Il volume Questo tempo e il suo oltre. Aggiornamento sull’escatologia (Glossa, Milano 2024, pp. 336, 33 euro), che raccoglie gli atti del XXXII corso di aggiornamento dell’Associazione Teologica Italiana, propone una rilettura a molte voci di alcune questioni o categorie centrali della escatologia, individuando possibili nuove prospettive per il rinnovamento, divenuto necessario e sempre complicato, del trattato escatologico. Riprendiamo di seguito l’introduzione, firmata da Vincenzo Di Pilato che insieme a Simona Segoloni è curatore del volume dell’ATI.
In seguito agli attentati terroristici contro la sede del giornale satirico Charlie Hebdo e quello, ben più drammatico per il numero di vittime, al teatro Bataclan di Parigi, in una intervista a Le Figaro, Alain Finkielkraut affermò perentoriamente che: «Dieu est parti, et il ne dépend pas de nous de le faire revenir. Je crois que ce qui est mort pour bon en France comme dans le reste du monde occidental, c’est la croyance en la vie éternelle»[1].
Alla lettura dialettica delle culture proposta da Samuel P. Huntington nel 1996, alquanto approssimativa per spiegare il fenomeno globale dell’interdipendenza tra gli Stati e i popoli, Finkielkraut riteneva, dunque, vi fosse piuttosto in corso uno “scontro tra escatologie”, tra modi diversi cioè di attraversare le “crisi”.
È quanto sostiene anche papa Francesco quando afferma che peggio di una crisi «c’è solo il dramma di sprecarla»[2]. In fondo, il cambiamento climatico, i rovesci finanziari e le influenze azionarie negative a livello internazionale, la pandemia, le guerre di annessione (si pensi all’Ucraina o Taiwan) o le rivendicazioni territoriali da parte di popoli diversi (come avviene ad esempio tra israeliani e palestinesi), susseguitisi dall’11 settembre 2001 ad oggi, non possono certo essere compresi esaustivamente secondo quel residuato bellico del Novecento che è il paradigma culturale dello “scontro di civiltà”.
Ugualmente, non ci si può neppure accontentare di limitarsi a richiamare passivamente il triplice movimento della coscienza storica attestato dai profeti biblici: memoria delle opere di Dio compiute in passato; infedeltà nel presente; intervento divino a favore del popolo eletto nel futuro[3]. La domanda centrale diventa la seguente: con l’incarnazione del Verbo di Dio, Gesù, il Cristo, cosa è accaduto all’escatologia e all’apocalittica giudaiche?
La madre di tutta la teologia cristiana
Quantunque dal punto di vista cronologico compaia dopo l’escatologia, l’apocalittica giudaica ebbe ripercussioni profonde nel cristianesimo primitivo tanto da essere persino riconosciuta da E. Käseman come «die Mutter aller christlichen Theologie (la madre di tutta la teologia cristiana)»[4].
Molto più incisivo appare, invece, J.B. Metz quando afferma che nell’apocalittica «si scorge non primariamente il mitico confinamento del tempo in un rigido schema cosmico, bensì – al contrario – il radicale temporizzarsi del mondo»[5]. Per questo motivo, «la coscienza catastrofale propria dell’apocalittica è fondamentalmente una coscienza del tempo, e non già una coscienza del momento della catastrofe, bensì della natura catastrofica del tempo stesso, del carattere di discontinuità, di cessazione e di fine che il tempo comporta»[6].
Sulla scia della grande intuizione dell’opera Offenbarung als Geschichte (1961) di W. Pannenberg – che preannuncia in un certo qual modo il primo capitolo della Dei Verbum (1965) – questa nuova “coscienza del tempo” pone interrogativi impellenti alle donne e agli uomini di fede. La questione della “vita eterna” – proclamata solennemente e ecclesialmente dai battezzati nel Simbolo di fede – giunge ad incalzare la “vita presente” dei credenti solamente all’approssimarsi della loro o altrui morte? L’escatologia in rapporto all’evento estremo della morte riguarda solo il “dopo”? È doveroso interrogarci se e come la visione escatologica disegnata dalla fede sia capace di suscitare o meno una massa critica tale da segnare, se non sconvolgere, positivamente la “vita terrena”? Oppure la fede nella vita eterna è simile a un anestetico pronto a lenire le dolorose ferite provocate dalla miseria reale, come sosteneva K. Marx: «das Opium des Volkes»[7] (l’oppio del popolo)?
