Il decano dei teologi italiani, Severino Dianich, il 31 agosto scorso, dalle pagine online di SettimanaNews ha rivolto un severo rimprovero alla teologia (qui). Richiamandosi al pamphlet di Julien Benda La Trahison des Clercs, ha denunciato «un tradimento dei teologi»: perché tacciono in questo tragico e di giorno in giorno sempre più minaccioso frangente della storia che viviamo, con le devastanti guerre in corso ma non solo con questo.
Il fatto è che non possiamo non prendere atto che sono ormai poste sul tappeto, irrevocabilmente, «questioni che toccano profondamente l’umano e, quindi, non possono non coinvolgere i pensatori impegnati nella riflessione sull’esperienza di fede nel Dio che si è fatto uomo».
Un salutare squillo di tromba
Un sonoro e salutare squillo di tromba. E – se mi è permesso – rincarerei persino la dose: perché la posta in gioco è ancora più grossa. Non si tratta soltanto di provocare la teologia, nel suo ruolo di coscienza critica della comunità ecclesiale, perché levi la voce della denuncia e s’inserisca decisamente nel dibattito pubblico a fronte delle emergenze e delle derive etiche, sociali e politiche – ingenti e inquietanti – del nostro oggi… questo va fatto, senz’altro, e confesso che, da un po’ di tempo in qua, più volte mi sono interrogato, con sofferenza e sconcerto, sulla ragione di questa afasia degli intellettuali d’ispirazione cristiana.
Ma non soltanto di questo si tratta, anche se è sintomo palese di un malessere che insidia in modo allarmante tutto il corpo ecclesiale e che la testimonianza profetica di papa Francesco non è sufficiente, da sé sola, a mettere allo scoperto per farne la diagnosi e individuarne la terapia di cura.
No: si tratta di qualcosa di più profondo e pervasivo. Di fronte a quella che Edgar Morin non si stanca di additare lucidamente come una «policrisi ecologica, economica, politica, sociale in continua crescita», dobbiamo riconoscere – sono sempre sue parole – che «il pensiero è diventato cieco». L’intelligenza teoretica e pratica, la visione cioè e la capacità di azione, appaiono bloccate, inibite, quando non inebetite: o si contentano di riciclare stancamente schemi ormai desueti e inefficaci o si consegnano, più o meno consapevolmente, alla dittatura del paradigma tecnocratico che, avviluppandoci tra le spire delle sue onnipresenti e voraci declinazioni politiche, economiche e tecnologiche, stritolano la libertà e spengono la coscienza.
La teologia deve tornare in campo
È a questo livello che la teologia è chiamata in causa e può e deve tornare in campo: nel dare il suo insostituibile contributo a una rivolta per dare il la al cambio di paradigma che sollecita senza più rinvii il pensiero e la prassi nel tempo della complessità, in dialogo con la ricerca sincera e aperta sul senso del nostro destino.
E questo tornare in campo della teologia – un appello per molti versi inedito e accorato dei tempi nostri? – va fatto con responsabilità, con coraggio, con la consapevolezza certo della propria incompiutezza e tentatività, ma, insieme, dell’inestimabile tesoro che la teologia, uscendo dal chiuso dei recinti in cui è rinserrata, è chiamata a trafficare. Non per sé né soltanto per la comunità ecclesiale, ma per il bene comune.
Una simile impresa non è né scontata né facile. Perché né la teologia, né la filosofia, né le diverse scienze e i diversi saperi, ormai da secoli, sono più allenati a questo esigente esercizio di dialogo, tanto più a quel livello di consapevolezza e maturità che l’odierna sfida della complessità richiede. Per dirlo col programma di lavoro che da qualche decennio va imponendosi all’attenzione – anche se, dobbiamo riconoscerlo, con scarsità di riscontri apprezzabili ed efficaci –, si tratta di passare dalla inter-disciplinarità, il semplice confronto a proposito di una questione da parte di più discipline, alla tran-disciplinarità: che si realizza col collocarsi, nel confronto tra i saperi, in quel “luogo” che permette di guadagnare un “punto di vista” in cui tutti possono e devono ritrovarsi, perché vi si gioca, in ultima istanza, il senso e il destino del nostro essere umani.
