In un’intervista rilasciata ieri a Vatican News, e che può essere letta e ascoltata integralmente qui, Pierangelo Sequeri, presentando il nuovo programma formativo dell’Istituto Giovanni Paolo II, chiarisce una serie di punti importanti, anche in vista di una adeguata risposta a quella “proposta di mediazione” che era stato sollevata, con buona dose di provocazione, da 4 professori uscenti dell’Istituto. Cerco di puntualizzare i momenti decisivi di questa risposta:
– Tradizione e innovazione si armonizzano non per giustapposizione, ma per integrazione. Questa integrazione viene assicurata in due modi: da un lato mediante una “teologia fondamentale della forma cristiana”, dall’altro mediante una più decisa apertura alle scienze umane.
– Da un lato, quindi, una “teologia della forma cristiana” provvede a leggere la famiglia, il matrimonio e la coppia secondo le dinamiche della fede e della sua attestazione, in relazione alla “giustizia degli affetti”. Senza invocare più, da parte di teologi intesi come giudici sovrani, forme integralistiche e fondamentalistiche di deduzione e di asserzione intorno alla realtà matrimoniale e familiare.
– D’altro canto, su un altro versante, non contraddittorio con il primo, vengono previsti una serie di approfondimenti sul piano ecclesiologico, nel confronto con la società civile, con il diritto comparato, con la pluralità di religioni. Il teologo deve integrare competenze di carattere civile, giuridico, economico, sociale, religioso, e per questo deve fare i conti con dati la cui elaborazione non può essere aggirata. Non si tratta di ridurre la teologia a sociologia, ma di sapere che i presupposti della teologia del matrimonio e della famiglia si radicano su un tessuto naturale e civile che sempre la tradizione ha riconosciuto e che da soli 100 anni pensiamo di poter ignorare.
– La fatica di un passaggio deve conseguire un risultato alto, per riconciliare la tradizione cristiana sul matrimonio e sulla famiglia con una condizione antropologica, sociale e culturale che non può essere risolta semplicemente “dall’alto”. Questo cambiamento di prospettiva, che è vistoso, è richiesto dall’oggetto di studio. Servire puramente il proprio oggetto è una delle caratteristiche della teologia veramente professionale, di cui ha bisogno la Chiesa.
Alla luce di questa sintesi, proposta con chiarezza dalle parola del preside Sequeri, e che potrà trovare nell’ascolto diretto della intervista il suo tenore originario, mi sembra di dover rimarcare alcuni punti-chiave:
a) Il metodo affermato dal Progetto formativo del nuovo Istituto non si limita ad “aggiungere” qualche nuova nozione all’impianto classico dell’insegnamento teologico presso l’Istituto, ma ne rielabora la struttura e gli orientamenti, sulla base di una duplice esigenza portante: da un lato una teologia fondamentale dichiaratamente non “neo-scolastica”; dall’altro una convocazione di altre discipline, a chiarimento della struttura tipica del matrimonio e della famiglia.
b) Tale metodo deriva dall’approfondimento voluto dal magistero mediante due sinodi e una esortazione apostolica, intorno ai quali si sono concentrate le migliori energie della Chiesa cattolica, con una elaborazione di pensiero e di prassi di grande rilievo, e che deve essere assunta anche a livello accademico. Proprio nel cuore di Roma avevamo una accademia teologica che pretendeva di ignorare i dati più significativi non solo della evoluzione magisteriale, ma dell’esperienza comune a milioni di uomini e di donne.
c) Tale sviluppo costituisce, nel suo cuore e nella sua direzione fondamentale, un atto di fedeltà alla grande tradizione ecclesiale di riflessione su matrimonio e famiglia, che da sempre sa che la correlazione tra cultura comune, cultura civile e cultura ecclesiale costituisce il “proprium” di questo sacramento e delle determinazioni che esso assume dal mondo ambiente. La pretesa di una teologia “autosufficiente” in materia matrimoniale è uno dei volti più tipici, e più fragili, di una Chiesa posta in crisi dal mondo tardo-moderno.
d) La esigenza di dare spazio ad una teologia fondamentale della forma cristiana e, nello stesso tempo, a uno sguardo molto più complesso e articolato sulla realtà naturale, civile, sociale, ecclesiale e giuridica del matrimonio implica la indicazione di nuovi corsi, ma anche di nuovi nomi di docenti: per citarne solo alcuni, Maurizio Chiodi in campo morale, Cesare Pagazzi in campo ecclesiologico, Vincenzo Rosito in campo filosofico e storico, Natalino Valentino in rapporto alla tradizione orientale, Pier Davide Guenzi, sulla teologia della generazione, e Andrea Ciucci sul rapporto tra famiglia e trasmissione della fede. Sono solo alcuni dei nomi nuovi, la cui esigenza sta proprio nella struttura complessa del sacramento del matrimonio e della cultura teologica che esso richiede venga onorata a livello accademico, senza schemi ideologici e prospettive di corto respiro.
e) Ciò, evidentemente, esclude una “soluzione pasticciata” come quella che era stata proposta nella lettera firmata dal prof. Granados e da altri 3 docenti: non si tratta, infatti, di fare qualche concessione “pastorale” ad un impianto teologico immutabile, ma di riconoscere con serenità i limiti di un impianto deduttivo e neoscolastico della teologia matrimoniale e correre ai ripari di esso, con una nuova impostazione e un nuovo metodo.
f) L’uscita da un modello ottocentesco e antimodernista di sapere ecclesiale sul matrimonio, e la riscoperta di un più antico equilibrio tra fattori costitutivi della esperienza cristiana della coppia, del matrimonio e della famiglia consente all’Istituto di poter dire finalmente una parola pienamente autorevole all’interno della teologia cattolica e in dialogo franco e leale con la cultura contemporanea. Uscire dal ghetto integralista e parlare di matrimonio e famiglia a 360 gradi non è una piccola ambizione. Essa era dovuta. Il nuovo Piano offre una vera prospettiva di sviluppo, secondo l’avanzamento magisteriale assunto ormai da anni, e cui la teologia non può offrire il proprio servizio soltanto nel registro nostalgico di un modello precedente, di cui si pretenderebbe affermare apoditticamente un’inossidabile attualità. Le fatiche del passaggio, che non devono essere nascoste, non debbono però oscurare la bontà della risoluzione, perché la tradizione ecclesiale su matrimonio e famiglia sappia essere un giardino da far fiorire e non un museo da conservare.
Pubblicato il 12 settembre 2019 nel blog: Come se non.
Ritengo che il superamento dello schema neoscolastico dell’approccio fondamentale alla riflessione dell’esperienza credente, così come si attua nelle forme del matrimonio, coincide con l’onorare il compito imposto dal lavoro delle generazioni. Bene la maggior attenzione al contributo offerto dalle scienze umane e la necessità di comprendere più criticamente il fenomeno epocale. Molto bene l’audacia Sequeriana di selezionare i candidati più indicati per il compito. Avessero lo stesso coraggio le nostre parrocchie
Insomma chi crede nella fedeltà al coniuge e nella indissolubilità del matrimonio è fesso.
Se fossi un fidanzato oggi come oggi, non capendo assolutamente nulla di quanto sta accadendo, mi limiterei al matrimonio civile o ad una semplice unione.
Così non avrò nemmeno il problema della comunione quando (o se, perché hai visto mai che vada bene) mi separerò.
Sposarsi in Chiesa a queste condizioni è senza senso…