Nicea: dottrina e disciplina

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Il secondo Documento dell’assemblea sinodale della XVI Assemblea ordinaria del Sinodo dei vescovi registra anche alcuni risultati della prima assemblea. Tra questi, segnala la necessità emersa, e condivisa dai vescovi e altri delegati, di trovare dei «criteri teologici e metodologie sinodali per un discernimento condiviso di questioni dottrinali, pastorali ed etiche controverse».1

Certo, un sinodo non è un concilio ecumenico, ma è significativo notare – come faremo nel corso dell’Anno santo del 2025 – che anche il primo concilio ecumenico di Nicea del 325 evidenziava una situazione di Chiese cristiane davvero “agitate” tra problemi dottrinali e pratici, anche circa il Simbolo di fede.

Sottigliezze non soltanto dottrinali, ma anche giuridiche

Nicea primo utilizza, all’inizio del quarto secolo, un termine che già nel terzo secolo era stato ritenuto ambiguo dai pastori. Costoro, radunati nel sinodo episcopale di Antiochia del 268, avevano, tra l’altro, deposto il vescovo Paolo di Samosata: un nome, questo, che ricomparirà anche nei canoni niceni.

Paolo di Samosata aveva insegnato – in un senso che veniva etichettato dai suoi avversari come monarchiano – che, in Dio, il Figlio non ha una ousìa propria: così come nell’essere umano vi è un logos o parola, altrettanto il Logos divino sarebbe un qualcosa di simile al logos umano, cioè simile alla parola che esce dalla bocca di una persona umana.

Paolo di Samosata, insomma, già circa cinquant’anni prima del concilio ecumenico convocato da Costantino, aveva utilizzato il termine che, a Nicea, diverrà tecnico, cioè omoùsios; però egli, sosteneva che il Figlio divino, non avendo una ousìa propria, è sì omousios al Padre, però in un senso – che dai padri di Nicea sarà poi contestato – che il Figlio divino è nel Padre allo stesso modo del logos è in un essere umano.

Ecco anche perché la scelta linguistica del Simbolo niceno del 325, cioè quella di denominare il Figlio come “della stessa ousìa del Padre”, sarebbe risuonato, alle orecchie di diversi vescovi con un pericoloso significato di tipo monarchiano: enfatizzando un unico Dio si finisce, infatti, come già era accaduto a Paolo di Samosata, per non distinguere correttamente l’ipostasi del Figlio eterno dalla distinta ipostasi dell’eterno Padre.

D’altra parte, ciò avveniva in un’epoca in cui il linguaggio della fede (espresso in greco, piuttosto che in latino) era abbastanza influenzato da concezioni filosofiche di tipo neoplatonico (anche l’imperatore Costantino aveva come consulente il neoplatonico Sopatro di Apamea!).

Ne seguiva, sul piano delle formule dottrinali, che i rapporti tra le ipostasi intratrinitarie del Padre e del Figlio non esigerebbero soltanto una messa a punto linguistica della fede, ma non possono non suscitare anche contrasti e lotte, talvolta violente, come avviene sia prima sia dopo il concilio del 325.

Tra i vescovi, gli esponenti del potere imperiale, i ministri ordinati e i fedeli laici, soprattutto se intellettuali o filosofi, il rischio era, insomma, non soltanto quello della “confusione delle lingue”, bensì anche quello di dover ricorrere alla violenza pur di “tappare la bocca” a chi era considerato avversario della “retta dottrina” e, di conseguenza, della “retta prassi”.

Tra gli intellettuali, che spingevano addirittura i tetrarchi imperiali a una politica di persecuzione anticristiana, vi era stato, ad esempio, il neoplatonico Porfirio di Tiro. Egli accusava il linguaggio teologico dei cristiani di non essere né greco, né barbaro, ma una specie di “via di mezzo”, che stava, di fatto, danneggiando la divina assolutezza di Dio Padre, enfatizzando pericolosamente il Figlio, il quale ne dovrebbe essere invece, secondo l’interpretazione di Porfirio, soltanto l’immagine.2 Anzi, nell’opera Sulla filosofia dai loghia, Porfirio addirittura «proponeva d’includere Gesù nel pantheon degli dei tradizionali, pertanto condannando quella tendenza cristologica tendente a equiparare Gesù a Dio Padre senza mezzi termini la quale avrebbe poi trionfato al Concilio di Nicea del 325».3

La presenza scomoda dei seguaci di Paolo di Samosata

Ecco anche perché i 318 padri di Nicea non soltanto compiono una peculiare scelta lessicale nella loro professione di fede, ma, nei canoni, nominano esplicitamente Paolo di Samosata e i suoi seguaci, che evidentemente dovevano essere ancora attivi all’inizio del secolo quarto!

