Il malessere della teologia

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Il dibattito portato avanti da SettimanaNews sulla teologia, sulla sua capacità di destinazione nel nostro tempo e nella Chiesa cattolica che Francesco va immaginando oltre confini ai quali ci eravamo tutti tranquillamente abituati, è ancora in corso d’opera. Pensato come apertura, tra mondi e generazioni diversi tra loro, sarebbe buona cosa se esso potesse continuare senza sapere bene quando giungerà a conclusione. Sarà lo stesso cammino intrapreso a dettare i ritmi di un discernimento in vista di una decisione.

Snodi critici

In questo spazio aperto, in cui si sono inserite sensibilità teologiche, prospettive pastorali e aspirazioni generazionali non omogenee fra di loro (ma questo è appunto il senso del dibattito stesso), mi sembra giunto il momento per porre sul tavolo della discussione alcuni elementi critici strutturali dell’impresa teologica nel contemporaneo. Pensare criticamente il sapere della fede significa onorare la sua stessa ragion d’essere nella comunità dei discepoli e delle discepole del Signore.

Comunità che non vive per se stessa, ma è da sempre destinata alle molte esteriorità del mondo e della vita comune degli uomini e delle donne. Non diverso il compito evangelico che pertiene alla stessa teologia. Essa c’è non per parlare di sé, per trovare un angolino di comodo e immediato riconoscimento consolatorio. Fare teologia significa, in prima battuta, coltivare sapientemente la notizia evangelica di Dio in forma di mediazione culturale della fede.

Nasce nella Chiesa, e nei vissuti di fede che ne fanno la realtà della sua presenza tra l’umano che è comune a tutti noi; ma, fin dai suoi albori, la teologia non si è mai accontentata di interrompere il suo cammino una volta giunta alle soglie della comunità cristiana. Pensandosi, piuttosto, come accompagnamento del vissuto di fede, e sua legittimazione, nei territori comuni dell’umano vivere e nelle forme istituzionali della sua organizzazione.

Extra muros

Quelle soglie, nei suoi tempi migliori, le ha sempre superate per travasarsi in dimensioni più ampie del vivere e della cultura; senza temere di frequentare territori esterni, poco conosciuti, magari anche ostili. Perché è proprio qui che viene messa alla prova la bontà della teologia per la fede stessa. È nelle sue capacità di esteriorità che essa può proporsi alla fede vissuta concretamente come un sapere che ne sostiene l’avventura, e che ne matura culturalmente un discernimento sintonico all’immaginario evangelico di Dio.

impresa teologica nel contemporaneo

Per poter essere tutto ciò anche oggi, la teologia chiede una sapiente coltivazione del tempo. Non può essere solo un’applicazione parziale accanto a molte altre, magari dettate da urgenze contingenti. Se si vuole fare teologia, bisogna dedicarsi a essa, pronti anche a pagare il prezzo di un lavoro quotidiano che chiede sacrificio e applicazione, oltre che intelligenza.

Senza un investimento concreto nella teologia, ossia in uomini e donne che a essa si possono dedicare a tempo pieno, la Chiesa si impoverisce, diventa dipendente nell’elaborazione del suo discernimento culturale dell’Evangelo e nell’adeguatezza del suo giudizio di civiltà.

Professione teologo/a: un bene per la Chiesa

Finisce con l’importare, in merito, a casa propria voci e posizioni che hanno ben poco a che fare con la cura della fede nel tempo presente e con l’incisione evangelica della sua parola nei vissuti dei nostri contemporanei. Rischia di andare in cerca di ideologie lontanissime dal compito che il Signore le ha affidato, solo perché in esse si illude di trovare una sorta di sponda che la conferma e la rassicura.

Non si può essere teologo o teologa e fare, contemporaneamente, mille altre cose – fossero anche doverose, magari perfino urgenti per una Chiesa locale. La potenza di dispersione verrebbe qui a essere di detrimento per un pensiero teologico all’altezza del proprio compito. E la Chiesa locale stessa ne soffrirebbe ben oltre ogni provvisoria soluzione a situazioni di emergenza. Finirebbe, semplicemente, con l’essere più povera, mancherebbe quell’ampiezza di immaginazione e di intelligenza che il Vangelo esige da lei.

La pastoralità della teologia

Sostieni SettimanaNews.itLa pastoralità non è un’aggiunta esterna all’impresa teologica, attingibile facendo altro, ma un habitus, una sensibilità di fondo che va coltivata quotidianamente come responsabilità ecclesiale e culturale del teologo e della teologa. Nasce dalla consapevolezza che ogni suo discorso, ogni suo pensiero, sono rivolti all’umano che vive concretamente, dentro una storia, un contesto culturale, una congiuntura epocale. In mancanza di questo, si può fare forse accademia ma non teologia.

Ed è proprio in nome di una pastoralità così intesa che il teologo e la teologa si oppongono a esaurire la loro impresa, e la loro passione, nelle questioni di casa per quanto importanti esse possano essere. Il loro sguardo deve andare oltre di esse, rivolgendosi costantemente alle condizioni di quel tempo storico a cui il Dio di Gesù desidera essere effettivamente contemporaneo. Con queste condizioni del tempo la teologia deve essere adeguatamente familiare; anzi, deve sapersi dire proprio in esse, in tutta la loro esteriorità rispetto al quotidiano della comunità cristiana.