Come si spiega che dalla parola di speranza apocalisse sia venuta fuori la metafora di una catastrofe e dal concetto di attesa di escatologia la metafora di una promessa? Come si concilia la fine di questo mondo e di questo tempo, definita dai due concetti [escatologia e apocalisse], con l’idea ovunque dominante di un tempo e di una storia infiniti? Si va avanti sempre così o l’attesa di una fine di questo tempo e di questa storia ha un fondamento? A ciò si ricollega l’ulteriore domanda, se il pensiero apocalittico e la credenza escatologica stabilizzino i rapporti esistenti, o se racchiudano una forza critica, se non rivoluzionaria, rivolta contro lo status quo. Detto in termini drastici: questo pensiero e questa credenza portano alla politica o allontanano dalla politica?[8].
Senza una corretta visione escatologica, il rischio è di considerare i racconti biblici veterotestamentari come un invito ad accumulare beni in questa vita ignorando le conseguenze negative sulla giustizia distributiva. È quanto sostenne Marx nella sua opera più celebre: «Akkumuliert, Akkumuliert! Das ist Moses und die Propheten (Accumulate, accumulate! Questo è ciò che dicono la Legge [Mosè] e i Profeti!)»[9].
L’escatologia e le crisi
Il magistero pontificio e i teologi del Novecento hanno dovuto affrontare di petto questa “Critica della religione” in chiave “economica” che ha portato a conseguenze disastrose anche sul piano “politico”. In una delle sue ultime pubblicazioni prima di morire (10 dicembre 1968), K. Barth confessò che fu E. Thurneysen, pastore di un villaggio vicino e intimo suo amico fin dai tempi in cui era studente, a ispirargli in privato la celebre espressione al cuore della sua riflessione: «Ciò di cui abbiamo bisogno per la predicazione, l’insegnamento e la cura pastorale è un fondamento teologico “totalmente altro” (ganz andere)»[10].
Entrambi stavano soffrendo, nell’agosto 1914, per una crisi di fede legata alla presa di posizione “politica” di 93 intellettuali tedeschi a favore degli obiettivi bellici del Kaiser. Tra i firmatari c’erano anche i professori di teologia liberale che fino ad allora Barth tanto ammirava. Egli credeva che avessero tradito la fede cristiana riducendola a una religione, a un sistema di “questo” mondo.
«Nel pensiero di Barth, totaliter aliter è originariamente la nuova società in contraddizione con la società in declino e l’elemento di originalità in questa contraddizione non sarebbe altro che Dio stesso»[11]. Dopo la fine della Prima guerra mondiale, commentando i vv. 24-25 del cap. 8 della Lettera ai Romani sull’azione dello Spirito Santo nella creazione, a proposito della non visibilità di «ciò che si spera», Barth ribadì a chiare lettere:
«La speranza visibile non è speranza». La diretta comunicazione di Dio non è comunicazione di Dio. Il cristianesimo, che non è totalmente e completamente escatologia, non ha totalmente e completamente a che fare con Cristo. Lo spirito che non affiora dalla morte a nuova vita non è in alcun caso lo Spirito Santo. Poiché «le cose visibili sono temporali» (2Cor 4,18). (…) Non si tratta di Dio, dunque, ma di un riflesso dell’uomo non redento. Non importa quanto sia magnificente la costruzione del progresso sociale (…) La redenzione è l’intangibile, l’inaccessibile, l’impossibile che incontriamo come speranza[12].
