Sul mestiere dei teologi e delle teologhe

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Di “tradimento” dei teologi avevo osato scrivere, pensando che la parola dura sarebbe stata esorcizzata dal fatto che si trattava di un prestito letterario, preso dal famoso testo di Julien Benda, La trahison des clercs. Invece è stata presa molto sul serio, dando origine a non poche reazioni, che ne hanno affrontato il problema ampliandone i contenuti.

Di silenzio dei teologi io avevo parlato in un senso piuttosto circoscritto, riferendomi all’assenza di un’ampia e approfondita riflessione, che sarebbe necessaria, sulla rilevanza per la fede e per la teologia di eventi quali la risorgenza dei nazionalismi, la rinnovata virulenza di razzismo e di antisemitismo, l’abbigliarsi di abiti religiosi da parte di conflitti e di guerre.

Di silenzio dei teologi, invece, poi si è ragionato in un senso largo e generale. Il tema su cui si è puntata l’attenzione, detto in sintesi, mi sembra essere stato il problema della solitudine del teologo, addotta a giustificazione delle sue timidezze.

Nessuno ha negato il valore del giudizio di Moltmann, citato da Francesco Cosentino, per il quale la mediazione fra la tradizione cristiana e la situazione del mondo presente sarebbe il compito più importante della teologia. Né mi sembra ci sia stato chi abbia negato che ci sia un problema aperto a questo proposito, sostenendo che, in realtà, i teologi di oggi svolgerebbero adeguatamente questo compito. In gran parte le risposte alla sollecitazione avanzata hanno cercato di spiegarne le ragioni e di giustificare la timidezza della teologia odierna, che deriverebbe dall’autoritarismo del magistero e dal disinteresse della cultura contemporanea al suo discorso.

Le oggettive difficoltà, però, spiegano lo scarso successo dei teologi che, là dove se ne dà il caso, cercano di far risuonare la loro voce nella pubblica conversazione, ma non giustificano la loro resa di fronte alle difficoltà. Tanto meno quel certo disinteresse degli ambienti di Chiesa alla teologia e neppure i rischi di collusione con gli imperativi del magistero sono motivo sufficiente per poter tradire la propria vocazione.

Si dica, fra l’altro, che, dall’epoca del modernismo in poi, mai i teologi hanno goduto della libertà di cui oggi godono. Dovrebbero guardarsi se mai dalla tentazione di rinunciare alla propria libertà per perseguire carriere accademiche che, fra l’altro, avranno ben poco da ripagarli, sia in denaro che in prestigio dei sacrifici che hanno fatto.

In quanto poi alla sordità della cultura dominante, se è vero che l’interesse al religioso a dir poco è scarso, è anche vero che oggi si sta drammaticamente risvegliando nel contesto dei conflitti e delle guerre che se ne rivestono come di un nobile manto.

Comunque sia e comunque si giudichino le difficoltà che oggi il teologo incontra, poiché il carisma è grazia e responsabilità insieme, non gli è concesso di esonerarsi dall’esercitare la sua funzione critica sull’esperienza della fede e sulle pratiche della vita e della missione della Chiesa. “Va’ e grida agli orecchi di Gerusalemme”» (Ger 2,1): la parola rivolta all’antico profeta continua a risuonare e il teologo è uno dei suoi primi destinatari.

Non si dovrebbero dimenticare i vari Chenu, i Congar, i De Lubac, i Daniélou e tanti altri che, nella prima metà dell’Ottocento, pur dovendo soffrire diffidenze e censure, hanno preparato, ignari della preziosità delle loro fatiche, il terreno dal quale il concilio Vaticano II ha ricavato la sua messe preziosa.

È passato il tempo in cui i teologi della Sorbona erano intenti a condannare le eresie. La teologia, anche quando la definiamo dogmatica, dogmatica non è affatto: essa non definisce i dogmi, ma li interpreta, lungo il variare della cultura e della sensibilità, in modo che possano risultare vivi e significanti, in maniera diversa, negli ambienti più diversi.

Lo fa, di volta in volta, escogitando ipotesi interpretative diverse, cercando di verificarne l’efficacia e abbracciandone una o due con le quali aprire nuovi percorsi per ridire la fede, in modo da renderla capace di interloquire nella conversazione pubblica attuale.

Il fatto che la teologia oggi non goda di alcuna autorità le garantisce la massima libertà e le permette di poter anche sbagliare. Muovendosi in questo suo spazio di libertà essa diventa creativa, capace di aprire sentieri, i più vari che dalla Chiesa potranno essere disdegnati o rifiutati o accolti, in vista del suo futuro. Se, però, i teologi non lo fanno, saranno le paure e la pigrizia di coloro che nulla vogliono cambiare ad imporsi.

Il primo dovere del mestiere del teologo sarà quello di curare l’esattezza della documentazione delle fonti, ma facendolo dovrà anche prendere atto delle loro bivalenze, dei loro silenzi e degli spazi che esse lasciano aperti. Saranno questi gli spazi nei quali muoversi con libertà e sarà questo il terreno nel quale gettare i semi delle innovazioni necessarie perché possano continuare a parlare al mondo che cambia.

Si pensi, tanto per portare un esempio, di quanti falsi problemi si potrebbe sgomberare il dibattito sul diaconato alle donne, se si ricordasse che lungo la storia la Chiesa ha più volte modificato i gradi dell’Ordine, sì che risulti assai difficile negare che essa abbia il potere di re-istituire, come di istituire ex novo, l’ordine delle diacone.

Compiuta con la massima acribia e con onestà intellettuale la consegna dello studio delle fonti, dal carisma del teologo spunteranno le più varie ipotesi ermeneutiche. Così dalle fonti della fede germoglieranno le nuove risposte alle nuove domande che continuamente insorgono nello scorrere del tempo.

Il teologo, però, deve saper rischiare, dando via libera alle sue intuizioni, avanzando le sue proposte con la disponibilità ad essere contestato.

Non dalla quiete dei pensieri diversi, ma dalla loro vivace dialettica, il pensiero teologico ha sempre tratto e donato alla Chiesa i suoi frutti migliori.

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