dell’esistere. Sequeri, nel volume L’iniziazione[3], ha proposto una versione cristiana del termine, in grado di collegare i gradi e i tempi dell’evoluzione spirituale, avendo come riferimento un destino, meglio una destinazione trascendente[4].

Come è tipico dei racconti dell’origine, fra cui lo stesso duplice mito adamitico di Genesi, le narrazioni disegnano l’origine, il ruolo, il fine e il senso dell’uomo nel cosmo, attribuendo alla creatura pensante un posto peculiare di rappresentanza. Il nostro destino è comunque Dio. Il nostro cuore è inquieto (e percorre le fasi vitali che gli si presentano innanzi) poiché e fino a che non riposa in Lui (Agostino).

Ora, sia nella vita individuale sia in quella universale (delle creature umane e di quelle non umane, del cosmo intero, sia pure indirettamente), il credente può sperimentare una crescita, potremmo dire, non automatica ma condizionata dalla libertà con cui l’uomo risponde all’appello unilaterale divino. Di che appello si tratta? E come ci si presenta Dio? Dio non è “condizionatamente giusto”, bensì “incondizionatamente buono”, e non fa valere a ogni costo la legge della retribuzione, ma la stravolge in nome della logica del perdono (sempre) possibile a chi si converta a lui e creda nel suo amore[5].

L’antropologo De Martino direbbe che, nei riti (come quelli appunto d’iniziazione), l’uomo fa passare nel valore ciò che in natura passa da sé. Il sapere della fede cristiana riconosce, accoglie e prega, portando a parola e a gesti (ordinari e sacramentali), la pedagogia, con cui un Dio affidabile ha pensato alle sue creature, proprio a loro, nell’atto di porle all’essere, rinnovare patti, inviare una sua privilegiata icona visibile, risuscitandola dalla morte e promettendo un ritorno, in cui il Giudizio non sarà che la faccia “seconda” della misericordia, paziente, tenera e testarda, con cui egli attende il sì dell’uomo.

Destinazione

La «vita del mondo che verrà» compie la promessa di redenzione, che fa nuova la creatura umana e la conferma nel suo rapporto con Dio, con la comunità di fratelli e sorelle e con il cosmo. E’ questa la vera “seconda nascita dall’alto” (dialogo con Nicodemo), che riempie di amore (non più esposto a separazioni) sia le precedenti figure iniziatiche (prototestamentarie) di «berit» (“alleanza” in ebraico), sia le chiamate dei pescatori alla sequela del Nazareno. L’Uno (detto in termini più filosofici) adempirà le gradite evidenze che la vita ci riserva (il patto sponsale, la speciale consacrazione a Dio, l’affidamento al Signore nella malattia, la preghiera di lode e così via), sottraendole alla corrosione della morte.

Essendo il fine (cui l’uomo è destinato) esattamente la vita in Dio, anche la morte può essere letta come un passaggio[6]. La dettagliata esegesi paolina, compiuta da Manzi, individua la seguente continuità: lo Spirito, sin dai primi giorni terreni, prende dimora nella persona credente, vivifica l’Io/anima (dotata di coscienza, volontà, sensibilità) e la fa nascere una seconda volta, abilitandola a dire “Abba, Padre!”. Tale anima, deputata di per sé a dar forma al corpo, assume via via una dimensione spirituale più differenziata. Quando la morte viene, il corpo animato (il soma psichico) è sotterrato, mentre il soma pneumatico fruisce di un progressivo incremento di docilità spirituale e agapica (che stringe il singolo al destino di tutti i figli di Dio), cosicchè esso è reso idoneo a venir risuscitato. Non fa differenza la condizione in cui la parusìa accade al soggetto: essa riguarderà l’Io senza organismo, se il credente è defunto; riguarderà invece l’Io col suo organismo nel caso di chi sperimenta da vivo il ritorno del Messia (come pensava di sé Paolo). Il risultato è una trasformazione della psiche a spirito e conseguentemente una trasfigurazione dell’organismo a corpo veramente umano[7]. La dottrina sull’anima “separata” dal corpo è confermata dagli Autori e risignificata come “trascendenza singolare” dell’essere umano, la quale è irriducibile all’organismo corporeo ricevuto nel venire al mondo[8]. L’espressione scelta dagli Autori è quella di “anima sensibile”, ossia recettiva alle affezioni e in fremente attesa della vita che verrà[9].

Qual è dunque l’immortalità che è lecito sperare? Gli Autori invitano a rappresentare in modo più vivido e generoso ciò che la stringata formulazione dottrinale condensa in scarne, timide, astratte formule concettuali[10]. Si sentono autorizzati a questo annuncio più plastico, in forza sia del contenuto delle parabole del regno, sia dell’identità del narratore Gesù, crocifisso e risorto, che i credenti attendono come giudice finale.

Il volume parla di “compensazione retorica”, ossia di un’adeguazione linguistica più fedele e ricca di ciò che la tradizione ha configurato come “regola”[11]. La grazia salvifica, del resto, è ben più ampia, feconda ed esigente della stessa pratica sacramentale e del giudizio ecclesiale, il quale, appunto per questo, non è autorizzato a pronunciarsi sulla condanna eterna di chicchessia.