Con tutta probabilità – per riprendere l’espressione di Morin – oggi il pensiero (quello esercitato distintamente, o meglio – purtroppo! – separatamente, nei diversi saperi) è «cieco», perché è andato perso l’accesso a questo “luogo” e, di conseguenza, a questo “punto di vista”. Solo ritrovandolo, insieme, nel rispetto reciproco delle formalità e intenzionalità di ciascuno di questi saperi, si può guardare in faccia la sfida epocale che c’interpella e discernere le vie pertinenti e praticabili per interpretarla e gestirla.
Dentro, fuori e oltre
Sono convinto che il ruolo della teologia, così come, per un altro verso, quello della filosofia, prima di giocarsi sul contributo che esse possono e debbono offrire nell’affronto delle diverse questioni, si gioca nell’impegno a indicare e offrire le vie di accesso a questo “luogo”.
Il fatto su cui riflettere per prenderne adeguata coscienza è che, come umani, possiamo stare “dentro” la realtà che siamo e viviamo solo guardandola in certo modo da “fuori”.
Come esseri intelligenti e liberi – questo il punto che troppo spesso trascuriamo, sino ad occultarlo – siamo “eccentrici”, non ci identifichiamo cioè con ciò che siamo: o, meglio, lo siamo, ciò che siamo, ma lo interpretiamo, lo giudichiamo, gli diamo forma. In altre parole: noi, sempre, in qualunque pensiero e in qualunque azione, vediamo e facciamo le cose da un determinato punto di vista che è “altro”, che è “fuori”, che è “oltre”, rispetto alla realtà dentro la quale siamo.
Questa presenza interpellante dell’A/altro la percepiamo e la esercitiamo (più o meno consapevolmente) come costitutiva della nostra identità, personale e comunitaria, e come decisiva in riferimento alla sua realizzazione.
L’esperienza religiosa è un segnale indicatore di questa esperienza interiore dell’A/altro che ci costituisce nel fatto stesso che ci apre all’“oltre”. In essa, in vari modi e con varie tonalità, ci si trova e ci si sente di fronte all’Altro come luce che rischiara e interpella da “dentro”, ma, al tempo stesso, da “fuori” e da “oltre”, ciò che siamo essendo chiamati a diventarlo.
Forse nessuno l’ha espresso con più efficacia di sant’Agostino, quando scrive che questo Altro è «intimior intimo meo, superior summo meo». L’esperienza religiosa – non un’illusione, ma una vera esperienza, come quella psichica, etica, estetica – nasce dallo scoprirsi guardati e interpellati, da “dentro” di sé, da questo “fuori” e “oltre” di sé.
Certo, l’esperienza religiosa – come peraltro ogni esperienza dell’umano – è in sé ambigua… Quel “punto di vista” altro – di cui in essa si presagisce la vitale necessità per guardare “dentro” la realtà, vedendovi bene perché la si vede a partire da “fuori” e da “oltre” – può essere temuto (e anche rifiutato) come un’imposizione mortificante e dunque intollerabile. Ma può anche essere idolatricamente addomesticato e persino stravolto, assimilandolo in tutto al nostro punto di vista: che così viene declinato senza riferimento alla verità del punto di vista che viene da “fuori” per lievitare e illuminare da “dentro”.
L’esperienza religiosa però, quando questo accade, è irrimediabilmente adulterata. E si rovescia nel contrario di ciò che è chiamata a essere. Non c’è bisogno di andare indietro nel passato con la memoria per costatare come la religione può diventare strumento di oppressione ed esclusione, con la giustificazione (empia!) persino della violenza e della guerra.
Il punto di vista dell’Altro
La fede cristiana, che non è stata e – ahimé – non è neppure oggi indenne da questa blasfema e tragica falsificazione, ne custodisce però in sé e ne attesta l’antidoto sconvolgente e dirompente e, di qui, è chiamata a sviluppare il principio di una incoercibile e sempre risorgente coscienza critica: «noi – scrive l’apostolo Paolo – annunciamo Cristo crocifisso… (che è) potenza di Dio e sapienza di Dio. Infatti, ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1Cor 1,23.25).
