Caro prof. Lorizio,
grazie per le sue stimolanti e opportune provocazioni in favore di una teologia “militante”, come lei la chiama (SettimanaNews, qui).
E, nondimeno, in favore di una teologia laica, nel duplice senso in cui l’espressione si può e si deve intendere: cioè in riferimento a una teologia pensata da teologi-laici e teologhe-laiche – cui riconoscere e garantire diritto di cittadinanza “attiva oltre che passiva” nelle accademie teologiche italiane; ma pure in riferimento a una teologia pensata più laicamente – sia da parte dei teologi-laici e delle teologhe-laiche sia da parte delle teologhe-religiose e dei teologi-chierici, questi ultimi in netta maggioranza dentro le accademie teologiche italiane, che sono tutte confessionali per motivi che risalgono al 1873 (mi si perdoni l’attenzione alla forma espressiva che si allunga un po’ perché tenta d’essere politically correct: anche questo fattore costituisce, del resto, un risvolto della teologia ripensata laicamente).
Proprio la teologia pensata più laicamente mi pare l’input più utile a spingere la ricerca e la riflessione teologiche al di là dei recinti accademici, come pure lei auspica. I tre “fronti” da lei segnalati sono già molto interessanti (per esempio, il prof. Sergio Tanzarella, nei giorni scorsi, mi confidava che sta mettendo a punto la proposta – rivolta alle facoltà teologiche italiane – di concentrarsi nel prossimo anno accademico sull’elaborazione di una significativa teologia della pace: anche questo sarebbe per la teologia un modo di prendere effettivo contatto con la storia in cui drammaticamente viviamo).
Ma altre frontiere si potrebbero cominciare (o, in taluni casi, continuare con maggior lena) a frequentare per conferire un carattere laico e/o laicale alla teologia italiana. Alcune di queste frontiere sono interne all’orizzonte ecclesiale e possono dare qualità laicale a una teologia che si proietta oltre gli schemi strutturali dell’accademia.
Nel complesso, si tratta di profilare una configurazione autenticamente pastorale della teologia: come suggeriva qualche anno fa ormai papa Francesco ai professori e agli studenti della Facoltà teologica di Buenos Aires, occorre superare la «falsa contrapposizione tra la teologia e la pastorale, tra la riflessione credente e la vita credente».
Ciò non vorrebbe dire dislocare la teologia dalle aule universitarie alle sagrestie. Vorrebbe piuttosto dire tener in maggiore considerazione la dimensione ecclesiale della teologia cristiana (vale a dire le sue motivazioni e ispirazioni comunitarie, oltre che le sue elaborazioni anch’esse comunitarie, cioè portate avanti non solo da chi appartiene a un certo ceto ecclesiastico ma anche da altri membri della comunità credente, perciò anche da laici e laiche, essendo la Chiesa in quanto tale tutta “pastora”, come sempre ricorda il papa).
Il risanamento del “divorzio tra teologia e pastorale”, difatti, “rivoluziona” – secondo il papa – “lo statuto della teologia”: “l’incontro tra dottrina e pastorale non è opzionale, è costitutivo di una teologia che intende essere ecclesiale”. Il tema della sinodalità rappresenta, in questa prospettiva, un importante impegno teologico nei prossimi anni, da incrementare e soprattutto da approfondire e raffinare: può valere anche per la teologia l’invito a innescare processi destinati a svilupparsi, piuttosto che dominare spazi di “potere” fine a se stesso (cf. Evangelii gaudium n. 223 e Laudato si’ n. 178).
Pastoralità, inoltre, significa disponibilità al “dialogo a tutto campo”, come leggiamo al n. 4 del Proemio di Veritatis gaudium. La propensione al dialogo fa della teologia un esercizio relazionale. Per il teologo, il dialogo è logocentrico e non dovrebbe diventare logorroico: esso è ascolto del Lógos molto più che elucubrazione razionale o diatriba intellettuale. Ascolto del Lógos che si prolunga nell’ascolto degli altri, dentro e fuori la Chiesa.
In tal senso il discorso teologico non è finalizzato solamente a dichiarare le proprie ragioni, in chiave apologetica: andando oltre le istanze talvolta polemiche della confutazione, esso dovrebbe prendere in seria considerazione le altrui ragioni e valorizzare i contributi conoscitivi che gli altri saperi mettono a disposizione della teologia stessa. La quale, così, può riproporsi in prospettiva inter e transdisciplinare.