Ci permettiamo di far subito notare, al proposito, che la medesima autorità può invece ufficialmente riconoscere, a privilegiati soggetti credenti “toccati da Dio”, sia santità terrena che beatificazione celeste. La divaricazione è menzionata in più punti del volume ma non è portata a fondo. Si dovrebbe a nostro avviso evitare in qualche caso, per maggior coerenza, tanto una precipitosa glorificazione post-mortem (il defunto è rientrato certamente e felicemente nella casa del Padre?), quanto un ricorso strumentale a una sorta di “elenco” nominativo dei “membri” della communio sanctorum (prudenza e ragionevole dubbio modererebbero le derive delle indulgenze “speciali”: il mio santo, il mio accordo, le mie attenuanti).

Anche l’affettuosa preghiera di intercessione per i morti e la gioiosa intercessione dei santi per i vivi (le espressioni sono di Sequeri[12]) dicono qualcosa di vero sul rapporto tra vivi e defunti, ma dovrebbero assumere una festosità più matura, meno infantilmente di parte, ricentrata in forma cristologica. E’ l’intero corpo di Cristo che ci vuole tra le sue membra attive. Viceversa le nostre membra rigenerate da Cristo (in tal senso “sante”) chiedono al Figlio di entrare esse stesse finalmente in comunione con ogni altro vivente.

Torniamo alla questione dell’immortalità. È il Risorto a garantire che il regime di amore, che egli incarnava, si estenderà alla libertà dei beati, che respireranno e godranno una vita di carità. L’attestazione biblica, la tradizione pre-scolastica e la riscoperta contemporanea delle dimensioni esistenziali della fede propiziano una formulazione la più vicina possibile al mistero rivelato, testimoniato, trascritto in guisa di dottrina.

Per fare un esempio, la rappresentazione “forense” del giudizio finale (pur sostenuta da un’iconografia pittorica strepitosa), esige di essere riletta e raffigurata con immagini e parole di altra specie. Chi si pronuncia su di noi, lo fa perché ci ama e mantiene aperta una possibilità di conversione e purificazione anche dopo la determinazione della morte corporale. La pietà di Dio non è la faccia opzionale del magistrato inflessibile, è invece l’unica, radicale figura per pensare, narrare e immaginare colui che ci ha voluti vivi, ci accompagna nelle fatiche, ci invia un avvocato (il Paraclito), spera nel nostro sì al suo invito nel gaudio eterno. Quella divina è una giustizia interlocutoria, riconciliativa, riparativa (per usare termini della moderna filosofia del diritto).

Ecco perché la teoria dei due giudizi (individuale alla morte e collettivo alla parusìa, secondo la scansione temporale con cui siamo necessitati a pensare l’eterno) non va smentita: c’è un intervallo tra decesso e ri-creazione, c’è un kairos affettivo (e infatti la tradizione parla delle pene o del godimento delle anime), in cui una prima sentenza è emessa e la creatura ne prende atto, come in un’inaspettata fase riparativa del discorso giudiziario (“giudizio di salvezza” non è un ossimoro), affidando a Dio il compito di condonare i suoi debiti verso gli altri. La speranza gioca su questa possibilità di conciliazione, in cui verrà offerto un mondo abitabile e ospitale per i corpi risorti di tutti. Le parabole del Regno alludono appunto a una “vita eterna”, che viene peccaminosamente rifiutata non dai beoni e della prostitute, con cui Gesù s’intratteneva (scandalizzando i benpensanti del tempo), ma dai graziati gelosi e dai mediatori supponenti[13].

La seconda cifra decisiva di questa proposta escatologica è l’Ascensione, una sequenza d’immagini che, grazie alla comprensione dei precedenti scritturali, porta sul proscenio il corpo risorto di Gesù quale paradigma decisivo (quale riferimento primario nella dizione analogica: analogatum princeps) per pensare alla nostra vita post-mortale come a un’esperienza almeno simile alla parentesi temporale (tra Risurrezione e Ascensione) in cui Gesù appare ai suoi e documenta la resilienza trasformata delle proprie carne e ossa, midolla e giunture, di membra che hanno fame, di mani che sanno cucinare[14]. La compatibilità cristologica vale anche per il modo in cui l’ aldilà è immaginato, nel senso che ciò che Gesù non fa e/o non può fare, nemmeno Dio lo fa in riferimento ai sofferenti che aspettano i segni di una dedizione come quella offerta dal Nazareno, il quale amò i suoi fino alla fine.

I discepoli, e noi con loro, sono dunque invitati, ancora una volta, a correggere attese “troppo umane” e ingenue illusioni di potenza, confrontandosi con colui che porta al cielo proprio le membra trafitte e non uno spirito gnostico intatto (mai ferito dalla storia)sbarazzatosi finalmente di un rivestimento materiale posticcio. Nella vita affettiva di Dio “si apre un varco” e attraverso quel varco l’umanità di Gesù prende posto nel luogo del Figlio eterno, luogo che nessun altro mai occuperà[15]. E’ l’umano “installato in Dio” che ci consente di godere la vita che verrà, cioè la vita in Dio, vedendo custodite (riparate, riscattate, conciliate, mai neglette o annichilite) le nostre relazioni affettive (che ci legano alle altre creature) entro il grembo affettivo di Dio.

