Già da alcuni anni il venerdì santo è caratterizzato da un appuntamento importante per tutto il mondo cattolico e probabilmente anche per diverse persone che non vi appartengono. Si tratta della Via crucis guidata dal papa presso il Colosseo, un evento che lascia un’emozione e una traccia profonda nel cuore di tanta gente, anche grazie all’efficacia delle riflessioni che vengono proposte e della rappresentazione commovente del cammino di Gesù verso la morte.
Una Via crucis “tradizionale”
La principale novità di quest’anno è stata rappresentata dalle meditazioni che hanno accompagnato le varie stazioni, dal momento che sono state preparate da quindici giovani di un’età compresa tra i 16 e i 27 anni.
In preparazione al sinodo dedicato al mondo giovanile, il pontefice ha voluto mostrare che questo può e deve essere protagonista della vita ecclesiale, perché sa pensare la fede a suo modo ed evangelizzare anche gli adulti.
Nello stesso tempo, però, la Via crucis di quest’anno si è articolata secondo l’impianto tradizionale, non solo per il fatto che le varie stazioni sono state quelle consuete, ma soprattutto in quanto le tappe del cammino di Gesù verso la morte sono state valorizzate come fonte di indicazioni per la conversione personale.
Così, ci si è soffermati sulla differenza tra la santità di Gesù e i nostri comportamenti peccaminosi, o sul fatto che gli atteggiamenti di alcuni personaggi del racconto della passione o del Signore stesso richiamano situazioni drammatiche di tante persone che vivono ai nostri giorni. Insomma, da ogni stazione si sono ricavate delle considerazioni spirituali e morali volte a spingere i partecipanti alla Via crucis a mettersi in discussione e a verificare la loro fedeltà al Vangelo.
Le parole di Francesco
In questa linea si sono collocate anche le parole di papa Francesco. Ad esempio, egli ha voluto confessare, a nome di ognuno, la «vergogna di aver scelto Barabba e non te [Gesù], il potere e non te, l’apparenza e non te, il dio denaro e non te, la mondanità e non l’eternità».
Ha voluto esprimere la vergogna perché gli adulti stanno lasciando ai giovani «un mondo fratturato dalle divisioni, dalle guerre; divorato dall’egoismo, ove i giovani, i piccoli, i malati, gli anziani sono emarginati. In pratica, la vergogna di aver perso la vergogna».
Dunque, la vicenda di Gesù che cammina verso la croce viene letta come esempio di una vita libera dal potere, dal successo, dalla ricchezza, capace di costruire una società inclusiva attraverso la logica dell’amore, e proprio questo suo stile diventa per noi un salutare giudizio e motivo di dolorosa contrizione.
In questo modo la Via crucis rappresenta una pratica di pietà accessibile a tutti i cristiani e, anzi, anche a coloro che non lo sono. Infatti, non di rado le considerazioni di natura etica che scaturiscono da ogni stazione possono essere condivise anche da persone che non hanno fede in Gesù, ma che si rendono conto di essere chiuse nel loro egoismo e colgono la bellezza di una vita migliore.
Una croce non omologabile
Il rischio di questo approccio, tuttavia, è quello di omologare la croce di Gesù alla nostra, cioè di vederla come l’esempio più perfetto di una vita realmente buona che anche noi potremmo vivere se lo volessimo davvero.
In realtà, la morte del Messia di Nazareth non è semplicemente la fine tragica di un uomo buono e giusto, libero dal potere e dalla ricchezza, capace di amare gli altri fino alle estreme conseguenze, che per questo può ispirarci propositi di conversione. Per noi cristiani si tratta piuttosto della morte della persona del Figlio incarnato, cioè di colui che, pur essendo Dio, si è fatto peccato per noi (cf. 2Cor 5,21).
Ora, possiamo intuire cosa significhi avvicinarsi alla morte per una persona come noi, che comunque non può darsi la vita da sola e che, anzi, lotta tutti i giorni per continuare a vivere, ma non possiamo immaginarci più di tanto cosa abbia significato per il Figlio, che è la Vita che ha generato il mondo, sperimentare la morte, né come questo abbia inciso nella sua relazione con il Padre nello Spirito Santo. Anche se la teologia e la mistica hanno tentato, a più riprese, di gettare luce su queste dinamiche, dobbiamo ammettere di essere davanti a un mistero che, alla fine, ci risulta incomprensibile.
Propriamente parlando, quindi, non possiamo imitare la morte di Gesù né la sua fedeltà al Padre che in essa è culminata, perché si tratta di esperienze uniche, minimamente immaginabili da parte nostra e comunque irripetibili. Si tratta di riconoscere che la croce di Gesù non è la nostra, e non è omologabile a nessuna “croce” che noi stessi o le persone più sofferenti in questo mondo stanno portando.
Certo, grazie alla morte di Gesù possiamo morire anche noi, ma in un senso ben diverso. Non siamo in grado di vivere la sua relazione con il Padre né di morire come lui, ma, grazie al dono della sua vita e all’effusione del suo Spirito nei nostri cuori, possiamo partecipare, in certa misura, a queste dinamiche, e vivere anche noi nella logica del suo amore. Si tratta però di pura grazia, non del frutto di un’imitazione volontaristica delle virtù del Signore, ma di un dono che va accolto riconoscendo la propria incapacità di meritarlo.
Dunque, un altro modo di fare la Via crucis potrebbe essere quello non di pensare a cosa le varie tappe del cammino di Gesù verso la morte possano suggerirci sulla nostra esperienza o su quella degli uomini e delle donne del nostro tempo al fine di cogliere dei suggerimenti e degli stimoli per migliorare la propria vita, ma di contemplare nel silenzio la sofferenza e la morte di Gesù nella loro unicità e irripetibilità, riconoscendo che rappresentano un mistero per noi incomprensibile, ma che pure da questo mistero dipende la vita eterna per noi e per il mondo intero. Si tratta di vincere l’imbarazzo che ci provoca la sua croce e di stare lì, davanti ad essa, facendo tacere ogni parola umana, per cercare di contemplare la gloria del Figlio che ritorna al Padre (cf. Gv 12,23-33).