Raramente il dibattito culturale italiano prende in considerazione le competenze e i relativi percorsi della ricerca teologica. Nonostante ciò, lo studio, la riflessione e l’applicazione di questa disciplina, vedono fiorire nel nostro paese vie di approfondimento fra le quali la rivista Nipoti di Maritain. Discutiamo di questo progetto culturale fondato nel 2016 con Piotr Zygulski. Giornalista pubblicista e direttore di Nipoti di Maritain, Zygulski è dottorando presso l’Istituto Universitario Sophia di Loppiano (FI) e redattore di Termometro politico. La sua ultima pubblicazione è Il battesimo di Gesù. Un’immersione nella storicità dei vangeli, uscita per i tipi delle EDB.
– Da direttore di Nipoti di Maritain e da studioso di teologia, come valuti l’incidenza del sapere teologico all’interno del dibattito culturale italiano?
È una domanda retorica, vero? È evidente che la teologia non ha proprio alcuna incidenza nel dibattito culturale in Italia. Per segnalare qualcosa, resiste forse qualche facoltà umanistica con un’impostazione storica che, per necessità, deve affrontare l’eredità cristiana, e poi ci sono sparuti pensatori – molto diversi tra loro – come Agamben, Vitiello e Cacciari che si confrontano soprattutto con questioni di teologia politica e di antropologia del sacro.
Per il resto, ben poco, e lo si vede da molte stupidaggini bibliche; nel migliore dei casi qualcuno ha letto i volumi di Augias, Destro e Pesce, ma se dopo la sparata ignorante del consigliere comunale triestino persino un’intellettuale del calibro di Dacia Maraini ha contrapposto in modo grottesco la figura di Gesù a quella che, a suo dire, sarebbe la crudeltà, la vendicatività, la belligeranza e la misoginia dell’ebraismo del Primo Testamento… evidentemente nulla è stato recepito dei lavori degli ultimi decenni che continuamente valorizzano la piena ebraicità di Gesù.
Teologia e dibattito pubblico in Italia
Ci si limita magari a qualche curiosità sensazionalistica sugli scandali o sui segreti del Vaticano – penso ai libri di Nuzzi e Fittipaldi – o a battute sui preti sposati e sull’ordinazione delle donne, ma senza alcun ragionamento strutturato. Poi, chiedendo ad amici e colleghi che si occupano di cultura se sanno il nome di qualche teologo italiano, in genere le risposte sono Vito Mancuso ed Enzo Bianchi, che non sono teologi accademici in senso stretto e non insegnano in università pontificie.
Per rispondere in modo più articolato, questo dipende anche dalla separazione – un tempo consensuale, e oggi neppure più ricordata – tra istituzioni universitarie italiane e facoltà teologiche con istituti affiliati, che sono un’esclusiva confessionale, con le preziose eccezioni di due centri per le scienze religiose: uno alla Fondazione Bruno Kessler della Provincia di Trento e un altro all’Università di Urbino.
Se, da un lato, ciò garantisce autonomia di insegnamento teologico, dall’altro, questo contribuisce alla percezione della teologia quale pseudoscienza, qualcosa di assimilabile ai corsi di stregoneria o, nel migliore dei casi, come un corso di formazione specifico per diventare preti, che riguarda solo chi ci crede; di qui anche la difficoltà nel riconoscimento dei titoli.
In Germania, ad esempio, non è così, perché si studia teologia nelle università pubbliche e quindi anche la cultura laica si trova a confrontarsi con essa. Magari il problema può essere quello di una certa autoreferenzialità accademica, ma pure in Italia si riscontra diffidenza da parte anche dei fedeli verso gli studi teologici. Come se si potesse farne assolutamente a meno.
Spetta allora ai teologi dimostrare che non è così e che il ruolo della teologia – non solo quella cristiana cattolica romana – è indispensabile per interpretare, costruire e abitare la comunità e gli interrogativi politici, antropologici, esistenziali che la società di oggi pone, troppe volte ignorati dalle facoltà teologiche tradizionali e che – pensiamo alle forme di terrorismo “religioso” o ai riferimenti devozionali nei comizi elettorali – le altre scienze da sole non riescono a spiegare.