Ci accadrà dunque qualcosa di simile a ciò che è accaduto al Figlio? Gli Autori rispondono positivamente e, senza scivolare nel didascalico, propongono di far leva sull’analogia. Alla morte di individui storici (cioè nella transizione che comporta già l’incontro con Cristo e il morire in lui e quindi anche un giudizio da parte sua), tali soggetti non perderanno la loro storicità, spazialità, temporalità, relazionalità, desiderio d’amore, ma manterranno e perfezioneranno questi loro tratti, fino a quanto il compimento finale li libererà da ogni lacrima, colpa, solitudine, ingiustizia. In tal modo l’insegnamento tradizionale su espiazione e intercessione dei/per i defunti può essere predicata con decisione.

 Già alla morte sapremo immediatamente della nostra eterna destinazione in Dio, un Dio che ci ospiterà nella sua intimità, accogliendo le parti più belle della nostra vita: memoria, libertà, affetti, emozioni, ruoli biografici. Ciò che era prima, ci era stato donato e conservato per venire a maturazione, passo dopo passo, anche dopo morte, e infine per mutarci nell’identità di risorti, i cui corpi avranno una triplice dimensione spirituale. Manzi riprende l’espressione “hyper” dallo Pseudo-Dionigi l’Areopagita (V o VI secolo – p. 196) e parla di un super-spazio, super-tempo, super-amore (agape), in cui vive il Signore risorto e in cui convivranno le nostre “esistenze”[16].

Godremo di spazi e tempi trasfigurati, non quindi coincidenti, ma coesistenti con quelli terrestri e in parziale continuità con essi[17]. Saremo le persone di prima, non altre. Saremo corpi reali, non più fisici né organici, ma non fantasmatici né “gassosi” né solo psichici (né del tutto “immateriali”), bensì dotati di capacità di contatto con le “cose”, sganciati dalle limitazioni che soffocavano intelligenza, decisione, percezione. Corpi di creature, quindi dipendenti dal loro Signore e sospesi a lui, ma diventati incorruttibili, immortali, gloriosi, forti (e non disciolti in un’indefinita trascendenza), fruitori ed elargitori di buone relazioni d’amore con le altre creature e l’unico creatore.

Questioni aperte

Il dibattito che si aprirà in merito a questa coerente, documentata e accattivante proposta, toccherà presumibilmente alcuni punti delicati sul piano teologico.

Sovraspaziale, sovratemporale, sovragapico sono i predicati attribuiti a una vita (quella del “secolo venturo”), che differisce da quella terrena (spaziale, temporale, agapica), ma non la contraddice totalmente[18] e quindi può venire nominata e immaginata con realismo, senza scivolare nell’apofasi, nella chiacchiera pseudo-devozionale o nel delirio mistico. E’ un pregio del volume aver riabilitato la connessione intrinseca tra le due modalità del pensiero: pensare cioè per concetti e per figure/storie/immagini mobili).

Si potrebbe far notare che la scansione natura-soprannatura ha mostrato debolezze variegate in sede teorica. La grazia è infatti interiore alla natura ed è come tale intrascendibile (Rahner). D’altro canto, la nozione teologica di “natura” è attingibile solo per astrazione e sottrazione rispetto all’ordine creato che è quello intriso di grazia (Balthasar)[19].

Ebbene, se il “sopra” (supernatural in inglese, oppure Übernatürlich, surnaturel, sobrenatural) indica un incremento quantitativo, tale divaricazione diventa in parte inservibile, in parte umiliante. Risulterebbe infatti svilita una fede religiosa (fides qua) che ambisca a rivendicare la mera capacità di utilizzare un cannocchiale gnoseologico un po’ più potente di quello (del medesimo tipo) impiegato dalla ragione (ratio).

Se invece il “sopra” implica una differenza qualititativa, si apre il problema di come descrivere ciò che risulta comunemente estraneo alla nostra esperienza corporea e che infatti viene attribuito dagli Autori alla modificazione dell’organismo indotta dallo Spirito. Che cos’è questo Über ? E’ qualcosa di “altro”? Di assolutamente oppure  relativamente “altro”[20]? Che un corpo umano attraversi i muri, scompaia e ricompaia a piacere, si faccia presente in più luoghi, sia transitoriamente riconoscibile o invece (in altri momenti) irriconoscibile, tutto ciò non è logicamente contraddittorio, ma è, in senso nobile, paradossale[21]. Può essere preso alla lettera? Oppure ha una valenza simbolica come quando si dice che, pregando, si possono smuovere le montagne? Oppure si tratta di un oracolo veridico (anche questo in senso nobile), un oracolo in attesa di un ermeneuta, come quando le streghe profetizzano a Macbeth che la foresta di Birnam avanzerà, si muoverà verso il castello?

In E la vita del mondo che verrà i tre studiosi portano a fondo l’impegno teologico del XX secolo a costruire un’antropologia non contrapposta al dato sovrannaturale, un’antropologia più duttile a stringere i rapporti con l’ “oltre”. Il punto è che non disponiamo di un’ontologia dell’umano che sia in grado di cogliere intuitivamente l’essenza e i confini della natura creata. Facciamo un solo esempio. Da alcuni anni contestiamo la presunzione teorica di certi teologi morali di orientamento “mortalistico”, i quali affermano che la morte è condizione costitutiva dell’uomo. Noi, che invece siamo “immortalisti”, pensiamo che il senso di scandalo, sperimentato davanti al decesso di un nostro simile, evidenzi un’immagine di vita radicalmente diversa: l’uomo è un essere che non solo desidera legittimamente la vita e la felicità, ma che “costitutivamente” può non morire. In effetti gli era possibile (e tuttora gli è possibile, in linea di principio, anche se di fatto ne siamo purtroppo lontani) godere indefinitamente di Eden se avesse mangiato solo i frutti dell’albero della vita!