Ecco i fatti: poco dopo che Costantino si era affermato su Licinio, quale unico signore dell’Impero, nel medesimo anno 325 un concilio di vescovi si era già riunito ad Antiochia, per eleggere il successore del defunto vescovo Filogonio (319-324).

Nella medesima città, si era deciso non solo di consacrare il nuovo vescovo Eustazio (325-326), ma anche di condannare tutte le dottrine che subordinassero, in Dio, il Figlio al Padre (saranno tutte etichettate come “ariane”, ma le posizioni erano molto, molto frastagliate).

Sarà, questa, la medesima linea che, a Nicea, provoca la famosa confessione di fede, che ricorderemo a lungo nel corso del Giubileo del 2025.

I pronunciamenti dottrinali, da soli, non bastano

Di lì a poco, rispetto al coevo raduno sinodale di Antiochia, intervenne dunque, stavolta per volontà imperiale, un nuovo pronunciamento “ecumenico”, quello di Nicea del 325.

Tuttavia, le formule dottrinali non sono mai riuscite, da sole, a dirimere i contrasti; tant’è vero che, sempre nel già citato sinodo di Antiochia e in quello ecumenico di Nicea, non solo viene ricordata la dottrina di Paolo di Samosata (come si è detto, sostenitore di una cristologia monarchiana, anche dopo la sua condanna e deposizione, avvenuta già nel 268), ma risultano ancora in giro dei suoi seguaci: alcuni dei presenti a Nicea dovevano seguire, anzi, a spada tratta le antiche, e condannate, tesi di Paolo.

Ecco perché, oltre ad essere presi di mira da un canone conciliare, i “samosatiani”, per dir così, risulteranno ancora in giro almeno fino alla constitutio di Teodosio II e di Valentiniano II (che è del 428).4

Nei fatti, la “vecchia” teoria di Paolo di Samosata, pur valendosi del concetto di Logos in relazione al Figlio intratrinitario, appariva difettosa a molti padri perché non affermava la sussistenza autonoma e sostanziale del Figlio rispetto al Padre, bensì soltanto una sua dynamis (cioè un dinamismo, una potenza): questa dynamis del Padre, secondo la prospettiva di Paolo di Samosata, si sarebbe unita (ovvero sarebbe divenuta inabitante) all’uomo-Gesù, colui che è nato da Maria: anzi, soltanto questa unione avrebbe fatto davvero, del figlio di Maria, l’unico Figlio di Dio Padre.

La condanna di Paolo, già vescovo di Antiochia, non avvenne, però, soltanto a motivo di queste sottigliezze linguistiche e dottrinali, bensì anche per dei fatti politici ed etnici, come s’intravvede, particolarmente, nel canone diciotto di Nicea del 325.

In questo canone, oltre a registrare la vitalità dei seguaci di Paolo (dopo oltre sessant’anni!), si fa capire che alcuni di loro chiedevano adesso di essere ri-ammessi nella Chiesa cattolica, provocando nuove esigenze di varare delle precise regole di ri-accoglienza: si dovranno semplicemente accettare coloro che, già seguaci di Paolo di Samosata, chiedono adesso, ai vescovi radunati a Nicea, di passare alla Chiesa cattolica? Si dovrà normarne il passaggio, per esempio battezzandoli di nuovo? E, problema nel problema, come agire in riferimento alla figura istituzionale delle diaconesse, esistenti nelle Chiese seguaci di Paolo di Samosata?

Le diaconesse seguaci di Paolo di Samosata

Il canone diciotto di Nicea ci dice che, tra i seguaci di Paolo di Samosata, esistono anche delle diaconesse, ma tiene a precisare chiaramente la loro qualificazione di laiche, non di membri del clero, come verosimilmente dovevano essere, invece, considerate da parte dei seguaci di Paolo.