È qui che le frontiere tracimano l’orizzonte ecclesiale, ma anche quelle dell’accademia teologica intesa secondo una struttura classica. Si tratta di tornare a coltivare – con attitudine criticamente ermeneutica e non solo recettivo-descrittiva – l’interlocuzione con saperi quali, per esempio, la sociologia e la psicologia sociale: si pensi alle informazioni e agli strumenti di cui la teologia potrebbe così disporre per trattare temi come quello della “pandemia” che attira l’attenzione del prof. Lorizio.
Si tratta pure di raffinare l’interlocuzione con altri saperi scientifici, come le neuroscienze (si pensi a come si potrebbe rivisitare la teologia della compassione recependo criticamente le informazioni sui cosiddetti neuroni-specchio). E di riprendere il dialogo con le espressioni culturali di tipo artistico e letterario, depositarie di quegli interrogativi di senso che l’essere umano in quanto tale si pone continuamente, anche in questa nostra epoca.
Melchior Cano avrebbe parlato di un’estensione del numero di quelli ch’egli chiamava “luoghi alieni” della teologia: insomma, proprio uno spunto peculiarmente epistemologico per la nostra teologia. Ma il dialogo si deve raffinare anche con altri saperi più tradizionalmente affini alla ricerca teologica, come l’esegesi storico-critica, per un verso, e le filosofie odierne, per altro verso.
Per queste vie, a mio parere, si può “laicamente” procedere oltre gli schemi di una certa accademia teologica. Così, forse, la teologia potrebbe davvero mettersi “in uscita”: dalle aule scolastiche, dai laboratori accademici, dalle lezioni curriculari, potrebbe passare a interessarsi di ciò che affatica e preoccupa (ma che allieta anche, se si pensa alla teologia del gioco pensata dal dott. Fabio Cittadini) la gente per le strade delle città, di ciò che le Chiese sperano per il futuro, di ciò che l’attuale congiuntura storica esige che si prenda in seria considerazione.
Non si tratterebbe di fare una teologia superficiale, non più concentrata sui libri. Si tratterebbe, piuttosto, di pensare una teologia che si prende in carico anche l’umano.
Concordo pienamente sulla questione economica sollevata dal bravo Naro. Credo sia abbastanza evidente che se si procede ad accorpamenti degli istituti di scienze religiose per esempio è perché mancano risorse umane ed economiche. In più è evidente come mai nei vari istituti, nella varie facoltà, nelle diverse università – forse fa eccezione la Lateranense – attualmente in Italia almeno il 90% dei docenti siano consacrati. Come giustamente Naro dice c’è l’otto per mille che assicura loro uno stipendio fisso. Negli stessi istituti di cui sopra inoltre non c’è un concorso per insegnare teologia: si è cooptati. Questo è un peccato perché magari potrebbe far pervenire sulle cattedre menti brillanti. Altro problema: certamente ci sono laici più clericali dei preti ma, dato che non c’è un concorso, chi li ha messi lì? Costoro hanno una missio canonica ma non hanno fatto un concorso per insegnare teologia pertanto c’è anche un problema riguardante la scelta di coloro che insegano teologia che rimangono lì in cattedra senza che nessuno chieda loro di dar conto della teologia che insegnano. Il caso del GPII è abbastanza eclatante: prima di AL si insegnava una teologia ora se ne insegna un’altra (e sottolineo evviva!!!) ma questo felice cambiamento non è avvenuto tramite concorso. Infine mi pare che se andiamo a vedere il futuro della teologia passa anche dall’amore per la Sacra Scrittura che in Italia manca.
