Si è concluso venerdì 28 gennaio, alla Lateranense, l’11° Forum internazionale promosso dalla Pontificia accademia di teologia dedicato al tema “Nuovi itinerari in teologia: l’eredità del Novecento”. Pubblichiamo la sintesi della relazione di mons. Giuseppe Lorizio su “Istanza kerygmatico-kairologica. Radicalità della fede e radicalismo del pensiero”.
La teologia accade solo dopo che il kairós (tempo favorevole) si è realizzato e il kérygma (primo annuncio) è stato proclamato. Se non intendiamo assistere impotenti al costante declino della teologia accademica che è sotto gli occhi di tutti (magari il sapere teologico sopravvivrà in altre forme), allora siamo chiamati a prendere coscienza della necessità di un sempre rinnovato e radicale aggancio del nostro teologare al momento kairologico e all’attitudine kerygmatica.
In tale prospettiva più che di un’istanza si tratterà di pensare un “modello” teologico ellittico, con i due fuochi del kérygma e del kairós, nella consapevolezza che originariamente si dava la coincidenza delle due parole nell’unico evento salvifico, in analogia con la coincidenza a livello comunicativo fra medium e messaggio (cf. Marshall McLuhan e Derrick de Kerckhove) – Deus revelans = Deus revelatus (il Dio che rivela è lo stesso Dio che si rivela). E la Chiesa? Essa «nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede» (Dei Verbum, 8).
Il kérygma può essere inteso come “sfida” e come “conforto”, fra il “dialettico” (contrapposizione al mondo) e il “trascendentale” (continuità con la condizione umana). Si tratta dell’eredità del Novecento, ma anche della tentazione di sempre e in particolare dell’oggi. Possiamo rinvenire queste due suggestive istanze in due rappresentazioni filmiche quali God’s not dead e Don’t look up.
Nel primo raccogliamo la sfida del giovane studente credente, evangelicale, al docente ateo sull’origine dell’universo, nel secondo il conforto del giovane credente alla mensa che precede la catastrofe, espressa in una suggestiva preghiera: «Caro Padre e Creatore onnipotente, stasera chiediamo la tua grazia, nonostante il nostro orgoglio, il tuo perdono, nonostante i nostri dubbi, soprattutto, Signore, chiediamo che il tuo amore ci dia conforto in questi tempi bui per affrontare qualunque cosa accada per tua divina volontà, con il coraggio e il cuore aperto all’accettazione. Amen».
Kerygma e Kairos
Nel momento in cui teologia e kérygma si allontanano conseguono esiti nefasti per entrambi: la teologia diventa sterile, il kérygma fondamentalismo violento. Il compito della teologia si propone a salvaguardia dell’annuncio, sia da una sempre in agguato deriva letteralistico-fondamentalista, sia dal rischio di essere ridotto a buonismo consolatorio. Ma qualche rischio bisogna pur correre dato che il rischio, secondo la prospettiva di Ulrich Beck, è ciò che ci separa dalla catastrofe.
Siamo di fronte ai due volti del Gesù storico: “profeta apocalittico” e/o “rabbi itinerante” (cf. il Gesù di Pier Paolo Pasolini e il Gesù di Franco Zeffirelli: un confronto critico). Entrambe queste figure devono abitare il modello teologico kerygmatico-kairologico, ma la prima finisce col prevalere sulla seconda. Tale modello si presenta come una ellissi con due fuochi: quello kerygmatico e quello kairologico.
Il primo fuoco rimanda al tema fondamentale del linguaggio, che, nel caso della fede e della teologia, dovrà essere performativo, piuttosto che informativo, secondo il dettato della Spe salvi, 2: «Solo quando il futuro è certo come realtà̀ positiva, diventa vivibile anche il presente. Così possiamo ora dire: il cristianesimo non era soltanto una «buona notizia» – una comunicazione di contenuti fino a quel momento ignoti. Nel nostro linguaggio si direbbe: il messaggio cristiano non era solo “informativo”, ma “performativo”.
