Sinodalità e partecipazione

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È uscito di recente per i tipi di Città Nuova il volume Sinodalità e partecipazione, curato da Vincenzo Di Pilato, che raccoglie gli interventi a un seminario di studi organizzato lo scorso 24 giugno dal Centro «Evangelii Gaudium» (CEG), espressione dell’Istituto Universitario «Sophia» (cf. qui su SettimanaNews). I partecipanti, oltre una trentina di studiosi, in particolare teologi e canonisti, hanno cercato di realizzare in quella sede quanto auspicato dall’Instrumentum laboris, che invita a «intervenire sul diritto canonico, riequilibrando il rapporto tra il principio di autorità, fortemente affermato nella normativa vigente, e il principio di partecipazione; rafforzando l’orientamento sinodale degli istituti già esistenti; creando nuovi istituti, ove ciò appaia necessario per le esigenze della vita della comunità; vigilando sull’effettiva applicazione della normativa» (B 3.3.e). Il volume raccoglie i contributi maggiori che hanno istruito i lavori del seminario: quelli del card. Mario Grech (Segretario generale del Sinodo), Severino Dianich, Alphonse Borras, il card. Francesco Coccopalmerio e Piero Coda. Riprendiamo di seguito la prefazione al volume firmata dal curatore, Vincenzo Di Pilato, coordinatore scientifico del CEG.

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Tre giorni prima della chiusura della Prima Sessione del Concilio Vaticano II, gli interventi in Aula cominciarono ad assumere il tono di suggerimenti alle Commissioni istituite per la redazione dei nuovi schemi. Ignaro del futuro che lo attendeva come successore di papa Roncalli, anche il cardinale Giovan Battista Montini prese la parola il 5 dicembre 1962. In agenda restava la discussione sullo schema De Ecclesia. Egli suggerì di ripartire da due domande: «Quid est? Quid agit?».

«Cos’è la Chiesa? Cosa fa la Chiesa? Sono come due cardini attorno ai quali ruota ogni questione riguardante questo Concilio a cui sottoporre questo tema: il mistero e il compito della Chiesa (mysterium et munus Ecclesiae)! (…) Essa è il prolungamento di Gesù Cristo dal quale scaturisce la sua stessa vita ed è il fine verso cui questa vita tende. Sono del parere che l’immagine, il pensiero e lo spirito di Cristo dovrebbero essere espressi in modo più appropriato da questo schema. Pur essendo presenti in esso gli elementi principali del diritto ecclesiastico, non sono però spiegate a sufficienza le verità che si riferiscono in maniera più chiara al “mistero della Chiesa”, alla sua vita mistica e morale, di cui è fatta la vita della Chiesa, veramente e propriamente detta.  (…) La Chiesa non è solo una società o comunità fondata da Cristo Signore, ma è uno strumento in cui Egli stesso misteriosamente si fa presente per garantire la salvezza del genere umano»[1].

Le sue parole appaiono particolarmente ispirate se si leggono le prime righe della Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium: «Sacramentum seu signum et instrumentum intimae cum Deo unionis totiusque generis humani unitatis». Riprendendo tuttavia l’enciclica di Pio XII Mystici Corporis, il Concilio cercherà di mantenere entrambe le dimensioni costitutive della Chiesa (giuridica e misterica) mediante l’analogia con il Verbo incarnato[2]. Per questo motivo, la Chiesa è presentata come una «complexa realitas» (umano-divina), in cui convivono la «communitas fidei, spei et caritatis» e la «compago visibilis», la «societas organis hierarchicis instructa» e il «mysticum Corpus Christi», il «coetus adspectabilis» e la «communitas spiritualis», «Ecclesia terrestris et coelestis» (Lumen gentium 8).

Se da una parte, il Vaticano II ha mirabilmente ritrovato la dimensione «misterica» della Chiesa ricentrandola su Cristo in chiave trinitaria[3], recuperando in questo modo l’azione dello Spirito Santo nel progresso dei dogmi e nella vita morale dei fedeli[4]; dall’altra, il reiterato impiego di termini come societas, coetus ecc. ha portato forse inconsapevolmente ad appesantirla di un retaggio storico-teologico da cui il Concilio aveva tentato di emanciparsi e che ha manifestato i suoi grossi limiti proprio nell’«aggiornamento» del Codice di diritto canonico[5].