Gran parte della teologia europea sembra essere in difficoltà davanti all’apprendimento di questa familiarità, di questa coltivazione di un movimento nelle esteriorità della cultura, del sapere, della socialità umana.

Un bisogno pubblico di teologia

E continua a prodursi come mondo chiuso in se stesso, senza porosità e contaminazioni. Impedendosi, in tal modo, di apprendere il lessico elementare dell’uomo e della donna che vivono concretamente. Finendo col parlare un linguaggio esoterico ed estraneo per la stessa esperienza della fede.

Per una riuscita di questo itinerario di apprendimento non basta aprire le porte delle facoltà teologiche o dei convegni a colleghi/colleghe di discipline “laiche” (un belletto con cui cerchiamo di corredare molte delle nostre attività), se poi tutto si ferma qui, se poi il mono-pensiero teologico non si trova messo in discussione da questa fugace ospitalità di maniera. La frequentazione con le esteriorità del sapere deve diventare forma mentis interna della stessa impresa teologica.

E non basta neanche un’inserzione della teologia nell’università pubblica, se la si pensa come magica soluzione di una rappresentanza del sapere della fede nello spazio frequentato da tutti. Certo, qualcosa del genere può fare bene alla teologia, ma di per sé non è in grado di romperne l’autoreferenzialità che la caratterizza.

La cosa potrebbe funzionare se essa ci costringesse ad un radicale ripensamento del curricolo teologico, della sua impostazione e della sua destinazione. Se insomma fossimo capaci di chiederci e dare risposta alla domanda “quale teologia nello spazio pubblico della socialità umana di tutti?”.

Ma davanti a questa domanda sembra emergere solo un grande silenzio, una mancanza di immaginazione e liberalità a favore di una più ampia circolazione della res teologica, talmente siamo abituati a gestircela fra noi, gruppo di eguali che si specchiano l’uno nell’altro –  qualunque sia la nostra collocazione nelle molte, spesso inutili, dispute ecclesiali che ci risucchiano tutte le energie che abbiamo a disposizione.

impresa teologica nel contemporaneo

Monumento a Erasmo da Rotterdam

Ci manca il lessico minimo, anche a livello mentale, per far traghettare la teologia nello spazio pubblico della coesistenza civile, proprio nel momento in cui quest’ultima palesa non solo un’apertura di fondo, ma anche l’urgente necessità di teologie che proprio lì si esercitino. L’apertura di questa finestra epocale, date le trasformazioni e le sfide che la sfera civile europea si trova ad affrontare in questo momento, non è a tempo indeterminato e illimitato. È ora, qui, con precise condizioni.

Trasversalità

L’abitudine a coltivare la teologia in ambiti nei quali i suoi codici sono immediatamente intellegibili, e non richiedono una riconfigurazione della sua architettura complessiva, rischia di renderla incapace di cogliere questa opportunità che si spalanca davanti a lei. A questo corrisponde una visione quasi infantile, da parte della cosiddetta accademia laica dei saperi, dell’impresa teologica; ignara non solo di quanto la teologia ha prodotto negli ultimi vent’anni, ma anche attestata su una comprensione del tutto inadeguata delle figure teologiche fondamentali nel loro sviluppo storico.

Nell’incrocio di questa doppia debolezza rischia di bruciarsi, prima ancora di poterle dare una qualche forma adeguata, l’esigenza di un allargamento pubblico ad ampio raggio della presenza delle teologie nel contesto contemporaneo dell’Europa.

Il paradosso è che non mancano teologi e teologhe che sarebbero in grado di corrispondere a questa occasione (un vero e proprio segno dei tempi, direi), ma la loro abilità e competenza nel disegnare percorsi per un travalicamento pubblico del sapere teologico nell’ambito più ampio della sfera civile della cultura e socialità europea si arena, in partenza, davanti alle forme strutturali e istituzionali vigenti all’interno delle quali esercitano la loro professione.

Bisogna, dunque, ideare percorsi progettuali a lungo termine, capaci di convocare intorno a temi specifici, attuali e trasversali alle varie discipline del sapere, che consentano di sbloccare la condizione delle teologie dallo stallo in cui esse si trovano in questo momento. Immaginando, per tutto il tempo che questo sarà necessario, una distinzione, il più dialogica possibile, fra la didattica e la ricerca teologica.

Ma questo non sarà possibile senza un corrispondente cambiamento di mentalità e di modus operandi da parte degli stessi teologi e teologhe, nella consapevolezza che solo l’abbandono del terreno sicuro su cui essi si continuano a muovere sarà in grado di delineare la legittimità pubblica e civile della loro impresa.

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3 Commenti

  1. Tony 26 dicembre 2017
  2. FLAVIO PERUZZO 17 dicembre 2017
    • Angela 19 dicembre 2017

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