«Sola fide numquam sola». Al centro del discorso etico del protestantesimo storico c’è questo concetto: la salvezza avviene per sola grazia mediante la fede, è gratuita, ma non è mai sola; dentro la fede c’è un completo rinnovamento dell’esperienza umana.
Ilenya Goss: l’etica come sequela
A spiegarlo chiaramente è Ilenya Goss, pastore valdese della chiesa metodista di Vicenza, intervenuta a Padova alla Facoltà teologica del Triveneto all’incontro di apertura del ciclo di incontri “Dove va la morale? L’etica nello spazio ecumenico”. I promotori dell’iniziativa, Facoltà e Fondazione Lanza, si propongono di mettere in dialogo le differenti prospettive etiche delle Chiese cristiane e il primo scambio, il 30 novembre scorso, è stato fra la pastora evangelica e il teologo cattolico Giuseppe Quaranta, docente di etica teologica alla Facoltà.
«Pensare ad un annuncio dell’Evangelo che non impatta nella realtà sarebbe un tradimento dell’Evangelo – ha affermato Ilenya Goss –. L’annuncio dell’Evangelo comporta anche una vita completamente rinnovata e non si traduce in sola etica. Il cristiano è liberato da Dio, in assoluta gratuità – la giustificazione è il cuore del messaggio della Riforma di Lutero –, perché egli possa servire l’altro: il cristiano riceve amore per trasmetterlo». Si tratta di un’azione compiuta da Dio dall’inizio alla fine, non c’è un’opera meritoria dell’uomo: Dio che giustifica anche santifica l’uomo nella sua realtà quotidiana.
Nel protestantesimo storico (quello cioè delle Chiese che fanno riferimento diretto alla Riforma del Cinquecento) – ha precisato la pastora – l’etica non è biblicista, non cerca nel versetto la risposta alle questioni, né fa riferimento ad una legge naturale, perché l’etica teologica non poggia su un discernimento umano.
«Al centro dell’etica – spiega Goss – sta l’idea di vocazione: il fondamento non è ontologico, metafisico, ma è una parola che mi viene rivolta. Dio rivolge la parola all’uomo che ha il “cor incurvatus”, ripiegato su se stesso, incapace di avere una relazione con sé, con l’altro, con Dio; mediate la grazia, Dio raddrizza questo cuore, lo libera, gli dona la salvezza, lo porta sulla via dell’imitazione e della sequela».
Il discepolato è il cuore dell’etica protestante: «Fondamento dell’etica è Gesù Cristo, non i principi – precisa la pastora –. Dio rivolge la parola, chiama l’uomo, lo invita a seguire Cristo; la chiamata implica una risposta: l’uomo è un soggetto interpellato dalla parola ed è reso libero per servire l’altro: il cuore “raddrizzato” è di nuovo capace di relazione».
L’etica è quindi svincolata dall’idea di merito e il discernimento, è cercare la migliore sequela di Cristo in quel contesto, in quel momento, perché la sequela di Cristo è sempre in situazione. «La regola unica è l’amore; nei rapporti ci sono delle direzioni, sempre dettate dall’amore, ma non c’è il principio assoluto». Dove va, allora, la morale? «La morale – ha concluso Goss – deve guardare a Gesù Cristo, in una sequela il più possibile fedele del Signore Gesù».
Giuseppe Quaranta: l’etica come libera risposta
Giuseppe Quaranta ha portato nella discussione la voce della teologia morale cattolica più recente, a partire dai capisaldi indicati da Luigi Sartori in un testo del 1985, dove i cristiani sono esortati a uscire fuori e a dare un contributo al formarsi di una coscienza morale collettiva, a operare un discernimento ermeneutico della propria tradizione. «Parole feconde – ha commentato Quaranta –, perché indicano che l’orizzonte ultimo del dialogo sta oltre noi stessi e compito nostro è contribuire alla costruzione della coscienza morale collettiva per custodire il senso del vivere insieme fra persone differenti. La rilettura della propria tradizione, inoltre, è un lavoro anche interconfessionale/transconfessionale da fare insieme, ed è il lascito del Vaticano II, non solo come corpus di testi, ma pure come modo di procedere».
L’esistenza cristiana comporta una contemporaneità nel mondo e nella storia, entro la quale si devono discernere i segni della presenza di Dio. Ciò vale anche in tema di libertà, pure se il magistero e la teologia cattolica – sottolinea Quaranta – con fatica hanno accettato i processi moderni di libertà, almeno fino al Concilio. «Il messaggio centrale del cristianesimo (il discorso della salvezza e della redenzione) spesso non viene interpretato come incoraggiamento alla libertà, ma piuttosto come monito di fronte alle ambivalenze della libertà moderna e come una via d’uscita alle sue aporie. E allora viene da chiedersi, con Eberhard Schockenhoff: la Chiesa ha davvero capito che cosa significa annunciare il vangelo in una società fondata sulla libertà?».
La teologia morale cattolica più recente si è impegnata a fondo per raccogliere le indicazioni di Sartori e «reinterrogare i testi biblici, a partire da una comprensione basata sull’evidenza che l’essere umano giunge alla coscienza del suo compito etico attraverso il dramma della vita: la libertà non è presunta, senza storia, senza grazia, senza fede: occorre pensare a una libertà che si istituisce nel dramma della vita».
Il cammino dell’esodo è un cammino di liberazione verso una terra che può essere abitata solo a prezzo della fede. La necessità della scelta si impone nel deserto, dove le evidenze più promettenti che hanno permesso di vivere e di camminare senza accorgersene, nel tempo della prova lasciano il posto alla necessità di scegliere. «Il nesso tra liberazione e impegno della libertà, tra essere liberato (passivo) e capacità di volere, si realizza nella forma dell’obbedienza alla parola, che è anche servizio libero. È questo il tratto più scandaloso e provocatorio di una libertà drammaticamente intesa».
Ciò lascia aperte molte questioni e per questo è urgente «pensare l’etica come esperienza pratica di interazione, come riacquisizione di una grammatica etica personale e comune che è andata smarrita, di ripresa in mano della propria esperienza ferita e di ricostruzione di se stessi e delle proprie relazioni. Forse – ha concluso il teologo – è proprio questa la grazia da cogliere insieme, senza cancellare le nostre differenze, ma impegnandoci a renderle compatibili con una testimonianza comune della nostra fede».