Secondo molti teologi e canonisti, la penetrazione di un modo di pensare giuridico nelle concezioni ecclesiologiche presenti nei trattati De Ecclesia va fatto risalire alla riforma gregoriana (seconda metà del sec. XI). Questa opzione spinse sempre più la Chiesa ad autocomprendersi nel mondo come una «società» tra le altre, ordinata dal carisma gerarchico giuridicamente assicurato ed esercitato. In questo quadro consolidato nella modernità, allo Spirito Santo venne di fatto riconosciuto il ruolo di garante dell’infallibilità della Chiesa che nel secondo Millennio è venuto gradualmente a concentrarsi nel magistero gerarchico.

Separazione tra teologia e spiritualità

Recensendo l’opera di uno storico della Chiesa, già nel 1823 J.A. Möhler reagiva a una siffatta impostazione dettata anche dalle pressioni degli Stati liberali sulle strutture della Chiesa in Europa. Il rischio che egli ravvisava per i cristiani, in particolare di Germania, era quello di fondare la fede e l’appartenenza alla Chiesa su:

«una concezione semireligiosa della storia cristiana che può essere paragonata a quella visione naturalistica che permette all’uomo di abdicare alle sue facoltà spirituali a favore della divinità, non coinvolgendolo però nel suo ulteriore sviluppo. L’Autore del libro [J.T. Katerkamp] pensa allo stesso modo: Dio ha creato la gerarchia e così ha provveduto più che sufficientemente alle necessità della Chiesa sino alla fine del mondo. Secondo la visione più alta, genuinamente cristiana, che appare in special modo nel cattolicesimo, è invece sempre lo Spirito di Dio il principio eminentemente presente nella chiesa, che la guida verso il suo fine; tutto il resto è di questo Spirito un organo, un mezzo ecc.»[6].

Il primato dell’azione dello Spirito di Cristo, che avrebbe dovuto animare sia l’antropologia cristiana sia la Tradizione «viva», venne col tempo a indebolirsi sotto la spinta delle controversie antiprotestanti dei secoli XVI e XVII. È il tempo in cui teologia e spiritualità si allontanano l’una dall’altra, nonostante le premesse spirituali della vita cristiana continuino a essere richiamate in opere parenetiche e devozionistiche composte da illustri teologi. Il problema restava lo scarso influsso di queste «spiritualità» sulla struttura epistemologica di quel processo vitale che è la Tradizione e sull’elaborazione e interpretazione delle leggi canoniche.

Sudditi o fratelli?

La definizione che Roberto Bellarmino aveva offerto della Chiesa come «un insieme visibile e tangibile di uomini, esattamente come lo è l’insieme del popolo romano, il Regno di Francia o la Repubblica di Venezia»[7] risultò più confacente di altre per disegnare leggi secondo il nuovo pensiero giuridico.

Di contro, restava alquanto in ombra il rapporto di uguaglianza e partecipazione tra i membri della Chiesa. Secondo la prospettiva genuinamente evangelica, si tratta forse del rapporto che vi è tra un monarca e i suoi sudditi in cui l’esercizio del potere è diretto e non democratico? Oppure il popolo di Dio (pastori e fedeli tutti) è composto di soggetti liberi che partecipano attivamente al conseguimento del fine principale della chiesa che è l’opera di evangelizzazione?

Il Codice di diritto canonico del 1983 sembra non considerare sufficientemente quanto il Vaticano II ha offerto in termini di ridefinizione della relazione della Chiesa con il mondo contemporaneo, ritornando di fatto al modello societario del diritto ottocentesco. Le relazioni ad extra che interessano la stragrande maggioranza del popolo di Dio (si pensi ai fedeli laici, donne e uomini, impegnati nel saeculum) non sono affatto così marginali nel delineare l’identità della Chiesa.

La missione, infatti, riguarda tutti[8]. Per indicare il cammino di comunione e missione che tutti i membri della Chiesa sono chiamati a fare nella diversità di ministeri e di carismi, all’usurato lemma societas, il magistero attuale preferisce quello di radice biblica: «popolo di Dio». La sfida più grande che gli studiosi di diritto canonico hanno dovuto affrontare nella stesura del Codice del 1983, quasi vent’anni dopo il Vaticano II, è stata proprio quella di regolamentare in termini giuridici la realtà che definisce la Chiesa visibile. Lumen gentium 9, ad esempio, parla della pari dignità e della libertà dei figli di Dio che contrasta enormemente con il termine «sudditi» presente nel Codice.