– Da dove nasce il progetto culturale e editoriale della rivista Nipoti di Maritain?
La fondazione di Nipoti di Maritain risale al 2012 per opera di due amici della FUCI di Lucca, Lorenzo Banducci e Niccolò Bonetti, che volevano proporre un blog cattolico più vicino all’associazionismo laicale e alle realtà parrocchiali, alternativo rispetto al tradizionalismo egemone tra la galassia web cattolica. Poi divenne una pagina facebook molto attiva e provocatoria, mentre il blog ridusse la propria attività. Nel 2016 pensavano di rispolverarlo in qualche modo, magari raccogliendo i migliori contributi pubblicati; mi affidarono questo compito, che rilanciai estendendo la redazione e indirizzandola a una vera e propria rivista sempre gratuitamente online, con contributi inediti, suddivisi in un dibattito con tre quesiti e in una sezione di rubriche anche con interviste e recensioni.
La rivista Nipoti di Maritain
La mia direzione non ha particolari preclusioni; più volte nella rivista abbiamo ospitato articoli con impostazioni ideologiche divergenti. La differenza rispetto a quelli che papa Francesco definisce i “rigidi” sta solamente qui: nello stile accogliente di tutte le prospettive, purché seriamente fondate, vissute, argomentate. Vengo un po’ rimproverato per essermi spinto oltre rispetto alle finalità originarie, ma non mi pento di essere riuscito a far sentire a casa loro persone con idee molto differenti da quelle dei fondatori, nel momento in cui ci si impegna ad accogliere la sincerità dell’altro interlocutore, soprattutto se si professa cristiano, senza scomunicarlo a ogni piè sospinto.
Se sui social è più difficile, la rivista può essere uno strumento che necessita di una dose in più di attenzione, riflessività e calma; al contempo, non intendo rinunciare alla vocazione “peperina”: anziché sparate fini a loro stesse desidero pro-vocazioni, qualcosa che ci chiami in avanti, in uscita.
– Il riferimento al filosofo francese Maritain rappresenta un orizzonte culturale significativo. Cosa c’è di attuale nella sua lezione e come, all’interno della rivista, viene riletto il pensiero di Maritain?
Maritain per me è stato un “nonno acquisito”, perché sono più legato ad altri autori; non l’ho scelto io, ma incontrarlo è stata l’occasione per approfondire. Mi sono ritrovato “nipoti” già piuttosto autonomi, che per contrapporsi a riferimenti tradizionali della destra cattolica quali Joseph-Marie de Maistre si richiamavano di converso a Maritain, però senza alcun intento filologico particolare.
I Nipoti di Maritain hanno assunto il suo motto «debitori a Voltaire per la tolleranza, debitori a Lutero per il non-conformismo», che non esclude la possibilità di un ripensamento delle proprie posizioni politiche e filosofiche, come lo stesso pensatore cristiano fece in vita sua, passato dalla destra dell’Action Française a una prospettiva più “progressista” che ispirò il Concilio Vaticano II, per finire invece in una critica della modernità, ma pure dei nostalgici reazionari.
Forse l’aspetto più significativo di Maritain è l’attenzione alla persona umana, nella sua integralità, con le sue molteplici relazioni che la costituiscono, capace di resistere alle varie ideologie che la alienano, la mercificano, la considerano semplicemente come una “risorsa” economica; questo poi si traduce necessariamente in una prassi politica e sociale che sa discernere il bene presente per l’uomo in ogni scenario storico, prendendone al contempo le distanze dagli aspetti disumani.
Così sceglie filosoficamente il realismo critico come “terza via” tra il materialismo rozzo e l’idealismo ingenuo; il personalismo tra l’individualismo e il collettivismo; la democrazia sostanziale tra le dittature – nelle quali rientrano anche quelle che Maritain chiamava tecnocrazie pseudo-democratiche, come l’attuale assetto dell’Unione Europea – e il relativismo dissoluto; la costante apertura verso l’Assoluto metafisico quale istanza critica verso ogni assolutizzazione della mondanità, delle logiche economiche o della prassi politica.