Occorre quindi fondare l’eidetica dell’umano sull’esperienza pratica del sentirsi donati a noi stessi. Balthasar ha chiarito in modo eloquente come il cristianesimo non sia né una filosofia della natura nè un’antropologia razionale: la rivelazione non va certamente contro nessuna buona aspirazione umana, ma il nostro cuore “comprende se stesso solo se ha anzitutto percepito l’amore, volto verso di lui, del cuore divino trafitto per noi sulla croce”[22].

In sintesi, non disponiamo di un’intuizione eidetica del “naturale” e la teologia fonda l’antropologia, in ultima analisi, sulla cristologia. Lungo questa strada, gli Autori s’imbattono inevitabilmente nella difficoltà di predicare universalmente ciò che attiene alla singolarità di Gesù. Infatti Gesù Cristo, creatore degli uomini, è la loro immagine perfetta; conseguentemente il destino dell’umano è la conformità con Gesù Cristo[23]. Ora, il “proprium” del Figlio (l’intimità impareggiabile col Padre) impedisce un’applicazione deduttiva all’uomo dei tratti che connotano Gesù in modo specifico. Il riferirsi immediato di Gesù cristo a Dio ne istituisce la trascendenza, che è irriducibile rispetto a ogni altra possibile attuazione dell’umano. I due termini dell’alleanza (il divino e l’umano) non si intendono a prescindere dal loro rapporto e previamente al loro patto (come se uno fosse la sopra-natura e l’altro la natura). Ma tra le due polarità una differenza ovviamente permane e il linguaggio simbolico si impegna a nominare contemporaneamente entrambe: identità e differenza.

Ciò apre diversi problemi. Gli Autori respingono la demitologizzazione alla Bultmann[24]. Con nostre parole, il mito non è sostituibile dal logos. Il simbolo dà a pensare (Ricoeur) e nel pensiero, apparentemente intellettuale e astratto, c’è già in azione una metafora sbiadita (Derrida). Ma la questione resta: “sovra”, “sopra” sono preposizioni e avverbi di luogo. Come possono venir predicati di “tempi” e “relazioni”? Il “sovraspazio” non è quello della fisica e l’”iperspazio” non è quello della science fiction, ma indica la trascendenza del referente teologico rispetto a quello scientifico o a quello del luogo comune. Ora, ciò che trascende non è descrivibile direttamente, ma solo mettendo in tensione l’intero esercito di metafore (come chiamava Nietzsche la verità: un mobile esercito di metafore) aventi, in questo caso, un rinvio spaziale. Jaspers aggiungerebbe: ciò che trascende si manifesta (come contenuto pensabile e credibile) a ciascuna persona secondo singolari e irripetibili cifre di lettura.

 Nel volume di cui discorriamo, invece, gli Autori puntano a una verità unica, dottrinalmente definibile e trasmissibile. Essi percorrono l’unica via praticabile: narrare da capo le narrazioni neotestamentarie a proposito della vita e del post-mortem di Gesù. Lui è l’eschaton, il definitivo, che fa da parabola di ogni parabola. Lui ci trascende come Figlio, ma è immanente come Gesù e perciò ha il potere di portarci in e con lui entro una delle dimore, dove ha casa il Padre.

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Rispetto alla vita ordinaria, pertanto, Gesù il Messia rappresenta l’oltre, che anche noi saremo. Anche i nostri corpi godranno della docilità che il suo corpo manifestò in vita (camminare sulle acque, comandare agli spiriti immondi) e soprattutto dopo la sua morte (sepolcro vuoto, lini piegati, apparizioni di un non-fantasma, epifanie di un non-ologramma). E’ la buona notizia, la vittoria sulla morte, che la chiesa contemporanea non ha sempre il coraggio di attestare, per timore di critiche da parte di uno scientismo supponente e per il vistoso privilegio pastorale concesso ad iniziative di carità terrena.

È lecito comunque domandare a questa escatologia “dell’ascensione” se l’esegesi, che gli autori svolgono con acribia, non sia a sua volta guidata da una teologia implicita. In tal caso, non si potrebbe trarre dalla lettura dei testi neotestamentari (a loro volta intrecciati con altri del primo testamento) una delineazione univoca del significato di nozioni quali: natura, sovra-natura, corpo, spazio, temporalità, amore agapico, ma ci si dovrebbe limitare a difendere una specifica, parziale, provvisoria interpretazione dei medesimi[25].

Senza cadere in relativismi, bisogna riconoscere, a nostro avviso, che un’opzione escatologica precede e guida (e non invece “segue”) l’applicazione dell’apparato storico-critico a testi della Scrittura. E’ tale opzione che induce a operare un certo tipo di distinzione tra spazio e sovra-spazio, tra tempo e sovra-tempo, tra amore e sovra-amore. Detto simbolicamente, il tempo-di-Dio è già nel mondo (nel tempo-del-mondo) senza identificarsi con quest’ultimo, come accadrebbe nel panteismo. Per contro, il tempo-del-mondo (così come lo spazio e l’amore umani) è già da sempre nella vita trinitaria, se “assolutamente al principio la determinazione divina ha predestinato Gesù Cristo e in lui ha predestinato l’uomo” e con esso la creazione intera[26]. Per questo motivo, come dicevamo, i due poli risultano inscindibili: non c’è alcuno spazio, tempo o amore, la cui natura sarebbe immediatamente conoscibile, come dato antropologico, a monte del disegno di grazia (comprensivo di incarnazione, redenzione, risurrezione finale), che Gesù Cristo fonda ed esibisce esemplarmente per ogni uomo.