Il «sensus Ecclesiae»

Quale mentalità, dunque, quale pensiero esprime al meglio la visione di Chiesa che lo Spirito vuole realizzare oggi? Chi può conoscere il pensiero dello Spirito a riguardo?

Paolo ricorda che solo «colui che scruta i cuori conosce i pensieri dello Spirito (phronēma tou Pneumatos)» (Rm 8,27). È Dio stesso che rivelandosi crea nell’uomo e nella donna un nuovo «modo di pensare e di agire» (phronēma)[9]. E questo riguarda tutti coloro che si mettono in ascolto dello Spirito Santo insieme a tutta la Chiesa. Non si tratta, quindi, di ricercare un principio formale regolatore, una legge codificata che cristallizzi un «pensiero» dato una volta per tutte.

Papa Francesco all’inizio dell’esortazione Amoris laetitia si è premunito di «ribadire che non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero. Naturalmente, nella Chiesa è necessaria una unità di dottrina e di prassi, ma ciò non impedisce che esistano diversi modi di interpretare alcuni aspetti della dottrina o alcune conseguenze che da essa derivano» (n. 3).

Nel campo della vita di fede vi saranno sempre ampi spazi su cui il magistero non ha ancora formalmente espresso un giudizio. È inconcepibile però pensare che l’insegnamento suggerito dallo Spirito venga a mancare nella vita ordinaria dei credenti. «Quanto a voi, – rassicura, infatti, l’apostolo Giovanni – l’unzione che avete ricevuto da lui rimane in voi e non avete bisogno che qualcuno vi istruisca. Ma, come la sua unzione vi insegna ogni cosa ed è veritiera e non mentisce, così voi rimanete in lui come essa vi ha istruito» (1Gv 2,27). Secondo Congar, «in maniera virtuale o latente»[10], questo insegnamento è presente in quello che Eusebio di Cesarea ha chiamato «phronēma ekklēsiastikón»[11] e Vincenzo da Lerino «sensus ecclesiasticus et catholicus»[12].

I teologi del XIX secolo hanno ripreso con grande ispirazione questi concetti. Tra questi ricordiamo Passaglia, Franzelin, Scheeben, Newman, Möhler e la Scuola di Tubinga. Quest’ultimo parla piuttosto di «coscienza ecclesiale», di «senso cristiano esistente nella Chiesa» che viene conferito a condizione di sentirsi «parte» del «tutto» che è Cristo-Chiesa:

«La Chiesa è il Corpo del Signore. Nella sua totalità, essa è la Sua forma visibile, la Sua umanità che si prolunga e sempre si rinnova, la Sua eterna rivelazione. Dai tempi degli Apostoli, Egli [il Signore Risorto] riposa interamente nel tutto, ogni Sua promessa, ogni Suo dono sono stati deposti nel tutto (…). La comprensione che tutti insieme raggiungiamo della Parola di Dio, questa coscienza ecclesiale è la tradizione nel senso soggettivo della parola»[13].

Coniando un’espressione all’altezza del Vaticano II, Möhler dirà che «la Tradizione è la Parola perennemente viva nel cuore dei credenti»[14]. È chiaro che non si tratta di un fatto di memoria, ma di fedeltà allo Spirito, ovvero di cercare di ritenere – sull’esempio di Maria di Nazareth – in ogni avvenimento un frammento utile alla composizione intelligente di un disegno superiore che dia senso a ciò che ci accade (cf. Lc 2,19).

Il «senso della Chiesa» è, dunque, una qualità spiccatamente «mariana» e interessa la coscienza di ogni credente (vescovi e fedeli) quando si applica sul Testo sacro con «mente aperta» dal Cristo presente nella/come Chiesa. «Aprì la mente ai discepoli affinché comprendessero le Scritture» (Lc 24,45) – leggiamo nel famoso episodio dei discepoli di Emmaus[15]. Cos’è quindi la Tradizione?

