«La misericordia è in se stessa la più grande delle virtù. Infatti spetta ad essa donare ad altri e, quello che più conta, sollevare le miserie altrui. Ora questo è compito specialmente di chi è superiore, ecco perché si dice che è proprio di Dio usare misericordia, e in questo specialmente si manifesta la sua onnipotenza» (Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II–II, q. 30, art. 4 – cf. Evangelii gaudium n. 37).
«Stando alla testimonianza del Vangelo (Mt 9,13 e Mt 12,7), il Dio paterno e materno rivelatoci da Gesù di Nazaret si china sulle creature umane a dire, con parole mutuate dal profeta Osea (6,6), misericordia io voglio e non sacrificio. Stando, invece, alla dottrina, alla morale e alla liturgia, storicamente il cristianesimo pare si sia mosso come se Dio, dall’alto della sua onnipotenza e trascendenza, ci avesse chiesto esattamente il contrario: sacrificio io voglio e non misericordia. Un clamoroso esempio di Vangelo rimosso e travisato che ha portato a rileggere in chiave sacrificale l’incarnazione di Gesù Cristo. Liberarsi da questa mentalità sacrificale è molto difficile, ma è necessario».
È questo il nucleo fondamentale – così come l’ho personalmente recepito – di una mattinata domenicale straordinariamente intensa trascorsa con Roberto Mancini, docente di filosofia teoretica presso l’università di Macerata e di economia umana presso l’università della Svizzera italiana a Mendrisio. Incontro organizzato dall’Associazione ecumenica di cultura religiosa Città di Dio in collaborazione con i Frati minori del Monte Mesma (Ameno-Novara), per riflettere sui tratti fondanti di «un cristianesimo fedele»,[1] cioè di un cristianesimo che non riduce la verità vivente e relazionale a mera dottrina, ma la fa coincidere con la scelta del modo di vivere di Gesù di Nazaret, che sfocia nella fioritura di un’umanità autenticamente fraterna e sororale come esperienza del regno di Dio e della sua giustizia.
A Roberto Mancini molti credenti – io tra questi – sono grati per il suo pensiero lucido, appassionato, profondo, coinvolgente e libero, che unisce mente e cuore e che nasce dall’attenzione alle tante provocazioni provenienti dalla cultura secolare moderna, nei confronti della quale il filosofo maceratese credente si colloca in atteggiamento dialogico e critico che aiuta a superare banalità, conformismo, ovvietà e stereotipi.
Critica evangelica al sacrificio
La critica della logica sacrificale che pervade trasversalmente non solo la religione e i sistemi educativi, ma anche la politica e l’economia, è lucidamente presente in autori e autrici, quali Friedrich Nietzsche, Max Horkheimer e Theodor Adorno, María Zambrano e René Girard. Tale critica, però, è presente chiaramente nei Vangeli e già nel profetismo che percorre la Scrittura ebraica. Secondo Mancini, anzi, il Vangelo non si limita a conferire un nuovo significato alla categoria del “sacrificio”, ma la abolisce, sostituendola con quella della “misericordia”.
Se nei Vangeli c’è un dato testuale chiaro e indelebile, è che, quando Gesù pronuncia la parola “sacrificio”, lo fa per escluderlo, invitando chi lo segue e chi assume come propria la volontà sua e di Dio Padre a scegliere non il sacrificio ma la misericordia. Dio non viene a noi quando alziamo le mani per offrirgli qualcosa in sacrificio; ma quando ci rimbocchiamo le maniche e abbassiamo le mani per servire i nostri fratelli e le nostre sorelle, soprattutto quando la logica sacrificale dell’economia egemonizzata dalla finanza le schiaccia e ne fa degli “scarti” umani.
Un altro dato testuale da ricordare è che il riferimento al “sacrificio” manca lì dove i liturgisti di lingua italiana lo hanno inserito. Come memoriale dell’eucaristia, il presidente della celebrazione dice «questo è il mio corpo che è dato in sacrificio per voi», mentre nel testo di Luca 22,19 c’è scritto «questo è il mio corpo che è dato per voi» e in 1Cor 11,24 «questo è il mio corpo, che è per voi».
Colpisce il dato per cui, nei testi evangelici, la misericordia non ha affatto vita facile. Anzi, risulta ogni volta tallonata o minacciata da ciò che la nega. Basta richiamare rapidamente i passi più importanti a riguardo. Nell’annuncio delle Beatitudini all’invito a essere misericordiosi (Mt 5,7) segue subito l’ammonimento sul fatto che chi sceglie di seguire questo modo di amare verrà colpito dalla persecuzione (Mt 5,10-11).