Se il Regno di Dio non è, dunque, da intendersi come il prolungamento dei regni di questo mondo (cf. Gv 18,36), quale ruolo gioca la fede nel campo della politica e dell’economia? Dovremo fermarci a sognare l’eternità come narra la Leggenda medioevale dei due monaci e predisporci con “santa indifferenza”?[13]. L’escatologia è forse frutto di un sogno ultraterreno avulso dalle “crisi” che toccano la nostra pelle?[14]
L’uomo contemporaneo appare simile a quei viaggiatori che non tengono più in conto lo scorrere del tempo, poiché sembra scomparsa da loro l’attesa di una destinazione. Eccoci così giunti alla questione centrale intorno alla quale ha ruotato il Corso di aggiornamento dell’Associazione Teologica Italiana (ATI)[15]: l’implosione sul presente e sul contingente sta portando inevitabilmente con sé il rischio di vanificare qualsiasi discorso escatologico in teologia.
In un’epoca come la nostra schiacciata dall’istantaneità del presente, in cui l’attesa è fagocitata dall’ansia di un novum inteso solo in senso “cumulativo”, la percezione del tempo ha un ruolo determinante per l’antropologia cristiana. Le istanze heideggeriane del Novecento hanno sì lasciato intravedere la temporalità come orizzonte ultimo del Dasein, al contempo però hanno lasciato che sporgessero da esso le condizioni di possibilità (non: di necessità!) di ad-cedere a ciò che ex-cede la finitezza delle singole esperienze limite dell’umano. Obiettivo del corso è stato, dunque, quello di individuare i punti di rigenerazione dell’apertura escatologica del tempo, nella valorizzazione del presente quale spazio aperto all’incontro con il Dio di Gesù Cristo e con l’altro-da-sé[16].
Contesto, snodi, la relazione
Il Corso è stato scandito da tre momenti: il contesto; gli snodi (giudizio, morte, vita); la relazione “oltre” il tempo intervallati da due comunicazioni di giovani studiosi[17].
Si è trattato di una lettura del contesto culturale che fa da sfondo al rapporto tra soggetto e temporalità. C’è un “fondamento” della nostra esperienza del tempo? Cosa ci permette di pensare che il “fondamento” non rappresenti una chiusura del/nel tempo? Da una parte, A. Nitrola ha esposto una ricognizione dei problemi relativi al trattato sull’escatologia; dall’altra, K. Appel ha affrontato la questione filosofica del tempo (come pensarlo e come individuare “un fondamento” che non sia semplicemente dedotto dal darsi della storia).
Tali questioni interpellano il rapporto tra il soggetto umano e la realtà, il suo essere-corpo e l’apertura alla trascendenza; simultaneamente, esse pongono in rilievo la consistenza di tutta la realtà creata nel suo tendere – nel novum della Pasqua – al suo telos. Il tracciamento delle coordinate di fondo di una “ontologia della temporalità” trova il suo luogo eletto nell’Evento di Gesù Cristo. A partire da esso, è possibile interagire con quelle visioni apocalittiche dell’odierna lettura della storia, particolarmente evidenti alla luce della messa in crisi del presente nell’emergenza sanitaria globale della pandemia e dai conflitti armati in corso in una sorta – come ripete papa Francesco – di “guerra mondiale a pezzi”.
In un secondo momento, si sono prese in esame le categorie di giudizio, morte e vita in prospettiva teologica. L’esperienza umana nella temporalità è scandita da durate, attese, desideri: come in esse preme la speranza che è promessa e attuata in Gesù Cristo? In questo senso si è reso possibile elaborare un approfondimento di quelle opposizioni polari del vivere quotidiano come crisi/rinascita; dolore/speranza; vita/morte.
Infine, si è presa in considerazione la tenuta delle relazioni umane – per così dire – “oltre” il tempo. In senso proprio, l’obiettivo è stato quello di focalizzarci sulle relazioni della e nella chiesa con coloro che non vivono più nella storia come mortali: ad esempio, Maria di Nazareth (cercando una possibile rilettura del dogma dell’Assunzione), con i fratelli e sorelle defunti e con coloro che consideriamo santi (nell’esperienza spirituale, nella liturgia). Come la promessa di compimento che inabita il vivere umano, facendolo tendere oltre se stesso, si con-figura nel nostro contesto culturale?