«Essa – risponde Möhler – è il peculiare senso cristiano esistente nella Chiesa e trasmesso attraverso l’insegnamento della Chiesa, che non va mai però pensato senza il suo contenuto, cosicché questo senso si è piuttosto formato nel e attraverso il suo contenuto, così da potersi più pienamente definire. (…) A questo senso, inteso come senso condiviso da tutti, è affidata l’interpretazione della Sacra Scrittura. La spiegazione data sull’argomento controverso rappresenta il giudizio della chiesa che è quindi giudice in materia di fede»[16].

La chiesa diventa così capace di «giudizio in materia di fede» solo quando i fedeli riuniti «nel nome di Cristo» (cf. Mt 18,20) mostrano di esercitare questo «peculiare senso cristiano esistente nella Chiesa».

«Il Concilio Vaticano II – ha scritto a proposito papa Francesco – ha segnato un importante passo nella presa di coscienza che la Chiesa ha sia di se stessa sia della sua missione nel mondo contemporaneo. Questo cammino, iniziato più di cinquant’anni fa, continua a spronarci nella sua ricezione e sviluppo, e non è ancora giunto a termine, soprattutto rispetto alla sinodalità che si deve operare ai diversi livelli della vita ecclesiale (parrocchia, diocesi, nell’ordine nazionale, nella Chiesa universale, come pure nelle diverse congregazioni e comunità). Tale processo, specialmente in questi tempi di forte tendenza alla frammentazione e alla polarizzazione, esige di sviluppare e vegliare affinché il Sensus Ecclesiae viva anche in ogni decisione che prendiamo e nutra tutti i livelli»[17].

Solo questo modo di «vivere, di sentire e di soffrire con la Chiesa e nella Chiesa», renderà possibile affrontare le lacune del Codice attuale come, ad esempio, la codificazione di adeguati strumenti per la collegialità episcopale e per l’esercizio della sinodalità a tutti i livelli. Ciò esige una inter- e transdisciplinarità tra teologia e diritto che il Proemio di Veritatis gaudium indica come metodo da seguire.

Teologia e diritto si incontrano al Centro «Evangelii gaudium»

Alcuni canonisti sono del parere che il Codice di diritto canonico del 1983 – che per definizione è unico e universale – rappresenti un lavoro non ancora concluso. «La scienza canonistica non era pronta» – sostiene C. Fantappié – ad assumere il cambio di paradigma che il Vaticano II aveva impresso al pensiero teologico legittimando il pluralismo dei modelli, dei metodi e delle teologie. Rispetto al Codice del 1917 sono stati introdotti nuovi libri e nuove parti, ma l’impianto non esprime appieno il nuovo assetto pastorale che il Concilio ha indicato alla Chiesa universale.

«Nel Codice del 1983 ci sono delle parti vecchie dalle quali il rinnovamento del Concilio non emerge. Ma è un sintomo, non il problema vero, che è la separazione fra il diritto e la teologia (…). Occorre un sistema in cui le diverse discipline (teologia, morale, diritto, ecc.) si muovano in maniera collaborativa e convergente. È una sfida ardua, ma da essa dipende la formazione delle persone che nella Chiesa assumeranno il servizio del governo e del magistero. Dobbiamo allestire materiali e soprattutto preparare persone con competenze differenziate, che sappiano collaborare in maniera unitaria alla soluzione dei medesimi problemi (e già mettersi d’accordo su quali essi siano sarebbe una bella questione…). Dobbiamo annullare la frammentazione e l’isolamento dei vari saperi specialistici e rimettere in asse teologia e vita»[18].

È quanto si è tentato di fare il 24 giugno di quest’anno con un Seminario di ricerca promosso dal Centro di Alti Studi Evangelii Gaudium (CEG), espressione dell’Istituto Universitario «Sophia». Oltre una trentina di studiosi, in particolare teologi e canonisti, hanno cercato di realizzare quanto auspicato da Fantappié e dallo stesso cammino sinodale. Nell’Instrumentum laboris, vi è infatti l’invito rivolto a tutta la Chiesa a «intervenire anche sul diritto canonico, riequilibrando il rapporto tra il principio di autorità, fortemente affermato nella normativa vigente, e il principio di partecipazione; rafforzando l’orientamento sinodale degli istituti già esistenti; creando nuovi istituti, ove ciò appaia necessario per le esigenze della vita della comunità; vigilando sull’effettiva applicazione della normativa» (B 3.3.e).

