Nel quadro del dibattito su una teologia a-venire in corso su SettimanaNews, capace di raccogliere in un unico gesto dell’intelligenza cristiana il Vangelo di Gesù, i vissuti concreti nel nostro tempo e l’esigenza di una destinazione alle generazioni più giovani, è stato organizzato un piccolo seminario di studio sul tema «In forma di lettera», in collaborazione col Dipartimento di teologia cattolica dell’Europa-Universität di Flensburg (25 ottobre 2017). Alcune brevi relazioni (J. Deibl, G. Cova, A. Torresin, E. Antoniazzi) hanno offerto un terreno fecondo per una discussione tra i partecipanti, che ha permesso uno scavo ulteriore non solo delle forme teologiche adeguate a un’epoca di trasformazione, ma anche sulla sua destinazione al cristiano/alla cristiana che vive concretamente dentro una storia più ampia dei vissuti di fede. Come approfondimento del dibattito ci sembra opportuno offrire ai lettori e lettrici di SettimanaNews i testi di alcune delle relazioni della giornata di studio.
Un genere letterario già usato nella pastorale (risorse e limiti)
Una premessa. Se si pensa alla «lettera» come genere letterario nella pastorale si pensa subito alle «lettere pastorali» che, ormai come prassi, un vescovo scrive alla sua diocesi. Il genere letterario è relativamente nuovo. Nella mia esperienza non posso non riferirmi alle lettere di Martini, che hanno indubbiamente segnato il cammino della nostra Chiesa. In particolare le prime cinque lettere pastorali di Martini hanno provato a disegnare il volto di una Chiesa nel segno del Vaticano II: la dimensione contemplativa, il primato della Parola, la centralità dell’eucaristia, lo stile della missione e della carità.
Credo sia stato un modello unico e insuperato di magistero, nel discernimento del tempo di Chiesa e nell’indicazione di come il Vangelo possa essere annunciato nel vivo del cammino di un popolo. Se penso al tempo presente vedo con interesse l’esperienza di Erio Castellucci nella diocesi di Modena, che su famiglia e parrocchia ha scritto lettere che hanno un valore più ampio della sua stessa diocesi, pur mantenendo uno stile colloquiale con il suo popolo di Dio.
Con il passare degli anni, però, questo genere letterario ha subito anche una certa usura. Ogni anno ogni vescovo si sente di dover stendere un progetto pastorale in una lettera programmatica; di loro natura questi scritti tendono a diventare dei piccoli trattati su temi o aspetti della vita della Chiesa perdendo un poco il carattere dialogico con l’esistenza dei credenti e virando verso un pensiero che vuole essere completo che, dicendo tutto, rischia di restare astratto.
Ricordo invece di essere stato positivamente colpito dallo stile diverso di altre «lettere pastorali», quelle di Godfried Danneels, vescovo di Bruxelles; in particolare, ad esempio, il testo Dire addio, sul tema della perdita di persone care. In questo caso il tono aveva il carattere particolare, in presa diretta con un segmento della vita, a partire dal quale il pastore rileggeva l’intero dell’annuncio pasquale. Dal particolare al cuore del Vangelo, potremmo dire. Lo stile diventa più colloquiale, mantiene il profilo amicale di una vera lettera e meno quello di un trattato.
Le occasioni di un pastore
Io non amo scrivere e penso di non avere doti particolari nello scritto, preferisco la comunicazione orale, la parola che si riflette nel volto di un ascoltatore. Eppure nella mia esperienza di prete mi sono trovato a scrivere delle lettere. Certo, la forma «pura» della lettera – quella che forse più si va perdendo – è quella personale, indirizzata ad una singola persona. Ma ci sono lettere che cercano invece un interlocutore più ampio, che si indirizzano a più persone. La prima volta è stata nel corso del mio servizio alla pastorale giovanile.
Che cosa mi ha spinto scrivere? Diverse sono le ragioni. Anzitutto il bisogno di tenere un legame con una porzione del popolo di Dio che viveva una condizione di dispersione: la lettera voleva tenere insieme cammini che faticano a ritrovarsi. Dietro c’era il bisogno di offrire una storia condivisa. Ma c’è di più. Ero spinto dalla necessità di capire il momento che insieme si stava vivendo, di interpretare i passaggi e le crisi, le occasioni e il kairos del tempo che si stava attraversando come comunità cristiana.