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Le parabole dell’èschaton. In un epistolario sul tema del male, cui quindici studiosi hanno risposto, abbiamo abbozzato una teoria delle parabole, quali narrazioni brevi aperte a significati molteplici[27].

Quali significati? Ci riferiamo ai seguenti:

  1. il Regno, cui rinvia l’immagine o la microstoria tratta dalla vita ordinaria dell’ascoltatore;
  2. il narratore identificato sia in Gesù che racconta, sia nella comunità che, attraverso l’evangelista, attesta ciò che il Narratore aveva narrato;
  3. Gesù come parabola di ogni parabola, come il tema di fondo, il paradigma, l’aboutness ultimativo (costituito dal Figlio dell’Uomo come figura di auto-rappresentazione e auto-affezione privilegiata da Gesù);
  4. la pratica narrativa, come via maestra per pensare Dio;
  5. il principio (ἀρχὴ) di ogni racconto, il racconto infinito da cui i singoli racconti si ritagliano uno spezzone, la fonte (Verbum) da cui sorge e cui conduce il desiderio di narrare. Una fonte e un principio, che, paradossalmente, si mostra interessato a venir narrato!

Nella cortese replica al mio scritto il biblista Matteo Crimella faceva giustamente notare i rischi di una lettura allegorica delle parabole, le quali rivelano essenzialmente quale fosse lo sguardo di Gesù sul mondo e spianano la strada all’accoglienza del kerigma, Ma le parabole non assorbono il vangelo (mentre come curatore del volume collettivo io avevo forzato i racconti di Gesù entro la logica categoriale della teodicea). Le parabole sono meccanismi argomentativi che rimandano al mistero della persona di Gesù e che rimuovono pregiudizi. Ma esse non esplicitano meccanicamente la dottrina, esigono invece una successiva rifigurazione teologica.[28].

Ora, nel volume E la vita del mondo che verrà, Manzi precisa che ogni eventuale attribuzione di ruolo (il padrone è Dio, il furbo debitore è il fariseo, ecc.) va declinata con attenzione. In alcune parabole è chiaro che il Dio di Gesù Cristo non può essere il cinico, sanguinario padrone, che fa strage di chi si è rifiutato al suo signorile, implacabile. appello. In altre parabole invece, l’accostamento o addirittura l’identificazione è messa in bocca proprio a Gesù, che fa l’ermeneuta di se stesso.

  Ciò che gli Autori auspicabilmente svilupperanno, dopo aver firmato questa bella opera collettiva, è una riflessione narratologica sulla polivalenza del racconto rispetto al logos[29]. Si afferma giustamente che è il secondo, il logos, a doversi aprire al primo, ma non si evidenziano rinvii del racconto alla pratica del narrare e al princìpio d’ogni racconto (come li abbiamo sopra chiamati)[30]. Senza questi approfondimenti, non si spiega perché sia la parabola il medium più ricco sul piano dell’esplorazione dell’eschaton, che è appunto fine, compimento, definitività.

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È aperta la questione di come possa darsi una sostanza spirituale, che sia al contempo a) separata dall’organismo precedente, che sta per scomporsi dentro la tomba in un disfacimento anti-vitale e b) in grado di svolgere funzioni sensibili e affettive e non solo quelle puramente intellettuali (come farebbe uno sterile intellectus siccus)[31].

Secondo la Commissione Teologica Internazionale espressasi sull’escatologia (1992), è lo stesso corpo quello che ora vive e quello che risorgerà. Non si vede come aggirare questa coincidenza. Anche quelle linee tomistiche, che difendono la sussistenza dell’anima separata e attribuiscono a tale anima la tendenza intrinseca a farsi corpo, a dar forma al corpo, a risorgere nel corpo, devono confrontarsi con la radicale speranza che tale corporeità sia quella pre-mortale, per quanto trasfigurata. Non basta una generica ipseità morale. Occorre una certa identità, o meglio una reidentificazione in grado di esibire un grado di continuità nonostante e attraverso i mutamenti di un corpo materiale, che la malattia mortale ha frantumato e che nell’ultimo giorno si ricomporrà. Non sarà una rianimazione, come fu per Lazzaro e non fu per Gesù. Ma anche per Gesù non ci fu sdoppiamento di corpi. Era il suo corpo di prima, quello risorto ed era inciso delle vecchie ferite, ma dotato di poteri trasmutati.

Le ipotesi storicamente accreditate sono diverse ma risultano tutte poco convincenti.

