Il dibattito in corso sulla comprensione cattolica del ministero ha avuto uno snodo iniziale che, seppure collaterale nell’economia del discorso, sfiora un punto molto rilevante. Hans Zollner nella sua intervista ha suggerito che il terreno di coltura degli abusi nella Chiesa consiste nell’attribuzione ad alcune persone di un «potere sacro»; Fulvio Ferrario, mettendo da parte la questione degli abusi, ha chiosato che questo è esattamente il perno della dottrina cattolica della Chiesa; Giuseppe Lorizio ha replicato che l’idea di potere sacro è in realtà quella che dev’essere abbandonata a favore del concetto di ministero sacramentale; e Fulvio Ferrario ha controbattuto di non avere nulla in contrario alla sostituzione dell’aggettivo «sacrale» con «sacramentale», ma che il problema dal punto di vista della teologia evangelica rimane intatto anche con questa nuova formulazione, che oltretutto mantiene la stessa radice lessicale.
Ma che cos’è il sacro? e qual è il rapporto del cristianesimo con esso? A costo di enormi e discutibili semplificazioni, vorrei tentare di mettere in luce il problema.
Il sacro
Se l’aggettivo «sacro» è comunissimo in tutta la storia del lessico cristiano, con un significato sfumato che indica una certa attinenza con Dio e con le strutture di vita della Chiesa, il carattere controverso nel dibattito contemporaneo è relativo al suo uso sostantivato, «il sacro», che è di uso recente e di origine non teologica, ma piuttosto filosofico-religiosa.
Il punto obbligato di riferimento è Rudolf Otto (teologo e filosofo della religione luterano), che, nella sua grande opera Il sacro, tenta di delineare il motivo più universale che sta alla base di tutte le esperienze religiose: quello che appunto si può chiamare «il sacro» e che designa il lato pre-razionale dell’esperienza religiosa, che coglie «qualcosa» come «assolutamente altro», soverchiante rispetto a qualsiasi potenza umana, contemporaneamente terrorizzante e attraente, arbitrario nella sua potenza e tuttavia intravisto come luogo di possibile beatitudine.
Ciò per Otto non significa affatto che l’esperienza religiosa sia in sé qualcosa di irrimediabilmente (o orgogliosamente) irrazionale: anzi, la sua purificazione ed elevazione consiste proprio in una razionalizzazione che, contemporaneamente, è moralizzazione. È così, per esempio, che il carattere di terrore e attraenza viene interpretato come punizione del male e amore del bene. Nella storia dell’ebraismo, e poi nel cristianesimo, «il sacro» diventa così un «Dio santo» (e culmina, infine, ciò che per un teologo cristiano va da sé, nell’incontro storico con Gesù Cristo).
Ciò che rischia di sfuggire a una lettura incompleta o impaziente è l’impianto filosofico in cui è posta questa interpretazione di fatti storico-religiosi: secondo Otto, tutto ciò è un completamento armonico della filosofia di Kant. Siamo qui, secondo lui, in presenza di una terza forma di ragione (oltre a quella teoretica e a quella pratica), ma esattamente come per la ragione teoretica si tratta di individuare quale sia la forma in cui gli esseri umani organizzano e interpretano i dati empirici. Il «sacro» è appunto questa «categoria a priori»: ciò significa che non è affatto una realtà al di fuori dell’essere umano, ma la necessaria configurazione umana in cui vengono recepite alcune esperienze.
Benché apparentemente astratta, questa considerazione non può essere scartata come un’inutile zavorra filosofica. Per un credente cristiano quale Otto la grande divisione è tra realtà creata e Dio: non vi sono vie di mezzo, non esiste una mistica nuvola impersonale che volteggia tra gli uomini e Dio. Vi sono allora solo due possibilità. O il «sacro» è un nom de plume di Dio: ma in questo modo Dio sarebbe ridotto alle esperienze religiose umane, mutevoli e spesso perfino immorali. Oppure, il «sacro» è una forma unitaria della sensibilità dell’uomo, quella che fa sì che esista l’esperienza religiosa, pur in tutte le sue enormi differenze e ambiguità, fino a giungere alla rivelazione cristiana. È un’idea problematica, ma che, variamente reinterpretata (e spesso posta sotto etichette diverse dal «sacro»: per esempio, «mistero» o «trascendenza») ha avuto notevole successo, sia in forme più raffinate sia in altre più popolari.
Le ragioni di Karl Barth
Ma è sicuro che il cristianesimo vada compreso sulla linea delle esperienze religiose dell’umanità?