Effettivamente la “questione di soldi” ha un suo “peso” nel discorso che stiamo qui facendo. Dove insegno si percepisce un molto modico compenso, a prescindere che si sia preti – come me – oppure laici. Questo vale, purtroppo, sia per chi si occupa di discipline teologiche sia per chi si occupa di discipline non teologiche, insegnando per esempio filosofia, o storia della chiesa e del cristianesimo, o storia dell’arte, o sociologia, o antropologia culturale, o islamologia, ecc. I docenti che sono preti, peraltro, sono chiamati a “pareggiare” i conti con quanto percepiscono tramite il “sostentamento del clero”, in modo tale da non superare il tetto stesso del compenso che un prete riceve essendo inserito nel sistema del “sostentamento clero” (a seconda degli anni trascorsi dall’ordinazione presbiterale, dagli ottocento euro ai poco più di mille). Ciò vale anche e soprattutto per i docenti ordinari, benché i docenti ordinari laici percepiscano probabilmente uno stipendio un tantino incrementato rispetto a quello percepito dai docenti preti e non abbiano ovviamente da pareggiare i conti col “sostentamento clero”. Immagino che sia così pure altrove, anche se è da mettere in conto che in talune facoltà teologiche o in taluni atenei pontifici possa essere diverso. Si può, inoltre, dare il caso che chi insegna discipline teologiche in istituzioni accademiche come l’Università Cattolica o la Lumsa o l’Ateneo Sophia percepisca (almeno in proporzione) di più rispetto a chi insegna presso le facoltà teologiche italiane. Questo profilo economico della questione attiene però, almeno mi pare, alla questione “docenza della teologia” più che alla questione della “qualità della riflessione teologica”. Nondimeno è questo modesto profilo economico che per molte persone abbassa l’appeal della “professione” teologica, sia tra i preti sia tra i laici. E rende superfluo persino il meccanismo dei concorsi pubblici: che si concorre a fare e – più a monte – che s’investe a fare in studi e in ricerche, che durano anni e anni, se poi il ritorno economico rischierà di non assicurare uno stipendio che possa aiutare a far fronte alla vita quotidiana di una famiglia. Comunque, sebbene sia importante – lo ribadisco – parlare di queste cose, rimango dell’avviso che sia un po’ meno “teologicamente” interessante. Meglio, brevemente, interloquire su altre sottolineature.
Ognuno usa le parole innanzitutto seguendo una propria intenzione, che nella brevità di un post non si può sempre esplicare compiutamente. Quando collego il “politicamente corretto” a una teologia laicamente ripensata e riformulata, ho in mente un particolare significato attribuibile alla laicità: il pluralismo, l’attitudine a valorizzare e a rispettare la pluralità, o – detto altrimenti – a non presumersi gli unici “sul campo” (solo gli uomini, solo i preti, ecc.). Quando poi auspico una teologia che tematizzi adeguatamente e seriamente anche l’umano, semplicemente intendo che è pur sempre utile ricordare che la teologia stessa deve coinvolgere nel proprio orizzonte di ricerca e di riflessione quelle dimensioni che – apparentemente – il suo etimo sembra escludere, dato che l’espressione greca da cui deriva rimanda alla sfera del divino (teologia come discorso sul divino): intendo, soprattutto, dire che ci sono articolazioni dell’umano che – nelle diverse congiunture e nelle varie contingenze – emergono o restano nell’ombra di volta in volta, e che è il caso di dedicare maggiore attenzione – nel far teologia – a quelle espressioni dell’umano che oggi reclamano debita considerazione. Chi conosce l’input che in tal senso ha dato il Vaticano II, “concilio umanista”, e chi ha scritto sulla “rifondazione teologica dell’umano” e sul “ritorno in teologia delle esperienze elementari”, non dovrebbe stupirsene.
Detto questo, colgo l’occasione per chiarire a me stesso alcune altre cose, di cui ho discusso con alcuni amici che mi hanno privatamente contattato a seguito del mio post (che voleva essere solo una risonanza positiva alle riflessioni offerte in prima battuta da Pino Lorizio).
Un primo chiarimento riguarda l’aggettivo “militante” con cui si intitola questa serie di post (quello di Lorizio, questo mio): in giorni di guerra come questi, il termine ad alcuni potrebbe giustamente suonare ambiguo, specialmente se si pensa alle motivazioni “teologiche” che della guerra russo-ucraina alcuni stanno insistentemente teorizzando. Reputo che qui “militante” debba esser inteso col significato di engagé: non tanto per dire la carica ideologica della teologia, quanto piuttosto per ricordarne la disponibilità a spendersi in un impegno civile e culturale condiviso nella società con gli operatori e i rappresentanti di altre branche del sapere.