La nostra non è dopotutto una rivista di studi maritainiani o sul personalismo, eppure tengo molto alla presenza in ogni numero di una rubrica che faccia riferimento a Maritain, per non perdere l’eredità del “nonno”, poi ovviamente da recepire in modo creativo, possibilmente in relazione a uno dei temi del dibattito. Così abbiamo riletto le pagine di Maritain ad esempio sull’Europa, su Martin Lutero, sul popolo ebraico e sulla guerra giusta, apprezzandone gli aspetti profetici ma segnalando al contempo quelli che gli studi successivi e lo scorrere del tempo ci permettono di considerare obsoleti.
– Nei prossimi mesi, uscirà il numero 9 della rivista. In questi anni quali sono stati i temi principali della vostra ricerca e delle relative pubblicazioni?
I temi di ogni numero sono scelti sempre dai nostri lettori, chiedendo sulla pagina facebook di indicare una preferenza per un tema etico/morale, uno socio/politico e uno ecclesiale/pastorale. In otto numeri abbiamo quindi affrontato 24 quesiti che evidentemente hanno riscosso un certo interesse, se ci è stato chiesto di occuparcene. Come redazione ci siamo occupati solamente di limare la formulazione delle domande, per rendere il dibattito più vivace, e di rispondere anche noi attivamente alle proposte.
Nell’ultimo numero 8 si sono affrontate le questioni della guerra giusta, dell’impegno dei cristiani in politica e dell’attualità di san Tommaso; nella prossima uscita – è ancora aperta sino a fine gennaio 2020 la possibilità di inviare brevi articoli – si parlerà invece di castità e celibato dei preti, del ruolo del simbolico nell’età post-secolare e della sacramentalità nella Chiesa. Guardiamo, inoltre, a una decima uscita un po’ diversa; non escludiamo la possibilità di un volume cartaceo.
– Nipoti di Maritain si definisce anche come una rivista di dibattito ecclesiale. A tuo parere, quali sono le migliori potenzialità, e di riamando, le maggiori criticità della Chiesa italiana di questi anni?
Mi si perdoni l’immagine: la Chiesa italiana pare una marchesa decaduta che ha possedimenti dappertutto e prova a continuare a vivere di rendita; qua e là fa filantropia, pensando di essere ancora importante perché cerca di mantenere qualche legame, da un lato, con la politica e, dall’altro, con i poveri che deve aiutare per difendere un certo ruolo; prevale la nostalgia del passato sullo slancio profetico.
All’altezza dell’essere minoranza
Ha paura di rendersi conto di essere minoranza, perché non vuole far la fatica di riformarsi. Ha splendide opere d’arte, qualcuna musealizzata; biblioteche, ma impolverate da decenni; pensa di fare quel che può, ma in realtà continua a seguire le proprie abitudini, senza scomodarsi più di tanto.
La differenza è che ora il peso ricade sul singolo parroco dislocato su tre parrocchie, mentre prima ciascuna di esse aveva magari tre preti; un clero sovraccaricato a fare un po’ di tutto riesce a fare ben poco seriamente. Abbastanza ignorante, pressato da questioni amministrative e spesso lasciato solo nei frequenti travagli affettivi, è un clero che talvolta si sente “sciamano del villaggio”, costretto ad ascoltare i problemi medici e psicologici di chi si viene a sfogare, ma che deve anche organizzare processioni teatrali e devozioni rituali, nelle zone in cui il prete ha da salvare le apparenze sotto un abito stravagante, per far finta che nulla sia cambiato. Dove gli scandali hanno turbato molto e le chiese sono praticamente vuote, invece, i pochi preti sono dileggiati per strada; vi è chi si vergogna persino a mostrarsi come tale.
