L’intento di questa nota è quello di offrire un possibile contributo al dibattito sulla qualità della riflessione teologica cattolica in Italia.
Più precisamente, vorrei soffermarmi su un aspetto abbastanza specifico della questione, ovvero sulle caratteristiche che identificano la ricerca teologica specialistica e la distinguono da quella divulgativa.
Si tratta di una problematica che può apparire troppo tecnica per poter interessare chi non è impegnato professionalmente nell’ambito teologico, e soprattutto troppo complessa per poter essere abbozzata in poche righe.
In realtà, la scientificità a cui mi riferisco in questo contesto non è quella che deriva da una corretta applicazione del metodo teologico – questione davvero molto complicata –, ma identifica semplicemente il rispetto di alcuni criteri qualitativi fondamentali che riguardano ogni disciplina specialistica, ovvero ogni forma di conoscenza che abbia un oggetto e un metodo sufficientemente condivisi e una comunità di studiosi che vi si dedichi seriamente.
Alcuni criteri
Vorrei mettere a tema alcuni di questi criteri riprendendoli liberamente da una conferenza tenuta nel 2014 dal professor Larry McEnerney, allora direttore del Writing Program presso il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Chicago, dal titolo “L’arte di scrivere in modo efficace” (in inglese, qui).
Mi pare che la proposta di questo docente possa offrire numerosi spunti di riflessione anche alla ricerca teologica italiana, e che anzi questi possano interessare indirettamente tutti i membri delle comunità cristiane.
Secondo McEnerney, qualunque attività di ricerca specialistica – anche teologica, almeno dal mio punto di vista – si differenzia dal dottorato di ricerca. Quest’ultimo consiste nell’approfondire alcuni autori o questioni – più o meno rilevanti – attraverso la lettura del materiale disponibile per poi offrire una propria visione delle problematiche trattate in modo sufficientemente argomentato.
Il candidato al dottorato sa che almeno qualcuno leggerà il suo scritto, cioè i docenti che lo seguono, se non altro perché sono pagati per farlo. In realtà, al di là del caso della tesi, nell’ambito accademico nessuno – men che meno i membri di una comunità di specialisti – è interessato a sapere che cosa una persona pensi. La ricerca, dopo il dottorato, deve quindi cambiare registro.
Quello che rende significativo sul piano specialistico il lavoro di un autore non è la manifestazione frequente (o debordante) del suo pensiero, ma la sua capacità di entrare dentro al dibattito degli specialisti di una determinata disciplina, assumendone correttamente il linguaggio, e di dare un contributo che fa effettivamente avanzare la loro riflessione comune. Il proprio pensiero è rilevante solo nella misura in cui ha questo effetto creativo e trasformativo su questioni aperte.
Dunque, leggere qualche libro su un determinato tema e condividere per iscritto i propri pensieri su di essi non costituisce un lavoro scientifico ma divulgativo, anche se si scrivono decine di monografie e di articoli. Peraltro, la scrittura di un ampio numero di pagine può dipendere più dalla personalità dell’autore che dalla sua effettiva competenza.
Ovviamente anche dei testi divulgativi hanno comunque una loro utilità, e anzi normalmente sono più facilmente vendibili perché fruibili da un ampio pubblico. L’importante è non considerarli come lavori scientifici, che soli dovrebbero consentire gli avanzamenti di carriera nelle istituzioni accademiche, anche ecclesiastiche.
Lo statuto e la differenza qualitativa dei contributi che fanno effettivamente avanzare la ricerca, anche teologica, devono essere assolutamente tutelati rispetto alla produzione divulgativa. Se in questi ultimi decenni nell’ambito virologico fossero stati pubblicati solo articoli e monografie frutto di ideazioni stravaganti o rigorosamente comprensibili al grande pubblico, probabilmente oggi saremmo tutti morti a causa del Covid-19.
Il servizio teologico in Italia
Se si accetta questa comprensione della ricerca scientifica anche per la teologia, va da sé che una produzione specialistica, quella che dovrebbe essere richiesta per l’avanzamento di carriera nell’ambito accademico anche ecclesiastico, non può che avere alle spalle un lavoro immenso. Non basta leggere molti libri, ma si tratta di entrare faticosamente dentro una disciplina al punto da capire la conversazione degli specialisti e da contribuire ad essa in modo creativo.
La cosa è resa ancora più complessa dal fatto che – cosa ovvia nel mondo accademico civile – le comunità specialistiche con cui occorre interagire non sono solo italiane, tedesche, francesi e spagnole. Il mondo, anche teologico, è fortunatamente molto più grande dei confini del nostro “piccolo” continente europeo.
La prassi ordinaria delle università civili del nostro paese, e ancora di più di quella di istituti accademici di eccellenza, dà per scontato che una ricerca specialistica di questo genere richieda un impegno professionale pressoché totalizzante e parecchi anni di duro lavoro, che peraltro non sempre portano a conseguire risultati realmente significativi.
La mia impressione, invece, è che, nonostante quanto richiesto da Veritatis gaudium 29,[1] il servizio dei teologi e delle teologhe nel nostro paese sia compreso come qualcosa di molto, molto meno esigente.
Eppure, l’alternativa alla creazione e al mantenimento di una serie di comunità italiane di veri specialisti nelle varie discipline teologiche è quella di doversi rassegnare ad una pubblicistica teologica fatta di lunghi editoriali, in cui qualcuno esprime liberamente i propri pensieri, oppure di riassunti di documenti e di posizioni teologiche che forse sono già fin troppo noti.
Non serve a migliorare le cose il declinare tutto questo in parecchie centinaia di pagine, o in modo spiritualmente coinvolgente. Fermo restando che anche questi contributi sono molto importanti, la Chiesa del nostro paese si merita anche qualcosa di più.
[1] «I docenti, per poter assolvere al loro ufficio, siano liberi da altre incombenze, incompatibili con i loro compiti di ricerca e di insegnamento, secondo quanto è richiesto negli Statuti dai singoli ordini di docenti».
Trovo l’articolo di Nardello interessante. Qualche mese fa, sempre su Settimana News, avevo espresso simili considerazioni sulla situazione della teologia in Italia. Il problema di fondo, a mio avviso, sta nel fatto che fin quando non si creeranno le condizioni di fondo (sociali, economiche ed ecclesiali) per una teologia rigorosa, ci si dovrà sempre accontentare di mezze soluzioni (pubblicazioni manualistiche, tempi risicati, etc). In tal modo si presterà anche l’alibi per coloro che non hanno fatto realmente un’opzione per la ricerca teologica. Nardello scrive che le sue riflessioni possono non interessare chi “non è impegnato professionalmente nell’ambito teologico”. Ma il punto è che non so (per quanto ci si sforzi di fare) se sia davvero possibile oggi parlare di essere “professionalmente” impegnati nell’ambito della teologia. Comunque, vedo che almeno sta emergendo la sensibilità per la questione…
Mentre la nave va a fuoco, si disquisisce sulla qualità scientifica del manuale di bordo per spegnere gli incendi. Interessante… Con il cristianesimo alla fine, simili disquisizioni – legittimissime all’interno della piccola cerchia, sempre più socialmente isolata, degli addetti ai lavori – danno un apporto di che tipo e di che peso?