Ecco testualmente questo canone: «Quanto ai seguaci di Paolo, che intendono passare alla Chiesa cattolica, bisogna osservare l’antica prescrizione che essi siano senz’altro ribattezzati. Se qualcuno di essi, in passato, era appartenuto al clero, purché, del tutto irreprensibile, una volta ribattezzato potrà essere ordinato dal vescovo della Chiesa cattolica. Ma se l’esame dovesse far concludere che si tratta di inetti, è bene deporli. Questo modo d’agire sarà usato anche con le diaconesse e, in genere, con quanti appartengono al clero. Quanto alle diaconesse in particolare, ricordiamo, che esse, non avendo ricevuto alcuna imposizione delle mani, devono essere computate senz’altro fra le persone laiche».

Le decisioni di Nicea non interromperanno, dunque, le polemiche e le lotte, che, peraltro, saranno addirittura favorite da Flavius Ablabius: un cristiano di fede “nicena”, che sarà in servizio nell’ultima età costantiniana (e da Costantino particolarmente protetto) il quale, dal 326, diviene Prefetto del pretorio di Oriente, non senza intervenire, nel 332, a favore di Atanasio di Alessandria: costui, che, come abbiamo già detto in precedenza, era lo strenuo difensore orientale della formula di Nicea, lo esalterà – contro la storiografia pagana, che ne tramanda invece un pessimo ricordo – come «uomo pervaso dal timore di Dio».

Il canone niceno riguardante Paolo e le diaconesse, se ripensato oggi nel corso dell’Anno santo del 2025, porterà certamente nuova luce, non solo nella discussione sul linguaggio della fede, bensì anche nella delicata questione delle diaconesse che, come si ricorderà, è stata oggi ripresa anche dal Documento della seconda assemblea sinodale del XVI Sinodo ordinario dei vescovi, nei termini seguenti: «Non ci sono ragioni che impediscano alle donne di assumere ruoli di guida nella Chiesa: non si potrà fermare quello che viene dallo Spirito Santo. Anche la questione dell’accesso delle donne al ministero diaconale resta aperta. Occorre proseguire il discernimento a riguardo»5.

Nicea: un concilio molto “pratico” e operativo

La lettura di diversi canoni di Nicea primo ci convince, insomma, che i vescovi dell’intera ecumene non si cimentarono soltanto con le formule corrette per confessare la fede trinitaria contro le formule reputate eretiche, bensì anche con questioni molto pratiche. Per esempio, come ricaviamo dal canone quindici di Nicea, affrontarono la situazione non pacifica delle Chiese particolari, agitate allora «per i molti tumulti ed agitazioni che avvengono».

Il canone delibera, in merito, di stroncare assolutamente la fonte di tali tumulti, ovvero il fatto «che in qualche parte ha preso piede, contro le norme ecclesiastiche» un continuo vagare di vescovi, di preti e di diaconi da una città all’altra e da una Chiesa all’altra. Ogni trasferimento – sancisce pertanto il canone niceno – sarà senz’altro considerato nullo, e il “vagante” «dovrà ritornare alla Chiesa per cui fu eletto vescovo, o presbitero, o diacono».

I diaconi (e le diaconesse), inoltre, dovevano preoccupare abbastanza i vescovi di Nicea, soprattutto per quanto riguardava la loro invadenza nei ruoli di altri ministri; tant’è vero che il canone diciotto dichiarava, minacciando la sospensione, che si è venuti «a conoscenza che in alcuni luoghi e città i diaconi danno la comunione ai presbiteri: cosa che né i sacri canoni, né la consuetudine permettono: che, cioè, quelli che non hanno il potere di consacrare diano il corpo di Cristo a coloro che possono offrirlo… che alcuni diaconi ricevono l’eucarestia perfino prima dei vescovi. Tutto ciò sia tolto di mezzo, e i diaconi rimangano nei propri limiti, considerando che essi sono ministri dei vescovi e inferiori ai presbiteri».

Altra questione pratica e controversa era quella della gestione di coloro che – o già battezzati, o, come si legge nel canone quattordici, dei lapsi, cioè “caduti” nell’eresia nel corso del catecumenato – erano caduti ritornando alla precedente professione militare (che comportava violenza, assassinio e guerra, come si legge nel canone dodicesimo di Nicea).

Diversi tra costoro chiedevano ai padri niceni di essere ri-ammessi nella comunità cattolica, ovvero di poter rifare il percorso catecumenale e penitenziale, forse anche di poter celebrare nuovamente il battesimo.