È su questo punto che il grande teologo calvinista Karl Barth, con la teologia dialettica da lui iniziata, prenderà una strada opposta. Dio è l’«assolutamente altro»? Certo, dirà, ma questi è solo il Dio rivelato da e in Gesù Cristo, che entra nella storia umana non completando o raffinando una precedente esperienza religiosa, ma piuttosto smentendola, denunciandola come empia e idolatrica, pure quando essa è distillata nelle forme filosofiche di una «teologia razionale». Se per «sacro» si intende l’ambito di esperienza del religioso, questo è esattamente ciò da cui il cristianesimo radicalmente prende le distanze.
Oltre ai suoi meriti interni (so per esperienza che le appassionate e severe pagine di Barth sono in grado come poche altre di incantare pure millennials e zoomers), vi sono anche circostanze esterne che hanno favorito il successo dell’impostazione di Barth.
La prima è il fatto che essa giocò un ruolo importante nel rivendicare l’indipendenza dell’esperienza di fede rispetto alla politica, in anni in cui il nazionalsocialismo devastava l’Europa e le sue interpretazioni teologizzanti rischiavano di coprire d’infamia il cristianesimo: Gesù Cristo è l’unica parola di Dio!
La seconda (presagita da Dietrich Bonhoeffer e poi sviluppata dopo la guerra nei rivoli della teologia della secolarizzazione) è che essa liberava il discorso cristiano dalla necessità di avere un presupposto religioso, anzi invertiva tale esigenza: un mondo secolare sarebbe in fondo più vicino alla fede cristiana di un mondo «religioso».
Infine, altre voci molto ascoltate (Emmanuel Levinas e René Girard su tutte) hanno contribuito alla cattiva fama del «sacro», connettendolo all’autoaffermazione o alla violenza sociale.
Legame da affermare, legame da recidere
Ma come si colloca in conclusione il cristianesimo rispetto al sacro? quale delle due linee è quella giusta?
Nei mesi scorsi due brevi interventi hanno in Italia, in maniera molto interessante, toccato direttamente questo problema.
Il primo è stato una predica di Raniero Cantalamessa: essa partiva da un ampio omaggio alla concezione del sacro di Rudolf Otto, e alla sua capacità di interpretare anche le movenze del mondo contemporaneo, che in qualche modo non può far a meno del sacro… salvo concludere (quasi barthianamente) che il cristianesimo è esattamente la smentita di questa religiosità, perché in Cristo non si manifesta più un «mistero di maestà e potenza», ma piuttosto un’«infinita capacità di farsi da parte»; la riforma liturgica avrebbe proprio il merito di aver eliminato un senso del sacro non «giusto e genuino».
L’altro testo è stato un articolo di Enzo Bianchi che prendeva le mosse (barthianamente) dal «tema della liberazione del sacro che la nostra fede cristiana richiede», sulla linea non della Torah ma piuttosto della critica profetica al culto… salvo concludere nell’articolo successivo che certe «condizioni antropologiche» della liturgia, di carattere rituale, sono assolutamente necessarie: ma il lettore accorto osserva che, per Otto, il «sacro» è appunto un’ineliminabile condizione antropologica!
Chiedo scusa ai due autori, la cui competenza e intelligenza è nota, per aver sintetizzato i loro testi in maniera da farli apparire entrambi piuttosto contraddittori. Se lo ho fatto, è perché penso che questa latente contraddizione segni gran parte del discorso cristiano contemporaneo e debba essere oggetto di riflessione critica.
Il fatto è che c’è un ottimo motivo per legare il cristianesimo al sacro, magari in forme semplificate rispetto a quelle analizzate da Otto: è il modo per stabilire un’alleanza tra le religioni, per mettere a fuoco il sottofondo di umanità che esse condividono (o dovrebbero condividere), e anche per intercettare una qualche spiritualità vaga e diffusa che, se non trova ascolto nella Chiesa, sicuramente imboccherà la strada di un ashram del Nepal o di qualche post-moderno fai-da-te.
E c’è anche un ottimo motivo per recidere ogni legame con il sacro: è il modo per stabilire un’alleanza con il mondo occidentale contemporaneo, in cui l’abbandono vertiginoso della pratica del cristianesimo e della condivisione del suo universo di pensiero pare anzitutto significare la perdita irrimediabile di un certo presupposto antropologico, e in cui quindi libri come Jesus für Atheisten di Milan Machovec, all’epoca arditi esperimenti di confine, a distanza di cinquant’anni paiono quasi un devoto post-cresima.
Cosa fare della contraddizione
E così (se è lecito celiare un po’) l’autocomprensione del cristianesimo contemporaneo occidentale pare a volte somigliare, più che alla Lettera a Diogneto, a quella del Partito Comunista di Palombella rossa: «Noi siamo uguali agli altri, noi siamo come tutti gli altri, noi siamo diversi, noi siamo diversi, noi siamo uguali agli altri, ma siamo diversi, ma siamo uguali agli altri, ma siamo diversi!».