Il tema dell’escatologia si rivela quanto mai attuale, incalzante! In una intervista, rilasciata proprio nei giorni in cui si è svolto il Corso, la regista Liliana Cavani ha annunciato il suo ultimo film: L’ordine del tempo, riferimento diretto al saggio di Carlo Rovelli (Adelphi, Milano 2017) – citato dal prof. Aime nella sua ricca e puntuale relazione.
L’idea di un tempo che sta per finire, di un’umanità che forse sta vivendo i suoi ultimi giorni, tra guerre, pandemie e catastrofi climatiche, – sostiene la regista – è qualcosa che fa parte del sentire collettivo. La mia Apocalisse arriva dal cielo: un asteroide cambia rotta e punta sulla Terra. Si chiama Anaconda, come il serpente che si rigenera da solo. Una catastrofe annunciata che si cerca di tener nascosta per non scatenare il panico. Tra i pochi che ne sono a conoscenza il nostro fisico, che con alcuni amici si ritrova al mare per festeggiare un compleanno (…) Sapere che tra poco tutto finirà innesca mille reazioni. Che fare nelle ultime ore? Rimediare a degli errori, dire quello che non ho mai detto? Disperarsi o reagire? Sarà l’istinto di vita a prevalere: non sapendo quando moriremo, continuiamo a vivere, tenerci stretti gli affetti più cari. Fino all’ultimo istante[18].
Fine o finitudine?
Concludo indicando solo su due aspetti che meriterebbero ulteriori approfondimenti: il rapporto tra tempo cosmologico e finitudine; la dissomiglianza teologico-dogmatica tra eschaton e apokalypsis provocata dalla krisis.
Ciò che accomuna credenti e non credenti è la finitudine espressa nella naturalità del morire. Lo sapevano molto bene i saggi dell’antichità greca quando mettevano in guardia i governanti e i sudditi dalla travolgente hybris. La sfida per l’uomo o la donna non era dunque quella di cancellare il male nel mondo, ma di custodirsi a vicenda esercitando la phronesis e così perseguire la giustizia. Non è un caso che K. Appel abbia descritto l’eschaton come la visibilità dei gesti di amicizia posti in essere nel giorno di Adonaj. Da Lucrezio ad Albert Camus, questo “senso del limite” che si trasforma in amicizia è ciò che veramente protegge dall’hybris. «Avere un amico, guardarlo, seguirlo con gli occhi, ammirarlo con amicizia, – scriveva J. Derrida riferendosi al filosofo J.M. Benoist morto prematuramente di cancro – significa sapere con intensità, crescente e anticipatamente ferita, sempre insistente, sempre più indimenticabile, che uno dei due vedrà fatalmente morire l’altro»[19]. E ricordando Paul de Man, in prosa più aforistica, scriveva: «Non esiste amicizia senza questo sapere della finitudine»[20].
Questa esperienza di amicizia tra umani[21] non sta solo a ricordarci la verità dell’esistenza. Nonostante le tecnologie sembrino promettere altro, il dato inoppugnabile delle scienze fisiche e biologiche – come ha ricordato Aime – è che il nostro pianeta è destinato a spegnersi da qui a qualche miliardo di anni. Per il tempo cosmologico “oggettuale”, l’eschaton diventa così totale entropia, ancor più aggravata dal paradigma tecnocratico dell’attuale antropocene[22]. Riprendendo due concetti di J. Monod, qual è dunque il significato della morte e della vita umana in un mondo dominato dal caso e dalla necessità?