D’altro canto, nella parabola del padre generoso, l’accoglienza misericordiosa e festosa riservata al figlio minore è apertamente contestata dal figlio maggiore (Lc 15,25-30), che fa appello precisamente alla logica retributiva dei meriti e delle colpe. Molti credenti si riconoscono con grande facilità in tale posizione invece che nella logica del padre generoso.
Inoltre, dal testo evangelico si coglie lo sconcerto dei discepoli all’udire Gesù che, invitandoli all’amore per i nemici (Lc 6,35), dice loro: «siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro» (Lc 6,36). Lo sconcerto deriva, oltre che dal carattere estremo, pericoloso e apparentemente ingiustificabile della misericordia verso i nemici, da quel richiamo al “Padre vostro”. Significa che tutti siamo figli o figlie di Dio, il che risulta eccessivo e incomprensibile a esseri umani abituati a immaginare il rapporto con Dio – altro paradosso su cui riflettere – come un rapporto di totale separazione, un rapporto strutturato dalla contrapposizione tra il basso e l’alto, il finito e l’infinito, tra la paradossale «corruzione originaria» dell’essere umano e l’eterna e infinita perfezione divina.
Argomenti utilizzati per esaltare la categoria del sacrificio
Perché, allora, proprio i credenti cadono nell’evidente fraintendimento che li porta ad esaltare la categoria del sacrificio? Gli argomenti per giustificare l’errore sono i più vari.
Si dice che non c’è religione al mondo che non sia sacrificale: ma questo argomento dovrebbe servire più a cogliere la novità del cristianesimo che non a omologarlo con il versante sacrale di tutte le tradizioni religiose.
Si dice che “sacrificio” significa sacrum facere: come se ciò che è davvero divino o “sacro” potesse essere fatto, prodotto, fabbricato. La Bibbia, in tal caso, parla semmai di idolatria. Il “vitello d’oro” (Es 32,4) è una figura esemplare del sacrum facere. E poi così si dimentica che, mentre in una indistinta religiosità si evoca il “sacro” come qualcosa di misterioso e di lontanissimo da noi, i testi biblici parlano invece del Santo evocando la totale separazione di Dio dal male. Ad esempio, Lévinas indica il senso del messaggio biblico in un cammino «dal Sacro al Santo».[2]
Inoltre, si dice che quello di Gesù sulla croce è l’ultimo sacrificio: ma allora che senso avrebbe imitarlo?
E perché Gesù non presenta mai il suo cammino e la sua scelta come un sacrificio, e anzi lo esclude, indicando invece la misericordia?
Si dice, ancora, che il “sacrificio” di Gesù è l’espressione della differenza divina rispetto all’uomo: ma come mai andiamo a cercare tale differenza in un gesto rituale che da sempre insanguina tutte le religioni e tutte le culture del mondo?
Si dice, infine, che la parola “sacrificio” serve a indicare il prezzo, la fatica, la sofferenza necessaria ad amare come vuole il Vangelo: ma assai meno equivoca, a tale scopo, sarebbe la parola hypomonè usata da san Paolo (Rom 5, 3-4), che si può tradurre con «pazienza», «costanza», «tenacia», «fermezza» per indicare la capacità di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà.
Amore gratuito, non guadagnato
Pensare la fede in modo non più sacrificale costringe a rivedere l’immagine di Dio, a cambiare vita, a seguire il senso e la logica del Vangelo, a impegnarsi nella fedeltà alla felicità delle Beatitudini, a rinunciare all’idea stessa di una casta separata – quella del clero – che, dovendo gestire le pratiche sacrificali, non può non mediare tra il Padre e tutti i suoi figli e le sue figlie.
Quando gli esseri umani vogliono rappresentarsi l’assoluto, ricorrono alle figure del Dio mago, del Dio giudice, del Dio architetto. Gesù, invece, è venuto a scardinare proprio questa visione e additare un’adesione alla vita che passa per il tipo di amore che egli ha realizzato. In questo senso, Gesù è il giudizio definitivo di Dio, ma un giudizio che parla di perdono incondizionato, di giustizia risanatrice e di misericordia responsabilizzante. Aderire a questa corrente di amore, significa partecipare alla vita di Dio «ricco di misericordia» (Ef 2,4).