In realtà i contesti “scristianizzati” vivono l’opportunità di una rievangelizzazione partendo quasi da zero, eppure con il rischio che i “neoconvertiti” vadano dietro al veggente di turno o alla prima stupidaggine online. Le parrocchie, soprattutto nelle città, hanno esaurito il loro ruolo propulsivo, nonostante la potenzialità di edifici disseminati capillarmente ma sempre più vuoti; ci sono eccezioni grazie a movimenti e figure carismatiche, che tuttavia rischiano di lottizzare la Chiesa o di far ruotare tutta la vita ecclesiale morbosamente attorno a loro. È un clero – e un episcopato – in genere conformista, autoreferenziale, che vive di doppiezze; a parole dice di essere d’accordo con il papa ma poi esita a responsabilizzare il laicato, il quale a sua volta si sente rassicurato dalla presenza di qualcuno cui delegare la gestione delle cose sacre per ricorrervi all’occorrenza, come a uno sportello o a un ufficio.
In questo contesto si acuisce la crisi vocazionale, perché spesso si trascura lo sviluppo di coscienze libere, autonome, in grado di compiere scelte controcorrente; oltre a ciò, il ruolo del presbitero è sempre più sfumato, mentre molti seminari insistono con una desueta impostazione clericale, maschilista e fuori dal tempo che attrae in prevalenza personalità represse o che vogliano reprimersi, affettivamente immature e votate al perbenismo.
Poi pesa molto la presenza del Vaticano; da un lato, può costituire un vantaggio per la facilità nel seguire i gesti e le novità del magistero del papa, dall’altro, genera un rapporto patologico con la politica italiana. Per esempio, la CEI ha caldeggiato il sostegno al centrodestra e ora con modalità analoghe al centrosinistra, legandosi in modo fallimentare ai battibecchi di una parte politica contro l’altra, demonizzata, anziché sforzarsi di comprendere l’ampia fetta di chi – anche tra i fedeli stessi – non la condivide e agli occhi della quale perde credibilità; anche qui la Chiesa ragiona come se fosse maggioranza e non sa ricollocarsi come minoranza significativa e creativa.
È comunque una Chiesa abbastanza attenta alle iniziative di solidarietà, al volontariato e all’associazionismo, che risulta un po’ sterile e stancante se non alimentato dalla linfa della fede, da un sentire ecclesiale profondo, dalla ricerca del senso di ciò che fa. Potrebbe attingere a tutta la forza dello Spirito, nella Comunione e nella Parola, se presentate senza bigottismi, fronzoli, compromessi o ingenuità, bensì con la radicalità evangelica. Ma solo in alcuni casi prova a farlo; esistono nuovi ministeri, anche digitali, che si stanno sviluppando, da chi – non solo preti – condivide commenti al vangelo, testimonianze, espressioni artistiche, vita quotidiana, dialogo con le diversità e ricerche spirituali e intellettuali per rispondere agli interrogativi più vissuti.
Quando la Chiesa aggira le questioni cruciali per dedicarsi al moralismo o a un infantile surrogato dei divertimenti mondani spacciato come innovazione pastorale, è normale che si abbandoni la parrocchia dopo aver “conseguito” la cresima; se si continua a frequentarla, in molti casi è puro conformismo.
Quindi il contesto è variegato, con criticità e opportunità intrecciate. Ultimamente papa Francesco ha scelto veri pastori a guida delle diocesi, come il mio vescovo Gero di Savona-Noli, Franco di Manfredonia-Vieste-San Giovanni Rotondo oppure Angelo di Crotone-Santa Severina, consacrato qualche giorno fa, per citare tre persone che conosco.
Dove ci sono vescovi profetici e amati dal popolo, tuttavia, spesso il clero fa fatica a camminare con loro; viceversa, dove ci sono presbiteri profetici non è raro che i vescovi tarpino loro le ali. In effetti, è più comodo affidar loro parrocchie su parrocchie e funerali su funerali anziché premurarsi della loro continua formazione spirituale, intellettuale e affettiva, sostenere i carismi di ciascuno e favorire l’unità del presbiterio e con il laicato. Ma se i vescovi non valorizzano i presbiteri, è anche prevedibile che i presbiteri non riescano a valorizzare un laicato autonomo.
Intervista pubblicata sul sito Tuttavia il 27 gennaio 2020.