Per rispondere a questa domanda, occorre far entrare in partita un terzo elemento, il fantasista del gioco umano: la libertà. Vi è un tempo soggettuale aperto dal Testo sacro. La Bibbia può essere considerata un manuale di preparazione alla festa, al giorno del Signore. Ogni giorno può essere escatologico. «Il tempo escatologico – ha scritto Appel in queste pagine – è la trascendenza del tempo cronologico. È espresso nelle feste e nella liturgia della tradizione cristiana ed ebraica. Il tempo biblico non mira alla cronologia, ma alla festa come forma più profonda del tempo».
La scienza da sola non basta, dunque, a spiegare la complessità dell’esistenza umana. Il nostro corpo – che M. Baldacci sulla scorta di R. Guardini ci ha rammentato non coincidere con la sua somaticità – è soltanto un robot o un automa che obbedisce ai suoi geni, un «composto» – come lo è un mulino, secondo Leibniz – di trasmissione dell’informazione genetica oppure qualcos’altro? Non è forse «sacramento della persona» (Giovanni Paolo II)?
La coscienza della finitudine permette ai credenti (e non) di esercitarsi nella compassione per ogni forma di vita mortale e in cerca di un senso. Alla rivolta contro le oppressioni, le ingiustizie, la finitudine stessa va contrapposta la generosità dell’anima e la solidarietà fino a scorgervi una tessitura collettiva[23]. Ed è questa trama interpersonale a disporre l’umano al suo compimento – come ci ha spiegato Maraldi – ovverosia all’accoglienza di Dio che si fa piccolo con l’Incarnazione del Verbo; e si manifesta Creatore onnipotente e datore di vita dinnanzi alla caducità della vita terrestre.
Pensare il tempo nel suo intreccio tra oggettuale e soggettuale (o liturgico), aiuta a cogliere l’apertura che in esso si dà nel pensare il suo oltre. In questo senso, la contemporaneità oggi si autoalimenta all’interno di un’unica grande narrazione cosmologica. Eppure il tempo, che connota il rapporto tra gli umani e il mondo come storia, non è solo l’ammasso congestionato di oggetti, possiede piuttosto una tessitura relazionale nella quale si dispiega l’accadere sempre nuovo dell’esistenza in Cristo. Ripensare l’orizzonte del tempo significa prendere sul serio lo scarto che lo segna e la prospettiva della Parusia nella sua dinamica transtorica. Per quanto la riflessione sul tempo appaia compito improbo e quasi inesauribile, la teologia è chiamata a fare i conti con una nuova coscienza apocalittica postmoderna alla luce di questo approfondimento della trama del tempo.
Il Corso ha mostrato con sempre più nettezza la dissomiglianza tra due termini: eschaton e apokalypsis – come emerso, pur con sottolineature diverse, dalle relazioni di Nitrola e Salvatore – che in tempi di crisi tendono ad essere sovrapposti. Dal punto di vista cronologico, l’apocalittica fa la sua comparsa nell’Antico Testamento dopo l’escatologia e non si sostituisce a essa pur coesistendo per lungo tempo l’una accanto all’altra e influenzando il concetto di Rivelazione cristiana nel corso dei secoli.
Alla luce dell’insegnamento del Vaticano II circa il rapporto della Chiesa con il mondo contemporaneo, è necessario ripensare un “metodo transdisciplinare” che tenga conto di una semeiotica della temporalità in cui si esprime la krisis, il giudizio sia di Dio sia dell’uomo in forma sapienziale, salvifica. Se Gesù non è un apocalittico – è stato ribadito – come fu Giovanni il Battista (E. Salvatore), dobbiamo tuttavia sostenere che Gesù è l’Apocalisse in Persona che cammina nella storia come Chiesa. «Egli è il Protos e l’Eschatos» (Ap 1,17). Anzi la massima rivelazione avviene nel momento di massima “crisi” di Dio nei confronti dell’umano: sulla croce.
