Anche quest’anno, durante le ferie natalizie, l’Associazione teologica italiana ha offerto ai propri soci e al più ampio mondo teologico il suo consueto percorso di aggiornamento, volto ad approfondire un singolo trattato o una questione specifica che è oggetto di dibattito tra gli specialisti di una determinata disciplina.
Il tema che è stato affrontato nel corso che si è svolto a Roma dal 2 al 4 gennaio 2020, e che ha visto la partecipazione di una novantina di persone, è stato quello del presbitero e delle sue relazioni con il vescovo, il presbiterio e i diaconi. La rilevanza direttamente pastorale della tematica trattata ha fatto sì che fossero presenti anche diversi formatori di seminari italiani.
Recuperare la teologia del Vaticano II
La relazione di apertura è stata offerta da Gilles Routhier che, con un intervento molto ben documentato, ha presentato la teologia del presbiterato del Vaticano II focalizzandosi soprattutto sul decreto Presbyterorum ordinis.
Questo rappresenta il testo conciliare più avanzato sul ministero presbiterale, come dimostra lo studio del suo iter redazionale. Se, inizialmente, si è considerato il presbiterato come stato di perfezione in sé stesso, a prescindere dal suo servizio nella Chiesa e per il mondo, si è arrivati gradualmente a coglierne l’identità nel suo essere un ministero, cioè un modo peculiare di partecipare alla missione ecclesiale accanto ad altri. Purtroppo, il percorso ecclesiale postconciliare ha visto una sorta di regressione al modello tridentino di presbiterato, soprattutto per far fronte a interpretazioni teologiche che ne svilivano il valore e la peculiarità. Oggi però, è possibile e quindi necessario ritornare alla linea teologica introdotta dal Vaticano II, abbandonando definitivamente l’interpretazione sacrale del ministero ordinato.
L’intervento di Dario Vitali sul tema del carattere del sacramento dell’ordine ha preso le mosse dagli elementi centrali della teologia del ministero della LG, in particolare dalla riconciliazione tra l’autorità sacramentale e quella di governo e dalla sacramentalità dell’episcopato, evidenziando come questi aspetti abbiano comportato un rinnovamento piuttosto radicale purtroppo in parte ancora disatteso. Ha chiarito poi come il carattere conferito con l’episcopato non sia una sorta di doppione di quello donato con il presbiterato, perché solo il vescovo rappresenta pienamente Cristo capo, ed è quindi l’unico principio visibile e fondamento dell’unità della sua Chiesa. Insomma, si tratta di due ministeri in parte differenti.
Da protagonista a presidente dell’assemblea
La relazione di Roberto Repole sul rapporto tra vescovo e presbiterio ha evidenziato la poca chiarezza sul tema. La LG ha valorizzato il ministero presbiterale rispetto a quello episcopale, insegnando che i presbiteri partecipano al compito apostolico e che sono necessari e non opzionali alla vita della Chiesa, ma ha solo iniziato a riflettere sul presbiterio. D’altra parte, il modello patristico del vescovo padre del presbiterio e del popolo non può aiutarci più di tanto, perché è difficilmente applicabile a realtà ecclesiali numerose come quelle odierne. A complicare la questione interviene anche il problema di una non chiara comprensione dell’episcopato come pienezza del sacramento dell’ordine, come pure la sua dubbia collocazione all’interno o al di sopra del presbiterio.
Serena Noceti ha riflettuto sul rapporto tra presbiteri e diaconi a partire da un recupero di alcuni testi di LG. Sostenendo una fondazione ecclesiologica e non direttamente cristologica del ministero, ha colto la peculiarità del diaconato a partire dal suo servizio ecclesiale, proponendolo come custode dell’effettivo carattere evangelico delle relazioni nella comunità e del suo impegno nei confronti dei poveri.
Luigi Girardi, riflettendo sulla presidenza liturgica del presbitero, ha evidenziato come il Vaticano II abbia determinato il suo passaggio dal ruolo di celebrante, cioè di protagonista dell’azione liturgica, a quello di presidente di un’assemblea che celebra e che, in questo modo, diventa comunità cristiana, servendosi di un rito poco plasmabile che evidenzia come il momento liturgico abbia Dio come protagonista.
Riprendendo il tema della presidenza della comunità, Giovanni Frausini ha evidenziato, attraverso un’analisi di diverse fonti liturgiche, come la profonda unità tra presidenza liturgica e pastorale sia attestata, in forme diverse, in ogni epoca della storia ecclesiale.