Poi nel tempo ho avuto altre modalità si «scrivere alla mia gente». Due in particolare. La prima è stata quella legata agli auguri natalizi e pasquali. In quelle occasioni, davanti all’assemblea così particolare come quella di Natale o di Pasqua, percepivo che la parola andava resa più personale possibile, quasi a reagire al rischio dell’indistinto che spesso caratterizza quelle celebrazioni; una parola iscritta nel tempo che io e i miei interlocutori stavano vivendo, e che forse poteva anche diventare uno «scritto», una parola che potesse circolare, tra amici, tra sorelle e fratelli nella fede. È così iniziata una tradizione che sono le lettere di Natale e di Pasqua.
Ora ci sono amici che le aspettano, una sorta di comunità che si raccoglie nei tempi forti in ascolto di una parola di speranza. Quell’evento che si ripete, la memoria del mistero dell’incarnazione e della passione di Gesù, chiede di iscriversi nell’oggi, non può essere proclamato come se fosse un evento del passato. Questo mette in gioco il presente di chi scrive e di coloro ai quali si scrive. Ogni volta devo pensare al Natale e alla Pasqua che io vivo e che vive la gente della mia comunità, e proprio questo rende possibile una comunicazione vera e non impersonale e fuori dalla storia e dal tempo.
Ciò che è difficile – dire «oggi» il Vangelo – è anche ciò che rende vere le parole e non astratte. Quello che scrivo oggi non lo avrei scritto in un altro tempo, è nel tempo che si iscrive il Vangelo. Pensare alle persone, entrare in dialogo con il loro vissuto apre ad intuizioni, a pensieri che riascoltano in modo nuovo il Vangelo dell’incarnazione e della Pasqua di Gesù.
La seconda circostanza sono gli scritti legati ad un semplice e normalissimo bollettino parrocchiale. Anche in questo caso la ricerca è quella di uno stile colloquiale, in presa diretta con la vita quotidiana di una comunità, di uomini e donne che vivono la fede nella distretta della vita. Qui il rischio di scrivere fuori dal tempo è più insidioso, ma in realtà l’efficacia dello scritto risiede proprio dalla capacità di mettere in gioco il vissuto reale, di entrare in contatto con la storia che si sta vivendo.
Ci si potrebbe domandare se ha ancora un senso un bollettino parrocchiale in un tempo come il nostro di comunicazione globale, di rete ecc. Se ha un senso lo trovo proprio come se fosse una lettera. Chi scrive – in questo caso un pastore, ma più in generale una comunità, una parrocchia – lo fa parlando non in generale, ma ad una porzione di territorio precisa. Non pretende di diventare un «giornale» (che sia cittadino o altro) ma di restare un «bollettino» che tiene insieme un ristretto giro di amici, una comunità che altrimenti rischia di essere dispersa. Torna quindi questo desiderio iscritto nella lettera: radunare un popolo disperso, circoscrivere una storia comune nel tempo e nello spazio della vita quotidiana.
Ma più in generale, quali sono le caratteristiche di una lettera alla sua gente di un parroco che scrive? Ne provo a descrivere tre.
Un destinatario e una firma: un’intelligenza affettiva e relazionale
Ogni lettera inizia così: «Caro/a, carissimi…». E finisce con un saluto in calce al quale si mette il proprio nome. Un destinatario e una firma. Questi nomi e questi volti sono imprescindibili per capire lo scritto.
Si scrive sempre in prima persona e a delle persone precise, con un volto e una storia. In gioco ci sono dei vissuti, quello di chi scrive e quello di chi legge. È una sorta di dialogo nel quale è in campo un’intelligenza affettiva. Si scrive a persone che sono care, alle quali ci si sente legati da un affetto nel nome del Vangelo. Esattamente così e non altrimenti si comunica il Vangelo, come dice Paolo ai tessalonicesi (cf. 1Ts 2,8) che gli sono diventati cari, al punto di desiderare dare non solo il Vangelo ma la stessa vita: non si regala il Vangelo senza compromettere la vita, senza mettersi in gioco. La lettera, infatti, deve essere personale e non anonima, occorre firmare, metterci il mittente e il destinatario. Una lettera lascia trapelare qualcosa di chi sono io che scrivo, e chi sono coloro ai quali scrivo determinando lo scritto.