Si può dare un “punto di vista” più altro di questo? e però – pensiamoci bene – vi è qualcosa che, venendo così “da fuori” del nostro modo di pensare, giudicare, agire, può avere una più dirompente incidenza e una più graffiante presa sul “dentro” in cui siamo?
Il “punto di vista” dell’Altro – quel punto di vista “altro” che ci dà di vedere senza filtri e distorsioni la realtà così com’è, con l’energia e la determinazione capaci di trasformarla –, si dà in Gesù come quello che si fa carico delle vittime, degli esclusi, degli scartati. Un rovesciamento da cima a fondo dei valori e delle posizioni: «gli ultimi sono/saranno i primi» (cf. Mt 20,16), «beati i poveri… i miti… i costruttori di pace … i perseguitati per amore della giustizia…» (cf. Mt 5,3-12). Una conversione: l’esodo a un altro “punto di vista”, che – non a caso – nel linguaggio del Vangelo di Gesù si dice metánoia, un andare oltre il modo di pensare abituale, mondano, per ricevere e imparare a esercitare quello che Paolo chiama il pensiero – noûs (cf. 1Cor 2,16) – o anche il modo di discernere e agire – la phrónesis (cf. Fil 2,5) – di Gesù. Il che non è né scontato né facile.
La tentazione mortifera di tornare a ragionare secondo le categorie di pensiero e i criteri di azione dominanti di questo mondo è in agguato. Ricordiamo l’episodio di Cesarea, dove Pietro, subito dopo aver riconosciuto in Gesù la guida e la via, vuole con decisione distoglierlo dal suo proposito e per questo viene da Gesù duramente redarguito: «lontano da me, Satana (tentatore), perché tu non pensi (il riferimento è al phronein di cui in Paolo) secondo Dio ma secondo gli uomini» (Mt 16,23).
L’insostituibile apporto della teologia
Bene. La teologia o è testimone, nell’esercizio del pensiero che orienta l’agire, dell’evento scandaloso del Figlio dell’uomo che manifesta il suo essere Figlio di Dio sul legno della croce e nel grido dell’abbandono che della croce rivela l’abisso da cui nulla più resta escluso, o non è. Né può offrire al dialogo e al confronto tra i saperi, con umiltà ma con determinazione, quel punto di vista “altro” che da “fuori” e da “oltre” permette di calarsi sino in fondo “dentro” la realtà con le sue sfide, le sue contraddizioni, e – diciamolo pure – le sue insensatezze e assurdità.
Ecco l’apporto insostituibile della teologia: far sì che il pensiero – ripeto: il nostro modo di vedere, di giudicare, di agire – sia radicalmente interrogato dalla croce di Cristo, in cui trovano volto e parola i mille e mille Crocifissi sul calvario della storia. Solo così la realtà è vista nel modo giusto e può essere assunta e trasformata.
Questo il senso della risurrezione di Gesù: l’impossibile che si fa possibile, e cioè reale. E così trasforma la storia. Da Dio, certo: ma non senza che il partner umano se ne assuma in proprio l’onere, la responsabilità e l’immaginazione.
Una sfida – permanente e cruciale – per la teologia ma anche per gli altri saperi. Perché, per l’una e per gli altri, implica liberare il riferimento a Gesù dalla reclusione che lo imprigiona nel ghetto di un insipido spiritualismo astratto dal compito esigente e irrinunciabile dell’incidenza effettiva sull’interpretazione della realtà. Come si trattasse di un “placebo” per le anime pie che è inerte rispetto allo status quo, e, al più, funziona come un rifugio per mettersi a posto la coscienza, che altrimenti rischia sempre di disturbare il pacifico andamento delle cose: appunto perché invoca quel “punto di vista” altro che la inquieta nella ricerca incessante e ingaggiata della verità e della giustizia.