Istintivamente noi pensiamo che l’amore vada guadagnato, mentre quello che Dio ci offre è completamente gratuito e ci invita a svegliarci e a uscire dai nostri incubi. Essi sono ricorrenti nella storia degli umani: se non ce ne liberiamo con un amore radicale come quello che Gesù ha testimoniato, siamo destinati a restarne succubi. Le vicende del mondo contemporaneo ne offrono esempi terribili.
L’ultimo incubo in ordine di tempo è – secondo Mancini – il delirio del mercato globale egemonizzato dalla finanza. La vita senza amore è già morte e l’amore nella nostra cultura fa una pessima figura, perché è giudicato da una ragione che si pretende imparziale. Nel cristianesimo, invece, la ragione è l’amore, quell’amore incarnato, vissuto alla maniera di Gesù, che potrebbe essere definito vita nello Spirito.
Una Chiesa che renda credibile la filialità con Dio
Mancini invita a concepire la Chiesa non come setta o come strutturazione gerarchica, ma come comunità di tutte le persone che sono disposte a cambiar vita e che sognano la misericordia di Dio. Il popolo di Dio è l’umanità intera e la Chiesa ha il compito di rendere credibile la filialità con Dio. Gli esseri umani sono figli e figlie per la loro origine divina, ma non vivono come tali. La grande sofferenza che infliggiamo a noi stessi è ostinarsi a vivere per quello che non si è. In questo modo la fede può riaprire il futuro.
Dio non va cercato sopra le stelle. Va cercato là dove è lui a cercarci: nel cuore, nell’intimità della coscienza, nella concretezza della persona che siamo, ma soprattutto nelle relazioni con gli altri. Come scrive Francesco nella Misericordiae vultus: «La credibilità della Chiesa passa attraverso la strada dell’amore misericordioso e compassionevole» (n. 10).
La nostra è una società senza misericordia. Il suo valore si capisce a patto di non ridurre la misericordia a una virtù patetica. Essa va riconosciuta come forza dell’accoglienza che viene dalla verità, la forza della giustizia risanatrice che ricostituisce l’essere umano disintegrato. È la forza in cui verità e giustizia si fondono come identità dell’amore di Dio. È la forza in cui questo amore non viene configurato in forma di religione, ma suscita vita nuova, personale e comune, fraterna e sororale in ogni ambito della società.
La Chiesa è la convocazione di coloro che si trovano a passare sulla strada che scende da Gerusalemme a Gerico (Lc 10,29-37), chi ne fa parte è invitato a fermarsi e a prendersi cura dell’altro, della sorella e del fratello vittime di una storia che non sa vedere il valore dell’umanità e, dunque, non sa neppure vedere il vero volto di Dio. La Chiesa è viva e fedele là dove vive la giustizia dell’amore, dove instaura e serve la sororità e la fraternità nella consapevolezza che tutti siamo figli di Dio.
Occorre aprirsi alla misericordia e ricomunicarla, facendone la logica ispiratrice per la costruzione di un altro modo di convivere. Nel suo significato politico, la misericordia è una prassi collettiva di giustizia che restituisce alle persone la possibilità di vivere con dignità.
Oggi in politica, in economia, nella comunicazione sociale e nella cultura prevalente, il cristianesimo è semplicemente marginale e il Vangelo è rimosso. I cristiani devono fare ciò che sta facendo papa Francesco: riportare la visione del Vangelo al centro dell’attenzione della società moderna.
Si tratta di seguire il Vangelo come forma di vita e immettere la forza di pensiero, di trasformazione e di liberazione che ciò genera nella società. Insieme alle altre fedi vive (di tutte le coscienze che condividono la fede nell’umano), i cristiani devono prendere la parola e dare forza all’esempio evangelico per fare in modo che la logica della misericordia sia ispiratrice di una società degna, di una società che sia una comunità e non mercato. Si tratta, in sostanza, di sperimentare la condizione di vita che Kierkegaard chiama il «farsi contemporanei di Cristo».[3]
[1] Roberto Mancini, Per un cristianesimo fedele. La gestazione del mondo nuovo, Cittadella Editrice, Assisi 2111.
[2] Emmanuel Levinas, Dal Sacro al Santo: cinque nuove letture talmudiche , Città Nuova, Roma 1985.
[3] Soren Kierkegaard, Esercizio del Cristianesimo, Nr. I, § 4. trad. it di C. Fabro, Studium Roma, 1971, p. 284.