Non è sempre facile nei due sensi. Anzitutto chi scrive non dovrebbe nascondersi dietro il genere letterario della lettera. Invece la lettera ha affinità con quel genere letterario che è la confessione: nel senso di una con-fidenza, una fede che diviene comune. Non sempre questo significa parlare di sé, ma certo vuol dire mettere se stesso in quello che si scrive. Questa è la ragione per cui lo stile più consono con questo carattere affettivo del pensiero è quello narrativo. Non un trattato ma un racconto, perché raccontando chi scrive si espone e chi legge è invitato a prendere parte alla storia in un processo di immedesimazione.
Il legame tra lettera e intelligenza affettiva lo potremmo descrivere anche nel legame tra pensiero e biografia. Da una parte «il pensiero nasce da una storia», una biografia. Quello che scrivo, le categorie che utilizzo, lo stile, i termini, i pensieri che prendono forma, nascono da una storia, da incontri e scontri, letture e assimilazioni che si sono sedimentate nella mia storia.
Ma è anche vero che la storia di coloro ai quali scrivo è fonte di pensiero: la storia dà da pensare. L’incontro con le vicende personali e collettive – che sono l’interpellazione che spinge a scrivere – portano con sé domande, questioni, intuizioni, provocazioni che fanno pensare, che chiedono risposte (non esaustive certo ma interlocutorie) che aprono altre domande.
Ecco allora un altro tratto del genere letterario della lettera: un pensiero dialogico. Che significa un «significato», un «logos» che non si potrebbe riconoscere se non nella relazione con l’altro, se non in quell’ascolto e parola che circolano nei due sensi. In un dialogo occorre anzitutto trovare delle parole che si accordano, una lingua comune, e in questo terreno costruire un discorso nel quale l’interlocutore è accolto e porta ad un incremento di senso.
Se ascolto e nelle parole che scrivo cerco di ospitare l’amico a cui mi rivolgo, io stesso vengo da lui cambiato, affinato, arricchito. Si crea una lettura comune, lentamente, una lettura che porta le tracce di entrambi i protagonisti. Infatti una lettera non parla solo di chi scrive, ma lascia trapelare anche la storia e il carattere di coloro ai quali si rivolge.
Discernere il tempo che Dio ci affida
All’inizio (oppure in fondo) ad ogni lettera c’è anche un luogo e una data di composizione. La lettera è circoscritta nel tempo e nello spazio. Soprattutto nel tempo, credo; anzi la lettera è un modo di vivere il tempo (ma questo è l’ultimo spunto che vorrei mettere a fuoco).
Dicevo che in più occasioni la spinta a scrivere era ed è il bisogno di capire, e di interpretare il tempo che una comunità sta vivendo. Si parte da qui: da alcune circostanze che offrono lo spunto per uno scritto. Queste circostanze, spesso cariche di domande, punti critici che chiedono di essere interrogati, questioni irrisolte, portano con sé un desiderio ci capire, una domanda di discernimento.
Discernere il tempo che si vive: capire quale appello vi sia iscritto, quale opportunità, certo anche quale rischio, ma in questo anche quale Vangelo abiti il tempo che viviamo e le storie che noi siamo. Credo che la lettera come genere circostanziato esprima bene come il Vangelo sia sempre una buona notizia che si iscrive nel tempo che non avviene in astratto, me è scritta nelle parole e nelle circostanze della vita concreta. Qui va ascoltata e interpretata la Parola – la lettera che Dio stesso scrive agli uomini.
In questo lavoro di discernimento un ruolo importante – nel compito di un pastore – è quello della Parola di Dio, la lingua madre che innerva il dialogo tra credenti. La Parola va iscritta, riscritta, tradotta, incisa dentro la storia che chiede di essere interpretata, e in questo modo la verità della Parola riemerge, trova una eco proprio nelle vicende che la interpellano. Perché è nella natura della Parola quella di «farsi carne», di dover entrare nelle storie per non restare muta.
