Matteo Zuppi. Il pastore e il teologo

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L’arcivescovo metropolita di Bologna Matteo Zuppi ha rilasciato un’intervista apparsa sul settimanale L’Espresso nel numero del 21 gennaio 2018. La chiacchierata con il giornalista Wlodek Goldkorn conferma le linee guida di un pensiero pastorale i cui tratti essenziali si sono coerentemente consolidati nei due anni dal suo insediamento nel capoluogo emiliano, una linea che persegue le aperture di papa Francesco di cui Zuppi è un fedele interprete. Se mai ce ne fosse stato bisogno, quanto si è visto in occasione della visita di Francesco a Bologna nell’ottobre dello scorso anno conferma la straordinaria prossimità di questi due autorevoli testimoni del vangelo: più di tutto il resto, rimane l’icona di una eloquentissima autentica fraternità.

Matteo Maria Zuppi

L’umanesimo come antidoto al nichilismo

L’intervista tocca molti argomenti: si va dalla Chiesa alla società e viceversa, perché di questo duplice rimando si nutrono vangelo e fede. Siamo abbastanza allenati a sentire che i frutti perversi del nichilismo contemporaneo sono il consumismo e il liberismo. Il consumismo «è frutto di ingiustizia e produce ingiustizia». Il liberismo è il risultato di una concezione riduttiva di un’economia (sempre più virtuale), che finisce per guardare solo se stessa, smarrendo il suo specifico orizzonte che le imporrebbe di essere a servizio dell’umano concreto, profitto compreso.

L’antidoto al nichilismo – dice Zuppi – è l’umanesimo. Questo è il primo, significativo, passaggio, perché parlare di umanesimo significa non già riproporre ostinatamente verità eterne e immutabili, secondo il vecchio schema unidirezionale di un insegnamento che fa astrazione della storia e non tiene conto dell’interlocutore; si tratta piuttosto di sviluppare una sensibilità alla storia intesa, innanzitutto, come capacità di ascolto e di discernimento di quanto stiamo vivendo, in vista dell’agire, secondo la preziosa indicazione di Mt 16,3. Parlare di umanesimo significa anche aver capito che si tratta di investire le nostre migliori energie per ridare speranza all’uomo e arginare le forze di avvilimento che avvelenano la coscienza. La fede dà il meglio di se stessa quando mette in circolo i suoi tesori per ridare dignità all’umano comune.

L’insidia del purismo

Ma, accanto al consumismo e al liberismo quali frutti del nichilismo, Zuppi aggiunge anche un terzo elemento, un atteggiamento indicato come pericolosissimo: il purismo.

Per Zuppi la pericolosità del purismo è data dal fatto che esso «costringe alla menzogna». Si tratta di un passaggio significativo, perché rimanda alla tradizione biblica secondo cui la menzogna lambisce sempre i confini dell’omicidio. La menzogna produce morte, strappa via, divide e separa. Si nutre dell’invidia. Il nichilismo è quindi, nella sua essenza, una gigantesca svista culturale, una menzogna, in quanto mostra come centrale ciò che non lo è: un “io” assoluto, autoreferenziale e anaffettivo, incapace di storia, povero di mondo e avaro di relazioni.

La tentazione del purismo infetta anche alcune espressioni del popolo credente. Alcune reazioni scomposte al pranzo offerto nella basilica di San Petronio alla visita del papa a Bologna ne sono un esempio. Non serve scomodare Freud per cogliere il malessere che quel tipo di reazione nasconde e per comprendere quale tipo di fede vi sia sottesa: un pregiudizio verso il mondo e una fede ripiegata su se stessa che millanta una purezza che il vangelo neanche lontanamente coltiva.

Le critiche degli indignati rivolte agli organizzatori di quell’evento, e quindi a Zuppi in primo luogo, puntavano sulla dissacrazione. «Ma penso che la vera dissacrazione – continua Zuppi – è un’altra: è l’idolatria dell’io e quindi la mancanza della spiritualità. Il sacro e l’umano si nutrono l’uno dell’altro. Il sacro senza l’umano non lo possiamo capire, ma anche l’umano senza il sacro non trova se stesso. Quel pranzo è come la sacra rappresentazione: l’umano e il divino si uniscono e l’uno aiuta a capire l’altro».

Il sodalizio tra sacro e umano è vitale: stempera il primo dalle sue perenni tentazioni gnostiche; dispone il secondo ai doni dello Spirito. Ogni minima confusione in questo ambito produce morte, è fuori dai tracciati evangelici, e di questo il pastore Zuppi ha chiarissima coscienza.