Come rendere effettiva questa partecipazione attiva all’interno delle assemblee sinodali? Resterà solo consultiva? O sarà anche deliberativa? Si tratterà di una «concessione» giuridica o di «riconoscere» la capacità decisionale del soggetto collettivo dell’agire ecclesiale così come emerge dall’ecclesiologia del Vaticano II?

In queste pagine, sono raccolti gli interventi offerti da illustri personalità del mondo ecclesiastico e teologico che hanno accettato di confrontarsi su questi temi, a cui va la nostra sincera gratitudine. Particolarmente avvertita è stata la sollecitudine con cui il card. Mario Grech, Segretario generale del Sinodo, ha parlato del cammino sinodale come di un evento dello Spirito, non occasionale, bensì dinamica generativa di un modo di essere Chiesa oggi. Esiste, infatti, una «continuità» tra le varie tappe scandite in questi anni da papa Francesco e dalle Chiese locali, che favorisce il riconoscimento di quella «qualità mariana» della coscienza credente che rende la Chiesa sì «madre e maestra», ma anche «discepola in ascolto» (cf. Lc 1,38). Laddove vi è autentico ascolto di Dio sia nell’interiorità sia nella reciprocità inclusiva dei suoi membri, si sperimenta quella particolare metodologia della «conversazione nello Spirito», cui sono chiamati a esercitarsi i pastori e tutti i fedeli, in quanto membra vive dell’intero Corpo di Cristo.

Gli interventi che hanno scandito i lavori del Seminario, nella prospettiva della teologia, del diritto canonico e della prassi pastorale, hanno cercato di tenere conto delle ricadute e delle potenzialità del cammino sinodale per la vita quotidiana della comunità ecclesiale. Se nella relazione «I problemi della sinodalità tra ecclesiologia e diritto canonico» del prof. Severino Dianich è risultato decisivo riscoprire esistenzialmente l’essere corpo del popolo di Dio, recuperando l’ecclesiologia paolina e valorizzando la co-essenzialità dinamica dei doni gerarchici e carismatici; per il prof. Alphonse Borras, questo punto di svolta nella sua relazione – «La sinodalità come elaborazione congiunta delle decisioni: la prospettiva del diritto canonico» – necessita di una esplicitazione canonica, che delinei una prassi procedurale flessibile, capace di accompagnare i processi decisionali e di partecipazione attraverso i vari organismi già previsti dal Codice (consiglio episcopale, consiglio presbiterale, consiglio pastorale diocesano, consiglio pastorale parrocchiale…).

Su questa linea, il card. Francesco Coccopalmerio, presidente emerito del Pontificio consiglio per i testi legislativi, nel suo intervento «Sinodalità ecclesiale: è ipotizzabile un rapido passaggio dal consultivo al deliberativo?», ha posto all’attenzione due passaggi decisivi della Lumen Gentium e del Codice di Diritto Canonico, rispettivamente il n. 37 e il canone 212, in cui è possibile rinvenire una definizione di sinodalità, quale comunione di pastori e fedeli nel compiere l’attività di riconoscimento condiviso del bene della Chiesa e nella capacità di prendere una decisione in ordine al bene individuato e di attuarlo.

Se il Sinodo non è «un Concilio, non è un Congresso, non è un Parlamento»[19], l’obiettivo non consisterà primariamente nel raggiungimento di un accordo politico di maggioranza, quanto lasciar invece esprimere nel popolo di Dio il sensus fidei e il sensus Ecclesiae in fedeltà dinamica al Vangelo e in comunione apostolica con il Papa e i vescovi.

In ultima analisi, il dialogo attuato in questo Seminario di ricerca tra teologia e diritto è stato al servizio di quel processo di inculturazione della fede senza il quale la Chiesa corre il reale rischio di continuare ad alimentare la dissociazione tra i principi generali enunciati e la prassi dei suoi fedeli. Solo così la Chiesa del Vaticano II potrà affrontare con speranza e profezia le istanze della contemporaneità e la sua complessità (si pensi solo alla profonda crisi in corso nei Paesi di tradizione democratica). Le tematiche e soprattutto le proposte avanzate in queste pagine vogliono semplicemente essere un ulteriore contributo al discernimento che si attuerà nel prossimo Sinodo sulla sinodalità.


