«La riforma è soprattutto conversione, non una sorta di lifting o maquillage».[1]
Forse dallo spirito che celano queste semplici parole hanno preso avvio le riflessioni dei vescovi della Regione Ecclesiale Panamazzonica, quando lo scorso ottobre si sono radunati a Roma per uno dei Sinodi più importanti dell’epoca post-Vaticano II.
Il Documento Finale (DF), infatti, delinea i nuovi cammini per la Chiesa in Amazzonia attraverso quattro tipi di conversione: quasi a ribadire che i nuovi cammini non sono novità alla moda, ma sentieri che favoriscono una conversione più radicale al Vangelo di Cristo.
A giudicare dai non placet ricevuti dai paragrafi del DF, gli aspetti più discussi sono stati quelli relativi alla “conversione sinodale”: ad esempio, la proposta del diaconato femminile, quella dell’ordinazione sacerdotale di uomini idonei e maturi oppure un maggiore ventaglio di opzioni ministeriali accessibili senza disparità di genere. E il prossimo Sinodo del 2022 verterà proprio sul tema: “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione”.
Querida Amazonia (QA) si preoccupa di precisare sin dai primi numeri che «non sostituisce né ripete» l’approvato DF. Auspica piuttosto un’«armoniosa, creativa e fruttuosa recezione» del cammino sinodale, che p. Antonio José De Almeida ha definito ancora aperto in un’interessante intervista a Il Regno.[2] QA infatti – senza favorire inutili rotture[3] – desidera che tutta la Chiesa «si lasci interpellare» progressivamente dal DF, al quale attribuisce un respiro universale, alla luce del desiderio dei vescovi stessi così come emerso nel n. 111: considerando la necessità di fornire «un approccio universale» alla questione dell’ordinazione sacerdotale di diaconi sposati.
Nuove strade sono possibili
Il papa ci tiene a precisare che QA si inserisce nel solco delle Conferenze dei vescovi latinoamericani: Medellin, Santarem, Puebla, Santo Domingo e Aparecida, al fine di promuovere il rostro (il volto) della Chiesa amazzonica.
Ci sembra pertanto opportuno non sorvolare superficialmente sulla stagione del Sinodo panamazzonico, ma continuare a sviscerarne con creatività i suggerimenti.
- Innanzitutto, la questione dei viri probati espressa dai vescovi nel già citato n. 111 del DF, non sminuisce il valore spirituale ed ecclesiale del celibato. Questa proposta si colloca nell’alveo della tradizione della Chiesa e nel contributo prezioso della comunità locale.
Così i vescovi si mostrano disponibili a «ordinare sacerdoti uomini idonei e riconosciuti dalla comunità, i quali, pur avendo una famiglia legittimamente costituita e stabile, abbiano un diaconato permanente fecondo e ricevano una formazione adeguata per il presbiterato al fine di sostenere la vita della comunità cristiana» (DF 111).
Il rilievo della comunità chiamata a riconoscere l’idoneità dei candidati non è superfluo e nemmeno esclude quella dell’autorità competente, ma apre ad una considerazione della Chiesa locale più inclusiva delle istanze particolari e dell’intero popolo di Dio. Già Karl Rahner prospettava questa ipotesi in Trasformazione strutturale della Chiesa come compito e come chance: salus animarum suprema lex.[4]
Lo stesso numero ci permette una valutazione più profonda del valore della tradizione ecclesiale, alla luce di Presbyterorum ordinis 16.
Questo fatidico paragrafo del decreto conciliare esprime emblematicamente la dinamica evolutiva a cui è chiamata la Tradizione – in particolare la recezione conciliare – dal momento che, alle sue spalle, conosciamo un acceso dibattito che provocò l’assunzione dell’argomento nella regia di Paolo VI.[5]
Questo rilievo storico ci permette di ricostruire la complessità del tema in questione e soprattutto la difficoltà di affrontarlo in maniera veramente sinodale. Il paragrafo stesso però specifica che il celibato non exigitur quidem a sacerdotio suapte natura ma convenientiam, è legato non alla natura stessa del sacerdozio, ma a ragioni di molteplice convenienza.
I vescovi panamazzonici ritornano dunque su un dibattito già noto, ampliando la riflessione sulla scia della recezione conciliare.[6] A tal proposito, la recezione non può tradire la tradizione che, sia nella prassi primitiva sia in quella delle Chiese orientali,[7] prevede il celibato facoltativo.
- Un’altra proposta che emerge dal prezioso DF concerne l’inculturazione di una ministerialità che includa e valorizzi le differenze, in particolare quella di genere. Papa Francesco stesso in QA esige che siano fornite in merito risposte «specifiche e coraggiose», perché la donna riscopra la sua soggettualità di battezzata all’interno della comunità senza scadere in funzionalismi/clericalismi, ai quali sono esposti anche i battezzati.