Un secondo chiarimento riguarda la necessità di evidenziare – un po’ paradossalmente – una certa indole laica della teologia. Non mi pare superfluo evidenziarla. Specialmente se si pensa che ancora oggi capita di sentire che chi consegue in una facoltà teologica i gradi accademici, consegue dei titoli “in sacra teologia”. È una formula che continua a far presumere che la teologia sia fatta solamente dai e per i preti. Soprattutto che essa si mantenga distaccata e – al limite – chiusa ai contributi di chi ha una matrice culturale eterogenea rispetto alla teologia stessa. Smarcarsi rispetto a questi fraintendimenti non mi pare inutile.
Terzo chiarimento: quando scrivo dell’indole “pastorale” della teologia intendo la sua indole “pratica” (il suo esser vocata a tradursi in prassi ecclesiale), come ormai anni fa insegnava Sergio Lanza e ancor prima di lui, in Germania, Karl Rahner. Ma nel contesto di questa discussione preferisco usare l’aggettivo “pastorale” per aver l’agio di chiamare in causa la questione della Chiesa tutta “pastora”, cioè tutta quanta – nel suo complesso comunitario e nel suo insieme comunionale – soggetto di vita ecclesiale e anche di pensiero credente: compresi perciò i laici e le laiche quali studiosi e studiose di teologia.
Quarto chiarimento, che deriva dal terzo: può sembrare contraddittorio che io supporti la laicità della teologia facendo riferimento agli input magisteriali del papa. Piaccia o non piaccia ai teologi, proprio il papa è il primo a indicare una strada epistemologicamente percorribile per la teologia odierna in vista di un suo ripensamento “laico” (cioè dialogico, ad ampio spettro). Le sue indicazioni (penso ad alcune pagine sull’ecologia integrale di Laudato si’ o al Proemio di Veritatis gaudium), d’altronde, sono facilmente riscontrabili nei siti on line in cui sono riprodotti i suoi scritti, che sono perciò più agevolmente e più immediatamente recuperabili da parte di tutti, più che le pubblicazioni specialistiche dei teologi di professione. Più importante, però, è che anche il magistero sta dimostrando così di saper attraversare ai nostri giorni una promettente metamorfosi (epistemologica): assume sempre più un timbro propositivo, tipico dei ragionamenti dialogici, e dismette sempre più il tono apodittico, tipico piuttosto dei pronunciamenti dottrinari… La teologia, che in ogni caso ha nel suo Dna epistemologico anche una propensione a “fare i conti” col magistero, imparando a rifare i conti con un tale rinnovato magistero forse può avere una chance in più di rinnovare pure se stessa.
Prima di tutto ringrazio per la risposta: in molti contesti, infatti, non è infrequente trovare articolisti che non hanno cura della ricezione degli spunti che hanno inteso proporre. Mi fa piacere che nella risposta emerga un profilo più definito del termine “laicità”, che in sé è certamente ambiguo: se non vedo evidenza dell’equivalenza laico=dialogico, mi sembra comunque che i chiarimenti 2-4 siano effettivamente utili. Il punto, però, è che non collegherei l’espressione “sacra teologia” all’idea che sia fatta solo da e per preti, quanto (a monte) ad una concezione sacrale della fede. Non per nulla, ancora nel nuovo Messale Romano (oltre che in quasi tutti i documenti magisteriali degli ultimi decenni) compare la dizione “sacerdote” per indicare i preti. Non spingo oltre in questo momento la sottolineatura di una distinzione terminologica che segna una differenza tra mondi, e su cui il Vaticano II (a partire da LG) non è stato ancora recepito. Quanto alla tematizzazione dell’umano in teologia, non per nulla facevo riferimento a una teologia “cristiana” (ossia che custodisca ancora un ancoraggio all’umanità del Figlio): ma sul fatto che esistano altre teologie fuori da quella cristiana non c’è dubbio. Tornando un attimo alla questione economica, credo di essere stato comprensibilmente frainteso, dato che avevo cominciato sottolineando la paradossalità di una riflessione sulla laicità della teologia condotta da preti (a partire da quella ambiguità del termine “laicità” già evidenziata): ma nelle mie intenzioni, che ora provo a esplicitare meglio, intendevo portare in evidenza proprio quanto messo in luce nella risposta. Ossia il fatto che il ritorno economico, solitamente, non assicura uno stipendio che con cui far fronte alla vita quotidiana, indistintamente per i preti come per i laici. Ma, piaccia o non piaccia, la questione del sostentamento del clero è in quest’ambito decisiva, per ragioni che non mi sembra necessario esplicitare ulteriormente. Che si tratti di una questione teologicamente interessante, ad ogni modo, non lo mostrano solo alcune pagine evangeliche che si occupano specificamente di questioni economiche (le riflessioni sul korban, per fare un esempio tra tanti), quanto l’idea stessa della possibilità di un “professionismo del sacro”, che si riverbera poi nell’idea di teologia come “scienza sacra”, cioè per preti. L’eliminazione dell’infrastruttura sacrale, insomma, è condizione di possibilità di un esercizio della ragione teologica che non venga ridotto a ragione clericale. Parlando di epistemologia, credo si debba parlare anche, e forse innanzitutto, di questo.