L’apostolo Paolo – mi riferisco a lui, perché testimonia il momento cruciale del costituirsi di una coscienza che si fa determinare radicalmente dall’evento della croce e della risurrezione di Cristo – l’ha intuito ed espresso con straordinaria energia. Lo scolpisce, a caratteri indelebili, nella lettera ai Galati: «Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato sé stesso per me […]. Tutti voi siete figli di Dio […]. Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno solo (eἷs) in Cristo Gesù» (Gal 2,19b–20; 3,26a–28).
Paolo è “crocifisso” con Cristo. In Lui pulsa, ora, una vita altra e un altro modo di pensare. Si è realizzato – per grazia, ma con la sua sofferta e perseverante corrispondenza – una metánoia, una trasformazione e trasfigurazione del suo sguardo sulla realtà. E questo perché Saulo, il persecutore, è stato raggiunto e sconvolto dall’incontro col Cristo che, sulla croce, ha dato sé stesso per lui e per tutti. E così è diventato Paolo.
L’incipit e la summa del suo nuovo sguardo sulla realtà prende origine ed è plasmato da quest’evento che l’ha letteralmente capovolto. È da qui che è nato e si è sviluppato in lui un “punto di vista” altro. L’intelligenza è stata crocifissa con Cristo e in Lui risorge con un’altra luce “dentro”, che inaspettatamente è venuta da “fuori”. Questa è la fede, nella sua essenza. Non qualcosa di confessionale: perché, se così fosse, rinchiuderebbe un’altra volta in un recinto, il recinto di chi crede escludendo gli altri. No, è uno sguardo aperto su tutta la realtà e condiviso, per principio, con tutti.
Per questo Caterina da Siena dice che la fede è l’occhio dell’intelligenza. E Chiara Lubich che Gesù Abbandonato sulla croce, essendo la figura della fede, è la pupilla di quest’occhio. Nel senso che questa fede – il dono-di-sé senza residui di Colui che sulla croce patisce l’abbandono, in solidarietà coi fratelli per dare concretezza al disegno di liberazione di tutti del Padre – non è un di più dell’intelligenza: ne è il fuoco, ciò che ne propizia la giustezza di sguardo.
E tanto è vero ed efficace questo fatto – che è un evento sempre in fieri – che Paolo ne deriva le coordinate di un radicale e complessivo cambio di paradigma nell’interpretazione della realtà sociale e antropologica che aveva sotto gli occhi e che era data per scontata: tanto da trovarsi condannati – come spesso e volentieri sempre di nuovo succede – a pensare ed agire solo dentro il suo perimetro.
No, per Paolo, in-Cristo, «non c’è più Giudeo né Greco»: non c’è più nessuna insormontabile separazione a carattere religioso ed etnico; «non c’è più schiavo né libero»: non si dà più una gerarchia sociale con diversità di livelli nella dignità e nei diritti e doveri; «non c’è più maschio e femmina»: non vi è più un apprezzamento della qualità dell’umano solo in base alla differenza di genere e a una relazione, in e per essa, declinata in modo unilaterale e costrittivo.
Paolo intuisce nel Cristo crocifisso e risorto la portata di un vero e proprio cambio di paradigma. Che coinvolge non solo il mondo umano, nelle sue molteplici espressioni, ma anche il mondo naturale: perché – scrive nella lettera ai Romani – c’è in tutta la creazione un’«ardente aspettativa protesa verso la rivelazione dei figli di Dio», per essere «liberata dalla schiavitù della corruzione» ed «entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rom 8,19.21).
Tre dinamiche da mettere in moto
Non sono dunque poche né piccole le «risorse» – per dirla con François Jullien – che sono messe a nostra disposizione oggi, con un’imprevedibile attualità, dall’evento di Gesù Cristo, essendo state coltivate lungo i secoli – con più o meno successo – dalla sua testimonianza e trasmissione viva, e ben oltre i confini dell’adesione formale alla sua sequela. Un’eredità che, sia la teologia che la filosofia e gli altri saperi, ciascuno nell’esercizio specifico che gli è proprio, possono implementare a partire dalla frequentazione del “luogo” che questo evento ha istituito e in cui tutti ci si può ritrovare: perché è un “luogo” che, essendo “fuori” e “oltre”, permette di guardare “dentro” la realtà complessa che viviamo e immaginando quei nuovi paradigmi di pensiero e di azione di cui, ormai, abbiamo necessità come del pane per vivere.