Ciò̀significa: il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita. La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente: gli è stata donata una vita nuova». Al tempo stesso sarà “rivelativo” piuttosto che meramente “comunicativo”: «[…] il linguaggio non è per nulla al servizio della comunicazione mondana, ma è a servizio della rivelazione dell’Essere. Il linguaggio dunque, se rettamente inteso, è un evento rivelativo, non un evento comunicativo […]. Questa rivelazione non è però qualcosa che il soggetto avido di conoscenza possa produrre da sé» (la concezione del linguaggio secondo Walter Benjamin nell’interpretazione di Wolfram Eilenberger). Senza voler necessariamente dialettizzare si può ritenere che il linguaggio della fede sarà comunicativo solo se in primo luogo rivelativo.
Il tempo cruciale
Il fuoco kairologico, chiama in causa la questione del tempo e della storia. «Il significato che il Nuovo Testamento attribuisce al termine kairós non appare mai così adeguatamente espresso come in un passo del Vangelo di Giovanni (7,3ss), veramente classico a questo riguardo, in cui Gesù dice ai suoi increduli fratelli: «Non è ancora venuto il mio kairós (di salire a Gerusalemme); ma il vostro kairós è sempre propizio» (v. 6)”. È “il tempo come momento pregnante e occasione propizia di essere raggiunti da Dio che salva» (così A. Marangon). «La parola, che in seguito venne a significare il concetto di un momento cruciale del tempo, originariamente indicava la cocca dell’arco» (così N. Frye).
Il modello teologico interpretativo che cerco di adottare nel momento in cui esercito tale immane fatica è quello kerygmatico/kairologico, che tra l’altro chiama in causa una riflessione sul tempo, capace di procedere oltre la prospettiva della storicità, elaborata nel corso del Novecento filosofico e teologico. Nella voce “tempo”, che mi è stata affidata dai curatori del Nuovo Dizionario Teologico Interdisciplinare, edito dalle Dehoniane di Bologna, scrivevo: «Oggi le dimensioni dell’umano, o addirittura del post-umano (questo fantasma che minacciosamente incombe su di noi, insieme a quello del transumanesimo) vengono sempre e comunque individuate, descritte e proposte all’interno di un eterno presente, in cui il kairós laico dell’attimo fuggente sottrae ogni rapporto autentico col passato e di conseguenza col futuro».
E questa prospettiva mi sembra feconda anche come chiave di lettura delle nuove forme di ritorno al religioso. Coltivare una certa nostalgia della diacronia sarebbe altrettanto urgente, ma la sincronizzazione con (e del) l’evento, che peraltro chiama in causa una struttura fondamentale del cattolicesimo, ovvero la sacramentalità, non può essere lasciata in balìa di gruppi, che forse sarebbe meglio chiamare sette.
Nel modello che cerco di abitare la dimensione testimoniale della fede si coniuga con quella intellettuale: martyrìa e apologìa e in tale orizzonte l’eredità del Novecento, nella chiave interconfessionale di cui mi sto occupando, è rappresentata da figure come quelle di Pavel Aleksandrovic Florenskij (1882-1937 vittima del gulag staliniano), Edith Stein (1891-1942, martire ad Auschwitz) e Dietrich Bonhoeffer (1906-1945, giustiziato a Flossenbürg). Ho cercato di raccogliere la loro eredità nel saggio “Teologia fondamentale”, pubblicato nell’opera La teologia del XX secolo. Un bilancio, a cura di G. Canobbio e P. Coda, Città Nuova, Roma 2003, I, 391-499).
- Prima pubblicazione su l’Osservatore Romano (29 gennaio 2022).
Ogni sintesi rischia sempre di essere troppo sintetica e, quindi, sembra un testo di spot più o meno felici. Tuttavia a me pare che la teologia manchi di una sana confidenza con l’umanità, quella vera, quella concreta. D’altronde la Sacra Scrittura mette in scena una storia di salvezza in cui Dio non ha alcuna paura o remora di entrare in contatto con l’uomo peccatore. Ecco la teologia ha bisogno di questo di mettersi seriamente in ascolto dell’uomo, dei suoi problemi e delle sue esigenze, delle sue gioie e delle sue sofferenze, non deve guardare all’idealità, ma scendere nell’inferi di ogni uomo e lì portare luce. Solo così sarà radicale! Inoltre dovrebbe approfittare di un pensiero (sano) ateo che sfocia nel campo della teologia, come nel caso di Jullien che vede nel cristianesimo una risorsa.