In QA 92 così scrive: «C’è necessità di sacerdoti, ma ciò non esclude che ordinariamente i diaconi permanenti – che dovrebbero essere molti di più in Amazzonia –, le religiose e i laici stessi assumano responsabilità importanti per la crescita delle comunità e che maturino nell’esercizio di tali funzioni grazie ad un adeguato accompagnamento».
Il ruolo della comunità risulta essere di vitale importanza, dal momento che ciascun battezzato/a assolve ad un ministero da e per una comunità che non consente discriminazioni di genere: «Non c’è qui né giudeo né greco; non c’è né schiavo né libero; non c’è né maschio né femmina; perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28).
Di qui la necessità – come previsto nel DF 102 – di revisionare con urgenza Ministeria qaedam di Paolo VI in merito all’esclusione delle donne dai ministeri del lettorato e dell’accolitato, insieme alla reale possibilità di affidare la cura pastorale di una comunità ad una battezzata come normato dal CJC,[8] senza o con l’ordinazione diaconale.[9]
In QA 103 papa Francesco segue la scia del DF: «In una Chiesa sinodale le donne, che di fatto svolgono un ruolo centrale nelle comunità amazzoniche, dovrebbero poter accedere a funzioni e anche a servizi ecclesiali che non richiedano l’Ordine sacro e permettano di esprimere meglio il posto loro proprio. È bene ricordare che tali servizi comportano una stabilità, un riconoscimento pubblico e il mandato da parte del Vescovo.
Questo fa anche sì che le donne abbiano un’incidenza reale ed effettiva nell’organizzazione, nelle decisioni più importanti e nella guida delle comunità, ma senza smettere di farlo con lo stile proprio della loro impronta femminile».
Far coesistere tradizione e aggiornamento
La vexata quaestio dell’ermeneutica conciliare non è giunta a compimento: perché numerose istanze e sensibilità risalenti al Vaticano II sono state disattese o soppresse. Riemergono come e quando vuole lo Spirito: il quale integra armoniosamente i diversi senza disperdere l’unità.
L’ecclesiologia conciliare ha cercato l’equilibrio tra la comunità locale e universale che emerge oggi dal DF attraverso la proposta di un rito amazzonico, che possa rispettare e valorizzare – secondo la tradizione – le peculiarità del volto amazzonico.
La stagione post-Vaticano II ha tentato – a fasi alterne – di coniugare aggiornamento e tradizione com’era nei desideri di papa Giovanni XXIII, sebbene le pagine acerbe del Concilio non abbiano avuto slanci profetici di eventuale recezione.[10] Pertanto, la conversione ecclesiale esige una ricezione fedele e audace della tradizione della Chiesa, che permetta di intraprendere i nuovi cammini integrando le istanze locali (LG 26) nel respiro universale.
[1] PAPA FRANCESCO, Discorso alla Curia romana in occasione degli auguri natalizi, 22 dicembre 2016.
[2] Da questa intervista muovo per scrivere la mia riflessione: La parola alle Chiesa locali. Intervista ad Antonio José Almeida, a cura di M. Castagnaro, Il Regno. Attualità, 15.04.20, 8 (1322).
[3] “Il romano Pontefice, quale successore di Pietro, è il perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei vescovi sia della moltitudine dei fedeli”, Lumen gentium 23.
[4] K. RAHNER, Trasformazione strutturale della Chiesa, Queriniana, Brescia 1973,135.
[5] E. CASTELLUCCI, Presbyterorum ordinis, in S. NOCETI – R. REPOLE (edd.) Commentario ai Documenti del Vaticano II, Dehoniane, Bologna 2017, 415.
[6] Vedi il prezioso contributo di S. NOCETI, La Chiesa rinasce dall’Amazzonia, Il Regno. Attualità, 15.11.19, 20 (1312).
[7] Durante il Concilio il patriarca melchita Maximos IV chiese di considerare più attentamente la prassi orientale, avanzando la richiesta di istituire una commissione post-conciliare per approfondire il delicato tema.
[8] 8 Can. 517 §2. “Nel caso che il vescovo diocesano, a motivo della scarsità di sacerdoti, abbia giudicato di dover affidare a un diacono o ad una persona non insignita del carattere sacerdotale o ad una comunità di persone una partecipazione nell’esercizio della cura pastorale di una parrocchia, costituisca un sacerdote il quale, con la potestà di parroco, sia il moderatore della cura pastorale”.
[9] Nel già citato testo di K. Rahner, ribadiva pure la possibilità di invertire il principio: presidente della celebrazione eucaristica = presidente della comunità.
[10] Vedi il già citato articolo di S. Noceti.