L’autocritica della fede

«La Chiesa – dice l’arcivescovo – nella situazione concreta dell’umanità oggi ritrova se stessa. Talvolta la Chiesa è stata più matrigna che madre e ha avuto paura della vita. Per paura della contaminazione abbiamo perso la possibilità della promiscuità e della vicinanza». La paura della contaminazione rimanda a quanto appena detto. Gesù stesso ne ha fatto le spese, dovendo di continuo controbattere ai dottori della legge che non tolleravano il suo sentirsi a proprio agio e il suo operare prodigi proprio nelle zone di massima contaminazione (lebbra, povertà, peccato ecc.).

Ma ciò che Zuppi lascia intravvedere è un elemento tanto essenziale alla fede quanto così spesso trascurato dalla teologia: il principio interno di autocritica della fede, applicabile anche alla Chiesa stessa. Di fronte all’odierna nuova Babilonia sociale e culturale, «la Chiesa deve avere una risposta. E se non la trova, vuol dire che esiste un problema al suo interno. La Chiesa non può tacere di fronte alla distruzione della persona».

Questo terzo elemento significativo è dato non tanto dal coraggio di Zuppi di parlare con aperta franchezza, quanto piuttosto dal collegamento che egli imbastisce con i profili più alti della riflessione teologica.[1]

L’esempio è Etty Hillesum

Un ulteriore significativo passaggio esprime il nocciolo del pensiero di Zuppi. E si tratta di qualcosa di grande interesse, che sa di profezia (intesa nel senso biblico del termine). L’intervista incrocia il punto massimo delle contaminazioni nel riferimento alla figura di Etty Hillesum, donna di origini ebraiche morta giovanissima nei campi di sterminio. Zuppi dice: «La vera libertà è dire: io mi affido a te. Gesù si affida a Dio senza certezza previa. Ed è un paradosso terribile della libertà. L’obbedienza non è imposta. Libertà è dire: io scelgo di seguire il Signore. È il contrario del nichilismo, questa libertà. Un esempio di questa assoluta chiarezza è Etty Hillesum».

L’arcivescovo dà prova di aver colto un tratto peculiare del nostro tempo nella profezia che aspetta ancora le sue parole più adeguate: il saper scorgere i luoghi non tanto del sacro, ma della santità, oltre i confini delle esplicite appartenenze, lì dove la coscienza – come nel caso di E. Hillesum – diventa il luogo dell’incontro vivo con Dio.

Questa giovane donna capace di una scrittura esperienziale profonda e viva come la sua anima, segnata da un ottimismo profondamente religioso, trova Dio nella coscienza. Non trova l’idea cartesiana di Dio, ma il Dio vivo e vero, del quale avverte la presenza. Quindi, seguire la coscienza nel concreto della vita, cercando giustizia e verità, significa fare esperienza di una incredibile e inaudita prossimità di Dio. Un incontro che, come testimonia E. Hillesum, rinnova in continuazione la vita, alimentando speranza e coraggio.

In questo senso ha ragione Zuppi nel porre Etty Hillesum come esempio più alto di rapporto tra l’umano e il sacro. Meglio di così, per disinnescare le micidiali ambivalenze del sacro, non si poteva fare. Se di sacro si può parlare, quello di Hillesum è straripante di vita umana. Genera processi, non domina spazi di potere.[2]

Anche le parole di Zuppi sono pensate per generare processi. Egli fa parte di una nuova “classe dirigente”, più agile delle precedenti nello stile pastorale, diretta nelle relazioni. Autenticamente cordiale. Non è poco.

Ma su due punti in particolare questi nuovi pastori dovranno dare prova di aver saputo davvero generare processi virtuosi. Il primo sta nel modo in cui sapranno ridare vitalità alle comunità cristiane loro affidate, con processi che tengano seriamente in considerazione la radicalità di alcune scelte le quali dovranno, per forza propria, risultare persuasive.

Il secondo punto riguarda il clero. Serve dare il buon esempio, ma non basta. Occorre trovare le forme adatte per trasmettere ai preti uno stile il più possibile chiaro e condiviso, non basato unicamente sulla sensibilità personale del vescovo, ma che sia il frutto di un profondo discernimento dei tempi capace di generare Tradizione, nel senso più caro e dinamico che la Chiesa conosce.

Il cammino è cominciato. Servono con urgenza idee buone e strutture più vivaci.


[1] Per l’Italia l’esponente più autorevole al riguardo è senz’altro PierAngelo Sequeri. Nel libro Il Dio affidabile il principio di autocritica interno alla fede è messo a tema direttamente alle pagine 35-42, ma tutta la sua riflessione teologica nutre e si nutre di questo principio.
[2] Cf. Laudato si’, 178.

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