[1] Cf. Acta Synodalia Sacrosancti Concilii cecumenici Vaticani Secundi, vol. 1, pars IV, Typis Poliglottis Vaticanis, Città del Vaticano 1971, 292.

[2] Fu Leone XIII a ricorrervi alla fine dell’Ottocento. Cf. Leone XIII, Enc. sulla unità della chiesa “Satis cognitum”, 29 giugno 1896, in Acta Sanctae Sedis 28(1895-96) 713: «Il Figlio di Dio volle che la Chiesa fosse il suo mistico corpo, a cui egli come Capo si sarebbe unito a somiglianza del corpo umano che assunse (Illud accedit, quod Ecclesiam Filius Dei mysticum corpus suum decrevit fore, quocum ipse velut caput coniungeretur, ad similitudinem corporis humani quod suscepit)».

[3] Cf. Concilio Vaticano II, Decreto sulla formazione sacerdotale Optatam totius, 16.

[4] Secondo Paolo VI, la vivificante effusione dello Spirito Santo si estende in due campi distinti: «Il primo campo è l’interiorità della nostra vita: il nostro essere spirituale. La nostra persona, che è il nostro io: in questa cella profonda e a noi stessi misteriosa della nostra esistenza, entra il soffio dello Spirito Santo; si diffonde nell’anima con quel primo e sommo carisma, che chiamiamo grazia, (…) [Il secondo è] negli Apostoli e nella comunità dei seguaci del Signore Gesù, cioè nel corpo visibile della Chiesa, che lo Spirito Santo converte in Corpo mistico di Cristo» (Paolo VI, Omelia nella Celebrazione della Pentecoste, 25 maggio 1969).

[5] Giovanni XXIII istituì il 28 marzo 1963, una Commissione Pontificia per la revisione del Codice di Diritto Canonico che avrebbe dovuto operare in collaborazione con le Commissioni conciliari e la Segreteria generale del Concilio. Il nuovo Codice avrebbe dovuto quindi essere espressione delle decisioni prese in Concilio. Lo ribadì Paolo VI quando affermò che il diritto «non è un impedimento ma un aiuto pastorale; non uccide, ma vivifica. Il suo compito specifico non è di reprimere o di limitare ma di stimolare, promuovere, proteggere e difendere lo spazio della vera libertà» (Paolo VI, Allocuzione nel centenario della costituzione della Facoltà di Diritto Canonico della Pont. Univ. Gregoriana, 19 febbraio 1977). Il Codice di diritto canonico fu promulgato da papa Giovanni Paolo II il 25 gennaio 1983 ed entrò in vigore il 27 novembre dello stesso anno.

[6] J.A. Möhler, Rezension: „J.T. Katerkamp, Des ersten Zeitalters der Kirchengeschichte erste Abtheilung: die Zeit der Verfolgungen (Theissingschen Buchhandlung, Münster 1823)“, in «Theologische Quartalschrift», vol. 5, heft 3 (1823) 496-497. Anche il Concilio evidenzierà la similitudine tra la natura umana assunta dal Verbo intesa come “organo” dello Spirito e l’“organismo sociale” della Chiesa, corpo mistico di Cristo. «Come la natura assunta serve al Verbo divino da vivo organo (vivum organum) di salvezza, a lui indissolubilmente unito, così in modo non dissimile l’organismo sociale (socialis compago) della Chiesa serve allo Spirito di Cristo che la vivifica, per la crescita del corpo (cf. Ef 4,16)» (Lumen gentium 8).

[7] Robertus Bellarminus, Disputationes de Controversiis Christianae Fidei adversus hujus temporis haereticos, Tomus II, Lib. III: De Ecclesia militante, caput II: De definitione Ecclesiae, Tip. W. Wickhart, Praga 1721, 65.

[8] Il magistero pontificio postconciliare lo ripete insistentemente: dall’Evangelii nuntiandi di Paolo VI sino all’Evangelii gaudium di papa Francesco.

[9] È l’invito rivolto dall’Apostolo anche ai cristiani presenti nella città di Filippi, ai quali propone di provare gli stessi “sentimenti” di Gesù (cf. Fil 2,5) secondo la logica della kenosi.

[10] Y.J.-M. Congar, La tradizione e le tradizioni, 293.