Così, il canone undici di Nicea tratta di quelli «che, senza necessità, senza confisca dei beni, senza pericolo o qualche cosa di simile – ciò che avvenne sotto la tirannide di Licinio – hanno tradito la loro fede». La soluzione conciliare – che ricorda esplicitamente Licinio, generale di Diocleziano, sconfitto da Costantino nel 324 d.C. ad Adrianopoli6 – è all’insegna della misericordia e della comprensione, anche se si prescrivono anni e anni per l’espiazione, il recupero e la ri-ammissione, non senza fornire preziose indicazioni sulle varie fasi del catecumenato: «Quelli, dunque, tra i fedeli che fanno davvero penitenza, trascorrano tre anni tra gli audientes, sei anni tra i substrati, e per due anni preghino col popolo salvo che all’offertorio» (audientes e substrati indicano gli appartenenti a due fasi del catecumenato, che dovevano essere adempiute da chi aspirava al battesimo).

In questa luce di misericordia, comprendiamo meglio anche perché l’odierno Documento della Seconda assemblea sinodale recita: «Anche se solo in cielo avrà la sua pienezza, la mensa della grazia e della misericordia è già imbandita per tutti e la Chiesa ha la missione di portare questo splendido annuncio in un mondo che cambia».7

Conclusione

Se Costantino, dopo aver favorito la riunificazione delle due parti dell’impero nelle sue mani, aveva favorito anche l’unione episcopale a Nicea nel 325, Costanzo secondo maturerà invece una certa avversione per i deliberati di Nicea, addirittura iniziando ad accarezzare un progetto che oggi chiameremmo di una “Chiesa di stato”.

Come antidoto ad ogni rischio di estremismo pratico e teorico, ma anche di intrusione del potere politico nell’animazione delle Chiese particolari, a Nicea il canone quinto evidenziava la chiara volontà di confronti periodici tra pastori, sia per evitare che non fossero osservate le leggi canoniche, sia soprattutto che i ministri, “cacciati” da una Chiesa, fossero accolti da un’altra, anche con l’avallo del potere imperiale o dei suoi funzionari. Ma, insieme, il canone non può non registrare che espulsioni e scomuniche avvenivano non soltanto per le ingerenze dei funzionari imperiali, ma talvolta «soltanto per grettezza d’animo o per rivalità del vescovo o per altro sentimento di odio».

La terapia venne allora indicata nel confronto frequente (sinodalità!), particolarmente tra vescovi della stessa provincia: «è sembrato bene che in ogni provincia, due volte all’anno si tengano dei sinodi, affinché tutti i vescovi della stessa provincia riuniti al medesimo scopo discutano questi problemi… I sinodi siano celebrati uno prima della Quaresima perché, superato ogni dissenso, possa esser offerto a Dio un dono purissimo; l’altro in autunno».

Non è, questa, un’ancor valida lezione del passato per l’oggi, affinché i processi sinodali, ormai inarrestabilmente avviati, siano assecondati non solo a livello universale e nazionale, ma regionale, metropolitano e locale?


1  Documento finale della Seconda sessione della XVI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi (2-27 ottobre 2024) “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione” e Risultati delle votazioni, 26.10.2024, n. 8, 5:

https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2024/10/26/0832/01659.html [17.11.2024].

2  Cf. S. Parisi, Greci, barbari o una via di mezzo? La discussione sulla lingua speciale dei cristiani nella polemica anti-cristiana di Porfirio, Rubbettino, Soveria Mannelli 2021.

3  G. Rinaldi, Roma e i cristiani. Materiali e metodi per una rilettura, Edizioni Vivarium Novum, Napoli-Frascati 2023, p. 188.

4  Ivi, 408.

5  Documento Finale della Seconda Sessione, 26.10.2024, n. 60:

https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2024/10/26/0832/01659.html [17.11.2024].

6  Figlio di Costanzo Cloro, morto improvvisamente nel 306 d.C., Costantino fu acclamato “augusto” dalle truppe; egli riesce a riunire sotto di sé le due parti dell’impero, sia sconfiggendo l’“augusto” d’Occidente Massenzio, figlio di Massimiano (nel 312 d.C., al Ponte Milvio), sia sconfiggendo Licinio, generale di Diocleziano, nel 324 d.C. ad Adrianopoli.

7  Documento Finale della Seconda sessione, n. 153.

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