  1. se il corpo è con-soggetto di attività, almeno per la conoscenza sensitiva, allora si dovrebbe riconoscere una corporeità all’anima (Io), ma ciò contrasta con la nozione tradizionale di spirito “separato”.
  2. se l’anima separata non può più trarre i concetti dalle immagini/oggetti forniti dal corpo, di cui essa era forma, l’anima potrebbe ricevere direttamente da Dio le idee delle cose (ma sembra inopportuno scomodare Berkeley).
  3. oppure, come sostengono gli Autori, lo Spirito creatore trasfigura il nostro spazio/tempo e abilita l’anima spirituale a fungere da regista della stessa percezione sensibile[32]. Per fare un esempio, si coglie la tenerezza di qualcuno in un suo gesto o parola, ma si avverte nel contempo che tale qualità affettiva trascende la singola manifestazione e attiene all’anima in quanto tale. Conclusione? L’anima spirituale, separata dal suo corpo mortale, è a suo modo “materiale” (più esattamente: non è immateriale[33]) e la sua rinnovata corporeità abiterà, coi fratelli, le sorelle e tutti i viventi, il “mondo” di Dio.

La tesi C) è interessante, ma è stata criticata da versioni escatologiche precedenti, perché proprio la lezione fenomenologica che distingue il Körper (corpo oggetto) dal Leib (corpo vissuto), esclude che si dia una Leiblichkeit senza Körper. Il corpo, che io sono (Leib), precede ontologicamente il corpo che io ho (Körper), ma non se può sbarazzare, poiché appunto nel moto trascendente, in cui l’identità soggettiva assume questa o quella prospettiva corporea, il Leib diventa (deve poter diventare o ridiventare) Körper. In tal modo si trasforma in dato studiabile a distanza appunto quella parte che prima costituiva per l’anima il suo proprio inoggettivabile ma pensabile Leib, carico di vissuti affettivi tipicamente personali.

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Ultimo punto controverso è la questione del male. Nella parabola dei lavoratori presi a giornata si evince che “nel giudizio finale tutti scopriranno di essere non in credito, ma in debito con Dio”[34]. La cultura odierna parla però un’altra lingua. Una larga parte della letteratura e del cinema contemporanei esprime un vissuto diverso: siamo stati chiamati, senza chiederlo, con la nascita, in una realtà attraversata anche da violenze e contraddizioni, da scandali ingiustificabili che travolgono bambini innocenti, del tutto inidonei a godere dei benefici di riti, iniziazioni o perfezionamenti spirituali. A chi, se non (anche) a Dio, i rappresentanti delle vittime chiederanno conto? Oltre i criminali colpevoli, c’è un fiume di negativo che attraversa il cosmo. Forse qualcosa della creazione è rimasto incompiuto? Qualcosa è andato storto?

Viene alla mente Paolo De Benedetti, il biblista ed ebraista che aveva abbozzato nientemeno che una teologia del debito di Dio. E’ arduo difendere un’ottimistica visione della vita e proclamare con gioia la “buona novella” (evangèlo), senza attraversare con ribrezzo quella fetta di male che i giorni sotto il sole ci riservano[35]. Giobbe rifiuta polvere e cenere e questo lo consola e gli dà la forza di chiamare Dio a testimone processuale, un Dio che lo loderà per la sua coerenza[36]!

Quanto scriviamo in questa sede è frutto di riflessioni personali che esulano dalle tesi esposte nel volume di Sequeri, Bonazzoli e Manzi, ma che ci sembrano utili per criticare una tendenza, che in bioetica clinica abbiamo visto purtroppo presente nel discutere o presumere di individuare addirittura un “senso del male”. Il cristianesimo (quello meditato dalla mistica renana, da Schelling, da Pareyson) non può far sua l’opzione quietista (diffusa nel seicento francese e spagnolo) secondo la quale chi ama Dio quale architetto e monarca dell’universo, non solo è saggio ma è anche felice, poiché contempla un mondo ordinato e armonico. Cosicchè amare Dio basterebbe alla salvezza e alla felicità in un colpo solo. Il semplice fatto di ipotizzare (leibnizianamente) che viviamo nel miglior mondo possibile (al quale forniamo una specie di approvazione forfettaria in quanto derivato e garantito dalla perfezione divina), non sembra realisticamente in grado di coniugare, in maniera fondata, a nostro avviso, beatitudine è virtù.

Il volume E la vita del mondo che verrà interpreta con coraggiosa coerenza cristiana alcune parole diventate difficili da utilizzare, a giudizio di studiosi come Hans Jonas, parole addirittura ambigue dopo le guerre mondiali e Auschwitz. “Iniziazione”, “prova”, “pedagogia”, “sofferenza salvifica”, “lontananza del Padre”, “riconciliazione”, sono termini ardui da giustificare razionalmente a fronte del destino straziante che ha strappato e violentato relazioni preziose. Nessun padre, potendo intervenire, avrebbe lasciato al criminale la potestà di infierire a quel modo sui suoi figli. O addirittura di abusarne.

Analogamente, l’assimilazione metaforica della morte a un “passaggio” o a un “sonno” o a una “nascita” risulta poco comprensibile a quanti, credenti e non, hanno appreso da Bloch e Moltmann a riconoscere, denunciare e contrastare il carattere “letale” della morte, le cui ganasce stritolano la storia e non rispettano alcunchè di separato, di extraterritoriale, di immune dal suo morso. La morte è un male, in sé, e merita un’opposizione. Se la morte strappa una vita, il rito porta a parola e a gesti questo lancinante dolore, non lo seda in forme consolanti.