Ripensare i modelli formativi
Nell’ultima sessione dedicata ai modelli formativi al presbiterato, Maurizio Tagliaferri ha offerto una vivace presentazione dell’abbondante letteratura sul tema, che testimonia sia la molteplicità delle figure presbiterali sia la fatica di formare ordinandi e ordinati a vivere un ministero fruttuoso.
Infine, la relazione del vescovo Erio Castellucci ha proposto, nel quadro della teologia del ministero del Vaticano II, un possibile ripensamento della formazione al ministero presbiterale, valorizzando molto di più rispetto al modello attuale la forma di vita e il contesto relazionale e pastorale nel quale i seminaristi entreranno comunque dopo l’ordinazione presbiterale.
Tutte le relazioni sono state concordi nel richiamare la necessità di recuperare il Vaticano II e la svolta che esso ha determinato nella comprensione del ministero ordinato.
E quindi di pensarlo in termini comunionali e non sacrali, collocato all’interno del popolo di Dio come una forma di ministerialità accanto ad altre.
È però rimasta marginale la questione fondamentale di un possibile superamento delle categorie ontologiche per fondare la peculiarità e l’autorità dei diaconi, dei presbiteri e dei vescovi, che porta forse in modo inevitabile ad uno sbilanciamento del loro ruolo rispetto agli altri credenti.
Si può fare a meno di queste categorie, affermando semplicemente che il ministro agisce nel nome del Signore e non per una delega della comunità in virtù del carisma ricevuto con l’ordinazione? Ovviamente, la risposta a questa domanda non può prescindere da un superamento complessivo delle categorie ontologiche in tutta la teologia, obiettivo che diverse linee teologiche stanno cercando di perseguire, ma che forse richiede ancora molto tempo e, ovviamente, una buona dose di coraggio.
Nella storia della Chiesa hanno finora prevalso, alternandosi, due orientamenti.
Uno, quello platoniano, agostiniano, variamente tendente allo spiritualismo, ossia a una spiritualità più attenta alle intenzioni che a tutto l’uomo. Rischiando dunque un discernimento poco incarnato.
L’altro filone è quello aristotelico, tomista, tendente ad un certo razionalismo, un’attenzione sì alla vita umana integrale ma in genere di fatto considerata attraverso logiche variamente astratte.
Oggi nella Chiesa va emergendo un possibile terzo orientamento, che dunque viene a smuovere la secolare staticità di fondo dei precedenti: una tendenza a cercare la crescita nel contatto con la vissuta vita concreta. Dunque tendenzialmente tutto un mondo prima valutato quasi in laboratorio che ora si può affacciare nel discernimento.
Si tratta allora di stimoli che possono aver aiutato molte guide ad uscire dai vecchi gusci di cui sopra. Ma il quadro generale anche in questo terzo caso sembra restare quello della cultura precedente con le sue astrazioni. I riferimenti da un lato vengono riconosciuti, da un altro vengono guardati con vario sospetto per la frequente interpretazione meccanica cui sono sottoposti. Si può però così finire nel pragmatismo. Anche qui, come tutti i riduttivismi, rischiando di favorire nuovi slogan, nuove logiche di apparato.
Questi passaggi storici, queste non casuali oscillazioni, possono forse aiutare ad intuire il bisogno di un oltre. Un oltre finalmente più facilmente sentito vicino dalla gente. Che in vario modo ha avvertito in passato certi freddi schematismi o certe spiritualità per pochi intimi, così come oggi può percepire un qualche spegnimento valoriale, identitario.
Si sta forse preparando un graduale, talora lentissimo, salto epocale. La fuoriuscita dal razionalismo e l’ingresso nel discernimento del cuore nella luce serena. Chissà se sarà prima necessario sperimentare il crollo totale della società del tecnicismo delle astrazioni, del pragmatismo di rimando. O il guado potrà venire riconosciuto magari da alcune teste di ponte.
Gesù non ha mai trattato nei vangeli di fede e ragione ma di Spirito e umanità della persona, della comunità, specifica. E via dicendo. Il cuore nella luce serena, a misura, quando per esempio riceve il dono della fede può imparare a crescere con gradualità e buonsenso verso e grazie ai sostanzialmente immutabili riferimenti, imparando dalla Chiesa e da ogni uomo.
Spirito, conoscenza, vita concreta, trovano così la naturale via di armonizzazione invece di scindersi o di giustapporsi. Il cuore divino e umano di Gesù, sul quale lo Spirito scende come una colomba, è la chiave di ogni cosa. Su questa scia viviamo, vediamo, ogni cosa in modo sempre nuovo. Anche sempre meglio cogliendo il buono di ciascuno. Non è impressionante che Maria abbia detto con poche densissime parole: il mio cuore immacolato trionferà?