Nella redazione finale di DV 4, la menzione originariamente prevista tratta da 1Cor 1,7 («expectantibus revelationem Domini») e presente nello schema fino al 1964, fu sostituita col rimando a 1Tm 6,14 («in adventum Domini») e a Tt 2,13 («expectantes beatam spem et adventum gloriae magni Dei»), ossia apokalypsis (revelatio) fu sostituita con epiphaneia (manifestatio, adventus [Vg]). Tale regolazione del linguaggio fu adottata onde evitare il doppio senso di rivelazione: «rivelazione» portata a termine nella morte e risurrezione di Gesù, e «rivelazione» del Signore nella gloria. In realtà, la Rivelazione è una sola e si distende nel tempo escatologico. Per questo le ultime parole della Bibbia cristiana nel mezzo della “crisi apocalittica” sono: «Maranathà! Vieni Signore, Gesù» (Ap 22,20).
Conclusione
La crisi come dato permanente dell’esistenza umana implica la riscoperta del suo autentico significato di attraversamento della “differenza dei tempi” in un legame di unità con Dio, e non semplicemente la perturbazione di un sistema cronologico asfittico. Una teologia della crisi è una ermeneutica della storia che rende praticabile abitare e attraversare la differenza.
L’ampio e lucido status quaestionis di F. Scanziani ha permesso di cogliere un assestamento della teologia attorno ad alcuni aspetti cruciali, ma allo stesso tempo di strutturare nuovi punti di ripartenza in direzione di un approfondimento della cornice trinitaria della morte. Quale cambiamento apporta, infatti, pensare la morte nell’orizzonte della comunione a livello verticale e orizzontale? Cosa permette di ritrovare l’autentico senso della socialità della morte?
La ricalibratura cristologico-trinitaria secondo un’indole relazionale sembra più che necessaria anche per reinterpretare il dogma dell’Assunta all’interno della comunione dei Santi – come ci ha suggerito S. Segoloni. L’evento della risurrezione di Cristo opera anzitutto una conversione dello sguardo sul tempo e il suo oltre e tale postura invita a porre attenzione al lemma specifico “eschatos” nei Vangeli. Esso non sta a indicare semplicemente un tempo o uno spazio “oltre”, bensì anche una “condizione sociale” assunta in primis dagli Apostoli (cfr. 1Cor 4,9) e poi da tutti i discepoli di Cristo quali servitori (cfr. Mc 9,5) che da “ultimi diventano primi” (cfr. Mt 20,16).
Pensare le “cose ultime” (eschata) senza mettersi “all’ultimo posto” significa restare aldiquà di quel Mistero che si fa evento non solo individualmente, bensì ecclesialmente. Si tratta di praticare un’apertura che tenga conto della tensione tra individuale e collettivo; un orizzonte cosmologico che intraveda nella questione ecologica la tensione alla trascendenza di tutta la creazione; di individuare la ritmica pneumatologica di un accadere che, pur nella sua indisponibilità attuale, lascia emergere il suo carico performativo di attesa operosa e compimento inedito.
Nelle Ultime conversazioni con P. Seewald, a proposito della sua morte, Benedetto XVI così rispondeva:
Bisogna prepararsi alla morte. Non nel senso di compiere certi atti, ma di vivere preparandosi a superare l’ultimo esame di fronte a Dio. Ad abbandonare questo mondo e trovarsi davanti a Lui e ai santi, agli amici e ai nemici. A, diciamo, accettare la finitezza di questa vita e mettersi in cammino per giungere al cospetto di Dio. (…) L’importante non è immaginarselo, ma vivere nella consapevolezza che tutta la vita tende a questo incontro[24].
L’esistenza terrena, la morte, la resurrezione di Gesù di Nazareth ci rivelano, dunque, che la relazione in, per e con Lui è un evento dello Spirito che permette all’Eterno di “abitare” il tempo. È il fine ed è ciò che resta alla fine di ogni cosa poiché tale Relazione è al Principio temporale della Creazione ed è presente da sempre nell’Archê anarchos che è il Dio Padre ricco di misericordia.