Le virtù teologali si oppongono alla brutalità della fine non “grazie a” e “a causa di”, ma “nonostante e attraverso” il dolore assurdo e la malattia disabilitante, infausta e alienante, che i servi di YHWH sono costretti a patire. Nessun Dio che «desideri» condividere per sempre con l’uomo la propria sorgiva «gioia di vivere» assieme a noi (secondo una felice espressione di Sequeri[37]) può aver pensato a un percorso educativo o iniziatico che includa “prove” ingiustificatamente, sproporzionatamente onerose.

Manzi disegna con speranza il riposo eterno quale congedo dagli affanni ma anche quale festosa adunanza e aggiunge che i beati, ricordando i patimenti sopportati, ne custodiranno solo il senso salvifico, poiché ogni frammento del loro essere è ormai stato redento e riscattato in forma definitiva ed esperibile[38]. Intuizione efficace! la quale meriterà approfondimenti, poichè il ricordo di un’ingiusta violenza (fatta o subita) è intimamente connesso al vissuto emotivo (dolore, colpa, rabbia, ecc.). Si potrebbe forse dire che, se muta questa risonanza affettiva (anche nel ricordo), muta la stessa esperienza.

Elaborate queste precisazioni, la proposta escatologica di Iniziazione/Ascensione eviterà di venire fraintesa e fatta coincidere con una rasserenata Aufhebung idealistica, in cui ogni male trovi senso in vista di un bene maggiore e la ferita, il negativo subiscano un’elaborazione e un rimodellamento gioiosi.

Redenzione e affezione

La redenzione di un’affezione corporea sarà come la guarigione di una piaga. La percezione della sofferenza pregressa non sarà mai dimenticata e trasformata nel suo contrario. Sarà piuttosto superata e inscritta in sentimenti più vasti.

Lo stesso Gesù si presenta ai suoi con i segni della passione, per quanto essi possano essere apparsi urtanti o imbarazzanti per qualche discepolo. Il negativo rimane, come scriveva Pareyson, al modo di ciò che è rifiutato e sconfitto da Dio in nome del bene, ma che resta incistato nell’essere come possibilità abissale, come il “passato” del Dio-per-noi e con-noi. Come una maligna “mano sinistra” divina, paralizzata ma non amputata.

Dell’attivazione di tale possibilità negativa si può far complice la libertà cattiva dell’essere finito e libero. E l’uomo, anche nell’assemblea dei Santi, resterà un essere finito e libero. Infatti, senza memoria, senza desiderio, senza libertà di decidersi per l’Uno, non ci sarebbe vita umana risorta. Per questo ci auguriamo che qualcuno preghi per noi. Il nostro riposo in Dio non sarà congelamento o reificazione. Saremo anzi ancora più liberi, con i nostri affetti, ricordi e rapporti.

Saremo liberi per il Dio che ci ama e che ci trascende perennemente (Os 11,9: “sono Dio e non uomo”). Saremo conformati a lui, non omologati e sacralizzati, e saremo pienamente in grado di dirgli di sì, nella libertà e lungo un cammino ininterrotto d’iniziazione e ascesa. Non finiremo mai di nascere…[39].

  • Pierangelo Sequeri, Davide Bonazzoli, Franco Manzi, E la vita del mondo che verrà, Milano, Ed. Vita e Pensiero, 2024, pp. 271, euro 20.  [agosto 2024 SettNews]

[1] Bonazzoli ricostruisce i momenti più significativi dell’evoluzione teologica in materia (pp. 90-114). Di Balthasar si sottolinea la svolta de-cosmologizzante: i Novissimi non sarebbero da intendere tanto come luoghi, quanto come forme della nostra relazione con Dio nel Figlio Gesù: “ogni uomo che muore viene incorporato nel corpo celeste, ossia nell’umanità risuscitata di Cristo” (Bonazzoli, p. 100, citando Balthasar). Gli Autori del volume recuperano però una componente “sovra-spaziale” e quindi anche sovra-cosmica.

[2] Bonazzoli, p. 265.

[3] P. Sequeri, L’iniziazione. Dieci lezioni su nascere e morire, Milano, Vita e Pensiero, 2022.

[4] Si legga l’ultimo capitolo, in particolare, «Generazione eterna come vita e destino»: “La nostra iniziazione, avviata con la nascita, mette alla prova io/noi, quanto alla serietà con cui diciamo di amare la vita” (p. 199). Nel volume E la vita del mondo che verrà, Sequeri riprende le precedenti categorie d’analisi, applicandole all’attuale condizione storico-culturale, nel lungo capitolo “Nascere è per sempre”, pp. 125-188, ma – come egli stesso riconosce a p. 137 – l’approccio è un po’ troppo celere e le tesi potrebbero risultare, a tratti, a qualche lettore (che non conosca scritti precedenti), un poco ellittiche e astratte.

[5] Se fosse un magistrato retributivamente inflessibile, nessuno potrebbe salvarsi. Se lo facesse, ci troveremmo per le mani un straccio di contratto insolvibile, invece che le tavole di un’alleanza creativa, redatte e siglate a nostro ultimativo beneficio.

[6] Manzi, p. 220.

[7] E’ citato Karl Rahner, La risurrezione della carne, a p. 217, nota 63. Rahner definisce il corpo spirituale di 1 Cor 15,44 “vera corporeità che è tuttavia pura espressione dello spirito, il quale è diventato tutt’uno con il Pneuma di Dio”.

[8] Sequeri, p. 12.

[9] Bonazzoli, p. 270.

[10] Sequeri, p. 13.