Ma, in concreto, quali dinamiche si possono spendere per mettere in moto questa operazione? Dal “punto di vista” della teologia e come proposta per un approfondimento condiviso e un rilancio da parte della filosofia e degli altri saperi, ne indico tre.
- La prima è la reciprocità. Non per niente l’interpellazione radicale alla coscienza che il Nuovo Testamento deriva dal kerýgma è la regola di relazione e di azione che Gesù propone come decisiva in quanto viene “da fuori” – dalla vita stessa di Dio – per lievitare da “dentro” la nostra storia: «abbiate agape gli uni verso gli altri come io l’ho avuta verso di voi» (cf. Gv 13,34), regola che deriva dall’esperienza dell’agape di Dio, che è Abbà, vissuta da Gesù, il Figlio: «come il Padre ha avuto agape per me, così io ho avuto agape per voi; dimorate nella mia agape» (cf. Gv 15,9).
È questo il “comandamento” che Gesù definisce “suo” e “nuovo”. Non si tratta del banale – e in definitivo falso – atteggiamento ispirato al do ut des: descrive piuttosto l’ethos del dono-di-sé gratuito in risposta al dono gratuito che ci costituisce e ci promuove. Una reciprocità che risponde e interpreta il valore dell’alterità dell’altro in quanto correlata alla manifestazione e promozione della mia identità.
Una reciprocità, dunque, che è dimora di libertà e di apertura, di ridondanza e di novità. In una parola: una reciprocità reciprocante che descrive l’asse attorno a cui è chiamato a girare il mondo. L’asse che è squadernato nel volto di Dio, e dell’uomo, che il Crocifisso ha attestato «una volta per sempre»: la Trinità, il segreto di Dio come Colui che ama, è amato ed è in ciò amore libero e sempre nuovo; e il segreto dell’uomo e della donna, creati a immagine e somiglianza di Dio e chiamati in Gesù, nel soffio dello Spirito, a prender parte con responsabilità e immaginazione, nelle opere e nei giorni della storia, al libero e gratuito evento di convivialità universale e cosmica della Vita trinitaria (cf. Gv 17,21).
- Ma la reciprocità – ecco una seconda coordinata di approfondimento e azione – non è tale, non è in verità inclusiva e generativa, se non nasce nella relazione con le vittime, gli ultimi, gli esclusi, gli scartati. Lo sguardo della reciprocità è lo sguardo “dalle” vittime. Tutto, altrimenti, è falso e sterile, anzi, alla fine, è irrimediabilmente prigioniero dell’ideologia e dello sfruttamento indiscriminato che, asservendo a sé l’altro, distrugge lo stesso.
- E infine – urgente oggi più che mai – la dinamica di uno sguardo che permetta di implementare un’educazione, una cultura, una prassi altra nella gestione dei conflitti. Ci siamo illusi, dopo i due conflitti mondiali del secolo scorso e sotto l’incubo della catastrofe nucleare, di aver intrapreso in modo irreversibile la via che portava al rifiuto della guerra e di qualunque forma di violenza nella risoluzione dei conflitti. Dobbiamo costatare che non è così!
Perché? Vi sono certo delle ragioni psicologiche, sociologiche, politiche ed economiche che producono e alimentano le situazioni di conflittualità e si può bene o male cercare di arginarle, ma se non si va alla radice, il demone della guerra, come l’idra a sette teste, torna sempre di nuovo sulla scena.
Anche su questo fronte il messaggio di Gesù è discriminante e propizia una possibilità altra che, se può apparire agli occhi che non vedono “oltre” sé stessi, un’utopia impossibile, è invece, per gli occhi purificati dalle lacrime proprie e altrui, l’unica realistica possibilità di un nuovo inizio: dove il conflitto non è ignorato o rimosso, ma è superato nell’incontro e il male è vinto con il bene (Rom 12,21).