Gli ottimi motivi pro e contro si riflettono poi (lex orandi!) anche nel campo della celebrazione, che è quello che muove entrambi gli interventi che abbiamo citato: ottimo motivo per legare il cristianesimo al sacro è, per esempio, l’inculturazione della liturgia cristiana tramite l’introduzione di elementi religiosi di tradizioni «ancestrali», o l’immancabile ecumenica lode alla liturgia orientale (si rileggano le considerazioni al riguardo di Francesco nella sua prima conferenza stampa in alta quota); ottimo motivo per recidere ogni legame con il sacro è, come abbiamo visto, la riforma liturgica voluta dal Concilio Vaticano II (per avere questa idea allo stato praticamente puro, benché la parola «sacro» non sia esplicitamente usata, si rilegga l’influente e ardito articolo con cui Hans Küng nel 1963 vagheggiava la «messa del futuro»).
Che cosa fare di questa contraddizione sempre in agguato? Aver evidenziato un problema può essere un risultato soddisfacente per uno storico, o un osservatore; ma in ogni caso non significa, purtroppo, averlo risolto. Almeno una prima lezione, però, penso che la si possa trarre: il termine «sacro» non può essere mai usato dando per ovvio che esso significhi nel contesto del discorso cristiano qualcosa di fondante o, viceversa, esecrando. Dietro questa parolina occhieggia infatti (in un travaglio che è tutto interno alla civiltà occidentale!) la complessa questione della comprensione della fede cristiana in rapporto all’umanità e a qualsiasi umanesimo. Spiegare esattamente ogni volta che cosa si intende può essere un po’ tedioso, ma può costituire anche un contributo al chiarimento delle questioni e, se non alla fede cristiana, almeno appunto all’umanità.
http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/dal-sacro-al-santo-prolegomeni-per-una-rilettura-del-cristianesimo/
Grazie per il suggerimento dell’articolo di Leo De Simone, che rappresenta benissimo la posizione «sacro no». Mi permetto però di avanzare i miei dubbi sul modo in cui l’autore sintetizza (o interpreta) l’opera di Rudolf Otto: questi non pensava affatto che il sacro fosse «l’equilibrio del terrore», e in generale non ne aveva affatto un’opinione negativa. Lui stesso racconta come l’intuizione fondamentale del «sacro» fosse in lui sorta ascoltando il canto sinagogale in cui vengono ripetute le parole di Isaia 6: «Qadosh qadosh qadosh!». Tra l’altro, il termine tedesco «heilig» significa sia «sacro» che «santo», parole che per Otto sono sia etimologicamente sia essenzialmente connesse.
“la riforma liturgica avrebbe proprio il merito di aver eliminato un senso del sacro non – giusto e genuino”. Ragazzi qui si che si parla chiaro. Fortunatamente Paolo VI ha fatto fuori questo benedetto senso del sacro. Finalmente! Ora si che abbiamo capito Cristo. Non quei fessi che finora si credevano cristiani e non lo erano. Gente tipo Francesco d’Assisi, Giovanni Bosco, Teresa d’Avila, Ignazio di Lojola, Benedetto da Norcia e compagnia cantante. Tutti ignoranti
Per chi non crede in Dio (come ormai, consciamente o no, vari sacerdoti cattolici) il “sacro” e’ una categoria del pensiero umano. Fin dai tempi più antichi l’uomo di fronte alla realtà per esempio della morte ha elaborato le religioni e il senso del “sacro” per esorcizzare la paura ,elaborare il lutto e dare un senso alla vita. Gli antichi trovavano il sacro dappertutto, nelle fonti, nei fiumi, negli alberi, nella Luna, nel Sole… l’intera realtà era colma del sacro. Con il progredire delle conoscenze scientifiche il sacro è stato relegato solo nelle credenze individuali e personali. Per l’uomo che ha fede in Dio (non solo per i cristiani ma per gli ebrei, i musulmani, gli induisti ) il sacro è ancora il tessuto con cui è fatta la realtà. E tutte le religioni hanno le figure di guida e di “ponte” fra l’umano e il divino, siamo essi rabbini, imam, sacerdoti di Brahma, monaci eccetera). Il sacro e il sacerdote diventa un problema solo in una società come la nostra del tutto atea e materialista in cui le figure di riferimento sono diventati gli scienziati e gli esperti.
Alla sua analisi manca però un punto fondamentale: come si è arrivati alla descralizzazione – desacramentalizzazione del cosmo, che non è più visto come compenetrato dal Divino, ma separato da esso, e come questo ha poi portato alla società odierna. Ecco, forse certo pensiero teologico occidentale qualche colpa la ha, avendo introdotto la categoria del ‘soprannaturale’ come insieme di enti creati.
Forse a tutti coloro che dibattono intorno al sacro farebbe bene una lettura attenta di “Homo sacer” di Giorgio Agamben.