[11] Cfr. Sequeri, p. 17.

[12] Id., p. 25.

[13] Alle pp. 58-68, a firma di Manzi.

[14] Manzi, p. 202. Sequeri dichiara alle pp. 174, 177 e 187, la sua propensione a valorizzare l’originalità del dogma cristologico dell’ascensione corporale di Gesù, saldandolo con la fede nell’eterna generazione trinitaria del Figlio. Nel Mistero dell’Ascensione gli Autori rintracciano le ragioni per pensare a una transizione di ogni  defunto verso un’identità che custodisca e riscatti la dimensione sensibile della sua precedente spiritualità.

[15] Sequeri, p. 176.

[16] Si può parlare anche di un iper-tempo  o di un sovra-tempo (Bonazzoli, p. 268).

[17] Cfr. Manzi, a p. 195, ove si distingue continuità da discontinuità.

[18] Anzi la potenzia (Manzi, p. 195).

[19] G. Colombo, “voce “Soprannaturale”, Diz. Teol. Interdisc., Torino, Marietti, 1977, pp. 298-299, vol. III.

[20] Si ricorderà l’ambivalenza dello stesso Barth: 1) dell’alterità trascendente non si può dir nulla e la fine non è la fine del mondo né una catastrofe storica o tellurica, poiché l’assoluto ci appare e ci tocca ma non si lascia vedere; 2) in un secondo tempo Barth riconobbe l’importanza di assegnare una fine reale al mondo e un ruolo reale a chi vive l’avvento del Regno. Cfr. il commento di G. Greshake in “Escatologia”, voce in Dizion. Critico di Teol., di J.-Y Lacoste, ed. it. a cura di P. Coda, Roma, Borla – Città Nuova, 2005, p. 495. Vol. 1; ed. or. Parigi, 1998. Di seguito I. Sanna cura la seconda voce “Escatologia” nello stesso primo volume, pp. 498-502.

[21] Sulla nozione di paradosso in Marion (quale nozione tipica del fenomeno di Rivelazione) cfr. il nostro volume  Ci ha Dio. In dialogo con Jean-Luc Marion, Venezia, Marcianum Press, 2024.

[22] H. Urs von Balthasar, Glaubhaft ist nur Liebe, ed. or. 1966, tr. it. Solo l’amore è credibile, Roma, Borla, 1982; tr. fr. p. 183, riportato da O. Boulnois, voce “Soprannaturale”, in J.-Y Lacoste, Dizion. Critico Teol., cit., p. 1276.

[23] Colombo, “Soprannaturale”, cit., p. 300.

[24] Si veda Manzi, p. 43.

[25] N. Ciola, “Soprannaturale”, voce, in Encicl. Filosof., Milano, Bompiani, 2006, p. 10869. F.G. Brambilla, “Dal soprannaturale all’uomo in Gesù Cristo”, in AA. VV., L’intelletto cristiano,  Milano, Glossa, 2004, pp. 125-163.

[26] I. Biffi, in AA. VV., Veritatis Splendor, Roma, Dehoniane, 1994, p. 88.

[27] “Di che cosa parlano le parabole evangeliche?, in P.M. Cattorini, a cura di, La fede oltre le tenebre. Un epistolario teologico sulla questione del male, Carbonia, Susil, 2023, pp. 140-154.

[28] M. Crimella, “Le parabole e lo sguardo di Gesù”, in La fede oltre…, cit., pp. 162-166.

[29] Lo spazio è ovviamente tiranno, come Manzi stesso fa notare nella nota 20 di p. 53. L’immaginazione di Gesù, in merito allo statuto del regno, è poderosamente creativa ed è a stento costretta entro limiti pedagogici imposti dagli evangelisti. Il problema non è quindi di rigorizzare il racconto, ma di raccontarlo ancora, di espanderlo, di farne un’opera aperta, che nemmeno le biblioteche del mondo intero potrebbero contenere (il bel secondo finale del quarto evangelo!).

[30] Manzi, p. 44.

[31] Manzi riconosce le difficoltà teoriche di esibire una spiegazione (p. 233).

[32] Sequeri, p. 26.

[33] Nel senso precisato da Sequeri a p. 28: sensibile a sufficienza per ricevere e donare affezione.

[34] Manzi, p. 65.

[35] I. Bertoletti, Paolo De Benedetti. Una teologia del debito di Dio, Brescia, Morcelliana, 2013. Dio stesso avvertirebbe con dolore il ritardo del “ritorno” e si sentirebbe “in debito” verso l’uomo irredento e verso la creatura che geme incolpevole. Sinchè questo gemito si alzerà, Dio stesso resterà “diviso”. Non essendo tutto in tutti, Dio non è ancora se stesso e ne patisce, come se il segno dei chiodi gli facesse ancora male.

[36] G. Borgonovo, a cura di, “Giobbe”, in Bibbia, Torino, Einaudi, 2021, p. 326, v. II, cap. 42,6.

[37] Nel volume di AA.VV.,  Il significato cristiano della sofferenza, Brescia, La Scuola, 1982, p. 110.

[38] Manzi, p. 232.

[39] Bonazzoli, p. 271, scrive: “Per finire di morire, per finire di nascere.”.

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4 Commenti

  1. Stefy 9 settembre 2024
  2. Francesco 29 agosto 2024
    • Pietro 30 agosto 2024
  3. Pietro 29 agosto 2024

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