Dire Dio con la lingua dell’altro; dire Dio scoprendolo nuovo perché lo si racconta all’altro nella sua lingua, scrivendolo nella sua storia, riconoscendolo nelle sue vicende. Credo che il discernimento non sia meno di questo.
Non solo: discernere il tempo comune è quello che rende possibile ritrovarsi in una storia comune. Dono non da poco. In tempi come questi, fatti spesso di cammini in solitudine, di percorsi segnati da infinite dispersioni, cerchiamo tutti di tessere una storia comune e condivisa; per fare questo occorre offrire e trovare chiavi di lettura che creino connessioni, che tengano insieme le storie, offrano legami e interazioni.
Scrivere una lettera alla propria gente è offrire dei criteri di discernimento che ci facciano con-sentire, sentire insieme il tempo che viviamo e le segrete opportunità iscritte nelle circostanze della vita.
Una dimensione distesa del tempo
Dicevo, infine, del modo con cui una lettera vive il tempo in un modo particolare, oggi particolarmente prezioso.
Una lettera chiede tempo. Quando devo scrivere una lettera mi fermo, immagino l’interlocutore pur sapendo che egli è assente. Abito quest’assenza cercando di raggiungere coloro che non ci sono. Ci divide una distanza ma che non è un vuoto, che può diventare uno spazio dove le parole si sedimentano. Prendendo tempo posso misurare le parole, che non sono quindi parole immediate ma mediate dal tempo, sedimentate. Viviamo in una cultura nella quale il tempo sembra mancare e forse lo scrivere una lettera è un modo di riappropriarci del tempo, di prendersi appunto il tempo necessario.
È vero anche per il tempo nei confronti di chi la lettera la riceve. Essa attende nel tempo una risposta. Oggi siamo impazienti e insensibili a questa dimensione del tempo: se scriviamo un messaggio con WhatsApp vediamo subito se questo è stato inviato, letto, e ci aspettiamo una immediata risposta. È una sorta di tirannia del tempo abbreviato, della risposta immediata, dell’annullamento della distanza. La lettera invece simbolicamente vive nel percorso di questa distanza.
Essa va inviata, percorre uno spazio e poi vive una attesa. Ci sono lettere che ricevono risposte dopo lunghissimo tempo, che sembrano essersi perdute, e insieme risposte che arrivano inaspettate, e dopo percorsi inimmaginabili. Ma questo è il bello delle lettere scritte alla propria gente. Il più delle volte queste lettere non ricevono risposte immediate e dirette, ma entrano nel circolo di un dialogo che mantiene una distanza, ma che non è separazione, che piuttosto lascia maggiore libertà alla risposta, all’interlocutore. La risposta più vera poi non sarà che la fede che cresce nel cuore di ciascuno.
Per questo mi piace concludere con le parole di Paolo ai suoi amici di Corinto: «La mia lettera siete voi»: «La nostra lettera siete voi, lettera scritta nei nostri cuori, conosciuta e letta da tutti gli uomini. È noto infatti che voi siete una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma su tavole di cuori umani» (2Cor 3,2-3). Perché questo genere letterario non è lontano dalla Scrittura santa, una lettera di Dio al suo popolo e al fatto che il popolo di Dio è la verità della lettera, di uno scritto che si è «iscritto» nella vita degli ascoltatori.
Se nel ministero ci accade di scrivere una lettera alla nostra gente non è se non per entrare in questo dialogo di Dio con il suo popolo: la Parola fatta carne di Dio, il Vangelo che è Gesù, è la sua lettera all’uomo; e la vita dei credenti è la lettera che risponde, leggendo la quale possiamo vivere la grazia stupita di riconoscere le grandi opere che lo Spirito – la penna di Dio – scrive ancora nella vita degli uomini. A questo punto la nostra firma, su quella lettera dovrebbe essere leggera e quasi scomparire. In fondo prestiamo la firma ad altri, nel desiderio che Altri possa rivolgersi alla nostra «gente» – al «suo» popolo – e per questo non pretendiamo di avere una risposta: questa in fondo va indirizzata a Lui più che a noi. Chi scrive una lettera alla sua gente lascia che poi sia Dio a ricevere la risposta più vera.