[11] «Dopo che il pensiero ecclesiale è stato enunciato da così tanti anni, come è possibile che quanti precedettero Vittore [vescovo di Roma] abbiano predicato come costoro dicono? (πώς ούν έκ τοσούτων έτών καταγγελλομένου του έκκλησιαστικου φρονήματος, ένδέχεται τούς μέχρι Βίκτορος ούτως ώς ούτοι λέγονσιν κεκηρυχέναι)» (Eusebio di Cesarea, Historia ecclesiastica, Lib. V, cap. 28: PG 20, 513-514). Eusebio riporta qui le parole di un autore cristiano anonimo che confuta l’eresia adozionista del romano Artemone («il Salvatore è un semplice uomo») svelandone l’infondatezza scritturistica e apostolica. Ciò è contrario al “pensiero ecclesiale” (εκκλησιαστικον φρόνημα). Congar lo identifica con Ippolito di Roma, sebbene questa ipotesi oggi sia stata scartata grazie al contributo di Pierre Naudin, Le dossier d’Hippolyte et de Méliton dans les florilèges dogmatiques et chez les historiens modernes, Éditions du Cerf, Paris 1953, 115-120. Cf. E. Prinzivalli, «Artemone», in Nuovo Dizionario patristico e di antichità cristiane (A-E), A. Di Bernardino (ed.), Marietti, Genova-Milano 2006 (2a ed.), 568.

[12] «Forse qualcuno chiederà: poiché il canone delle Scritture è perfetto e sufficiente per tutte le cose, che bisogno c’è che vi si unisca l’autorità dell’intelligenza ecclesiale (ecclesiastica intelligentia)? Perché evidentemente le sacre Scritture non sono accettate da tutti in un unico e medesimo senso per la loro stessa altezza, ma le stesse parole sono interpretate in modi diversi e diversi gli uni dagli altri; così che quasi quante sono le persone, sembra che si possano estrarre altrettante opinioni dall’altra parte. (…) E quindi è assai necessario, a causa di tanti diversi errori, che la linea dell’interpretazione profetica e apostolica sia orientata secondo le norme del senso cattolico ed ecclesiale» (Vincenzo da Lerino, Commonitorium primum, cap. II: PL 50, 640).

[13] J.A. Möhler, Symbolik, oder Darstellung der dogmatischen Gegensätze der Katholiken und Protestanten. nach ihren öffentlichen Bekenntnisschriften, §. 38, Kupferberg, Mainz 1838, 361. Scriveva Agostino su quest’azione dello Spirito laddove c’è la totalità del popolo di Dio: «Dello Spirito di Cristo vive soltanto il corpo di Cristo. (…) Vuoi tu vivere dello Spirito di Cristo? Devi essere nel corpo di Cristo. (…) amiamo l’unità e temiamo la separazione (De Spiritu Christi non vivit, nisi corpus Christi (…). Vis et tu vivere de Spiritu Christi? In corpore esto Christi (…) amemus unitatem, timeamus separationem. Nihil enim sic debet formidare christianus, quam separari a corpore Christi. Si enim separatur a corpore Christi, non est membrum eius; si non est membrum eius, non vegetatur Spiritu eius)» (S. Agostino, In Evangelium Ioannis tractatus, 26 ,13 e 27, 6: PL 35, 1612-1613; 1618).

[14] Möhler, Symbolik, 361.

[15] «Altre espressioni designano sensibilmente la stessa realtà, quel senso cristiano, quel sentimento dell’ecclesia, che tocca il contenuto reale della fede: il Nuovo Testamento diceva “dianoia”, facoltà attiva d’intelligenza, i Padri latini, sensus, intelligentia, intellectus» (Congar, La tradizione e le tradizioni, 492).

[16] J.A. Möhler, Symbolik, 361.

[17] Francesco, Lettera al popolo di Dio che è in cammino in Germania, 29 giugno 2019.

[18] M. Ronconi, «Per una legge ecclesiastica dal volto umano. Intervista a Carlo Fantappié», in Jesus 42 (2020/1) 40 e 42. Cf. C. Fantappié, Per un cambio di paradigma. Diritto canonico, teologia e riforme nella Chiesa, EDB. Bologna 2019.

[19] Paolo VI, Angelus, 22 settembre 1974.

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Un commento

  1. Marco Ansalone 20 ottobre 2023

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