A dirle il vero, anche il mio post di partenza era stato inviato da me semplicemente come risposta a un precedente post di Pino Lorizio: è stato poi pubblicato a parte e di conseguenza eccoci qui a discutere di varie altre cose, pur in qualche misura collegate alle precedenti… Questioni come il professionismo del sacro, il clericalismo, ecc., che a me sembrano con grande evidenza – comunque – appannaggio non esclusivo dei preti…
Forse non c’entra nulla con i temi sin qui discussi, ma – giacché siamo ancora nella settimana pasquale – auguro a Lei e a tutti i lettori di SettimanaNews cordiali auguri: https://www.centrocammarata.com/auguri.html
Credo che proprio il fatto che il commento iniziale sia stato pubblicato a parte abbia aperto l’occasione di un confronto più ampio, e immagino che proprio così si raggiunga lo scopo di un post pubblico. Condivido la grande evidenza, ma un’altra evidenza è che i laici clericali non si formano da soli, e come minimo hanno ricevuto in parrocchia i sacramenti. Spero ci siano altre occasioni per tornare su questi o altri temi. Frattanto porgo anch’io un cordialissimo saluto, e un sincero augurio di una buona Pasqua
Che a parlare di laicità della teologia possano essere dei preti, dipende anche dal fatto che diversi laici sono più clericali di preti e vescovi, soprattutto nella forma mentis. Per questo non mi interessa la teologia dei o per i laici, ma la laicità (popolare) del sapere credente. Quanto al supporto economico, mi ricordo che tempo fa in sede CEI si disse che ai laici docenti nelle Facoltà teologiche italiane, bisognava attribuire contratti AGIDAE (quelli delle scuole cattoliche) con incrementi in base a partecipazione a progetti di ricerca e alle disponibilità della facoltà. Il che li poneva in posizione decisamente migliore rispetto al clero. So che a Napoli (San Luigi) viene seguita tale indicazione. Come dici tu, nelle Pontificie romane dipendenti dalla Santa Sede (fra cui la mia) vi è un trattamento omologo fra laici e presbiteri e mi sembra decisamente adeguato. le altre non ho idea di come si organizzino in merito.
È curioso e sintomatico, e tuttavia inevitabile, che un dibattito sulla laicità della teologia venga messo in piedi da preti. Se invece di discutere di questioni epistemologiche, pur decisamente importanti, ci si mettesse a discutere delle vere questioni “calde” qui in gioco, che sono primariamente questioni di soldi (il pagamento degli stipendi dei docenti) e questioni di potere (la presenza della teologia nell’Università pubblica italiana…e i mali della stagione ruiniana sono ancora a questo riguardo tutti tra noi, e sono probabilmente ormai insuperabili, vista la mutata congiuntura storica), credo che il tenore delle argomentazioni sarebbe differente. Tra l’altro, mi sfuggono le ragioni per le quali il “politicamente corretto” costituirebbe un risvolto di una teologia ripensata laicamente. Quando infine si auspica l’avvento di una teologia che si prenda in carico “anche” l’umano, mi viene davvero da chiedermi di cosa si stia parlando, dato che vorrei capire quale teologia cristiana (fuori da un pregiudizio antimoderno che non ha nulla di autenticamente Tradizionale, e che dovrebbe essere stato completamente superato almeno dalla conclusione del Concilio Vaticano II) dovrebbe eventualmente poter essere possibile a prescindere dall’umano.