Che cosa significa e che cosa comporta la regola, che è di fatto “fuori” e “oltre” ogni regola, con cui Gesù dà la misura ultima dell’agape di Dio, il Padre di tutti, trasferita come lievito nella pasta complessa e conflittiva dei nostri rapporti? Le parole di Gesù: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,43-45).
Se si guarda con l’occhio di agape di Dio nel Crocifisso, chi si presenta ed è a tutta prima percepito come “nemico”, non è più visto e trattato come tale. Perché non è più “rinchiuso” in ciò che ha fatto e fa, ha detto e dice contro di me, ma è guardato e considerato «per la promessa che porta in sé, che lascia sempre uno spiraglio di speranza» (papa Francesco, Fratelli tutti, 228).
Solo così si può rompere la catena della vendetta che provoca un’escalation senza fine (è impressionante il linguaggio di giustificazione del diritto di vendetta e di rappresaglia che ascoltiamo ormai abitualmente, senza soste e senza remore!): sino alla distruzione di uno, ma in definitiva di tutti e due i contendenti.
Rompere questo meccanismo perverso significa liberarsi dalla condanna di restare soggiogati da quella stessa forza distruttiva dell’odio di cui si è vittima.
Non si tratta di perdonare rinunciando ai propri diritti e consentendo a chi opprime di continuare a farlo, e neppure di lasciar andare le cose dando spago alla presunzione che ciò che fa l’oppressore è accettabile. No. Si tratta di esercitare quell’unico sguardo che è in grado di cambiare lo sguardo dell’altro.
Senza dimenticare che la forza che anima chi costruisce in tal modo la pace, nella difesa della giustizia e con la fede nella fraternità, è solo quella che s’ingaggia in una lotta senza quartiere di tutt’altro genere: con la denuncia e coi fatti combattendo in ogni modo per disinnescarle le armi dell’ingiustizia e della violenza. È a questo che si riferisce Gesù quando afferma: «non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace ma spada» (Mt 10,26): la spada della lotta, a caro prezzo, per la verità, la giustizia, la fraternità.
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Il pensiero oggi è cieco – Morin ci scuote con queste parole. La teologia, con umiltà, stupore e speranza – perché non parla da sé ma da Colui che ha detto: «Io sono la luce del mondo» (Gv 8,12) – può, vuole e deve condividere la parola del cieco nato: «eppure, lui mi ha aperto gli occhi» (Gv 9,30). Offrendo il suo specifico contributo a ri-pensare insieme il pensiero per interpretare con visione ed efficacia il cambio d’epoca che viviamo.
Non sta cambiando nulla. Leggo parole per non cambiare nulla nel parossistico desiderio che tutto rimanga come prima. Ipocrisia, arroganza, presunzione, prevaricazione sono gli elementi costitutivi del mondo occidentale. Un mondo morto da molto tempo
I due commenti precedenti denunciano il problema non visto dalla teologia maggioritaria: oggi l’uomo è frammentato dentro e le parole, e il pensiero, perciò non possono riconnettersi col sentire. La teologia ha bisogno di riguadagnare emozioni e istinti altrimenti sarà irricevibile oggi.
Parole, parole, parole… verrebbe da dire, rispetto a tutti questi interventi che alla fine cosa propongono? Ma perché invece di usare (sprecare?) tante parole per dire cosa si potrebbe/dovrebbe fare, non si comincia a sviluppare subito (ed è già tardi) una teologia che entra nei problemi contemporanei gravissimi (guerre, conflitti, divisioni, fratellanza mancata, una Chiesa in uscita che forse non sa bene dove andare, ignoranza del catechismo più elementare come dimostra la speciosa polemica sulle parole del Papa sulle religioni…) e nelle difficoltà di dare un senso all’esistenza, alla vita sociale e collettiva? Suggerisco una vera e propria immersione nel libro “Fede Malata”, appena uscito, edizioni Alpes (appena 14 euro), scritto insieme a padre Giuseppe Crea, psicoterapeuta e docente all’Università Salesiana di Roma. Lì ci sono diagnosi, problemi reali, soluzioni effettive.
Bravo!!! Non se ne può più di torrenti di parole, di discorsi fumosi, astratti, cervellotici che non approdano a nulla di concreto e di veramente propositivo.