[1] «Dio se ne è andato, e farlo ritornare non dipende da noi. Io credo che ad essere morta per davvero, in Francia come nel resto del mondo occidentale, sia la fede nella vita eterna» (J.-R. Plaetsen, «Houellebecq à Finkielkraut: “Alain, je suis en net désaccord d’avec vous”», in Le Figaro-Magazine, 14 agosto 2015).
[2] Francesco, Omelia nella Solennità di Pentecoste, 31 maggio 2020.
[3] «Prima di tutto una profonda coscienza di ciò che il Dio d’Israele ha fatto in passato per il suo popolo. In secondo luogo, la constatazione che Israele non ha risposto in modo adeguato a quest’azione liberatrice del suo Dio e, di conseguenza, il castigo che l’ha colpito è stato abbondantemente meritato. In fondo si tratta della consapevolezza del peccato che a poco a poco investe la comunità tutta intera, specialmente dopo la caduta di Gerusalemme e l’esilio. Infine, la convinzione che il Dio d’Israele, come all’inizio e malgrado il peccato d’Israele, agirà anche in futuro, ma in forma definitiva, in favore del suo popolo» (J. M. Asurmendi, L’apocalittica, in «Storia, narrativa, apocalittica», Aa. Vv., Introduzione allo studio della Bibbia, 3/2, Paideia, Brescia 2003, 411). Nell’Antico Testamento sono presenti diverse rappresentazioni e modelli escatologici riconducibili da una parte, al Messia discendente di Davide e, dall’altra, all’apertura universalistica di Israele ad altri popoli.
[4] E. Käsemann, Die Anfänge christlicher Theologie, in Exegetische Versuche und Besinnungen, Bd. II, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1964, 100.
[5] J.B. Metz, La fede, nella storia e nella società, Queriniana, Brescia 19852, 170.
[6] Ivi, 171.
[7] K. Marx, «Zur Kritik der Hegelschen Rechtsphilosophie. Einleitung», in Werke, Band 1, K. Dietz Verlag, Berlin 1976, 378 [originale: Deutsch-farnzösische Jahrbücher, 1-2(1844) 71].
[8] J. Ebach, «Escatologia/Apocalisse», in I concetti fondamentali della teologia, 2 (E-L), P. Eicher (ed.), Queriniana, Brescia 2008, 75.
[9] K. Marx, Il capitale, Lib. I, La Nuova Italia, Firenze 1969, 651. La traduzione italiana è stata rivista a partire dall’espressione originale tedesca.
[10] K. Barth, Nachwort, in Schleiermacher-Auswahl, H. Bolli (ed.), Siebenstern Taschenbuch Verlag, München-Hamburg 1968, 294.
[11] S. Chung, Karl Barth. God’s Word in action, James Clarke and Co, Cambridge 2008, 111.
[12] K. Barth, Der Römerbrief (zweite Fassung), TVZ, Zürich 1922 (2010), 430.
[13] La Leggenda è riportata da R. Cantalamessa, Predicatelo sui tetti, Piemme, Casale Monferrato (Al) 1997, 154: «Rufus che era un capomastro se l’immaginava come una città con porte d’oro, tempestata di pietre preziose; Rufinus che era organista, come tutta risonante di celesti melodie. Alla fine fecero un patto: quello di loro che sarebbe morto per primo sarebbe tornato la notte successiva, per assicurare l’amico che le cose stavano proprio come le avevano immaginate. Sarebbe bastata una parola: se era come avevano pensato avrebbe detto semplicemente: taliter!, cioè proprio così; se (ma la cosa era impossibile) fosse stato diversamente avrebbe detto: aliter, diverso! Una sera, mentre era all’organo il cuore di Rufino si fermò. L’amico vegliò trepidante tutta la notte, ma niente; attese in veglie e digiuni per settimane e mesi e finalmente, nell’anniversario della morte, ecco che in un alone di luce entra nella sua cella l’amico. Vedendo che tace, è lui a chiedergli, sicuro della risposta affermativa: taliter? È così vero? Ma l’amico scuote il capo in segno negativo. Disperato, grida allora: aliter? È diverso? Di nuovo un segno negativo del capo. E finalmente dalle labbra chiuse dell’amico escono, come in un soffio, due parole: Totaliter aliter, è tutt’un’altra cosa!».
[14] Pensiamo, ad esempio, alla crisi climatica dell’attuale antropocene, alla crisi geopolitica e le sue ripercussioni sulle economie dei singoli nuclei familiari, alle crisi della fede particolarmente in Europa, alle crisi nel rapporto tra generazioni, alle crisi migratorie, ecc.
[15] Si tratta del XXXII Corso di aggiornamento per docenti di teologia organizzato dall’Associazione Teologica Italiana dal 27 al 29 dicembre 2022 a Roma dal titolo: «Questo tempo e il suo oltre: aggiornamento sull’escatologia». Si tratta di un tema già affrontato durante il 4° corso di aggiornamento (2-5 gennaio 1994). Gli Atti pubblicati l’anno seguente per i tipi del Messaggero di Padova (1995) furono curati da G. Canobbio e M. Fini. Negli ultimi anni, inoltre, durante vari congressi e corsi, l’ATI ha affrontato questioni analoghe o strettamente connesse all’escatologia: futuro del cosmo, corpo, anima, risurrezione, apocatastasi, ecc. A ciò si aggiunge l’iniziativa della Facoltà Teologica di Milano che ha pubblicato un pregevole volume che raccoglie gli atti di un convegno sull’escatologia: Delle cose ultime. La grazia del presente e il compimento del tempo (Glossa, Milano 2020, pp. 191) curato da Massimo Epis, con interventi tra gli altri di Carla Canullo (Il soggetto contemporaneo e l’esperienza del tempo); Sergio Ubbiali (Pensare la storia a partire dalla fine); Klaus Müller (Sottotesti escatologico-apocalittici nella antropologia politica contemporanea); Alberto Cozzi (Il linguaggio dogmatico delle figure della speranza).
[16] È interessante notare che per E. Lévinas la crisi che lo ha portato a parlare del “totalmente altro” in chiave antropologico-filosofica è legata all’ascesa del nazionalsocialismo in Germania e all’esperienza orribile dei campi di concentramento.
[17] Si tratta de: “Il sacerdozio ministeriale segno escatologico. Una riflessione a partire dalla teologia di J. Ratzinger ed E. Schillebeeckx” (G. Fazio) ed “Escatologia e prassi: un confronto tra Jürgen Moltmann e Leonardo Boff” (E. Spagnolo) all’interno degli ultimi due momenti del Corso ATI.
[18] G. Manin, «Intervista a Liliana Cavani», in Corriere della sera, 28 dicembre 2022, 36. A 90 anni la regista si dichiara atea nonostante il fascino esercitato su di lei da un monaco tibetano circa la possibilità che qualcosa di “sé” possa rimanere in altre forme, in altre vite. Ciò che comunque conta per lei sono «gli amori, le amicizie. Solo questi danno significato al breve spazio che si chiama vita (…) [L’amore per il cinema] è in cima ai miei amori, come l’amore per la cultura» (ib.).
[19] J. Derrida, Jean Marie Benoist: Hommages, Imprimerie Lancry Graphic, Paris 1993, 13.
[20] Idem, Mémoires – Pour Paul de Man, Galilée, Paris 1988, 49. Cfr. J. Derrida, Ogni volta unica, la fine del mondo, Jaca Book, Milano 2005, 89-94.
[21] Qualcuno allarga il significato dell’amicizia anche tra specie diverse del mondo animale.
[22] Cfr. Francesco, Esortaz. Ap. “Laudate Deum” a tutte le persone di buona volontà sulla crisi climatica, 4 ottobre 2023, nn. 20-33.
[23] Cfr. T. Pievani, Finitudine, Raffaello Cortina, Milano 2020.
[24] Benedetto XVI, Ultime conversazioni, P. Seewald (ed.), Garzanti, Milano 2016, 224-225.