Dall’autorevole intervento di Severino Dianich sul «tradimento dei teologi» (cf. qui su SettimanaNews) è nato un vivace dibattito, con riflessioni e considerazioni critiche che meritano di essere ben approfondite e, magari, di essere lette in modo sincronico.
Sulla marginalità della voce dei teologi, soprattutto in riferimento ai gravi sconvolgimenti sociali della nostra epoca e ai numerosi sussulti di speranza che si levano dalle grida di dolore dei poveri, dei migranti e delle vittime della guerra, c’è ben poco da dire. Ciò va a discapito della stessa natura della teologia, che non è un commento erudito della dottrina o un semplice approfondimento intellettuale della fede, ma l’esercizio di continua mediazione dell’evento cristiano nella cultura e nella storia.
Come affermava Moltmann, infatti, la teologia è tale solo nel contesto ecclesiale e culturale ed è sempre «teologia della mediazione, poiché comunica il messaggio cristiano della tradizione all’orizzonte di comprensione degli uomini del presente. La mediazione tra la tradizione cristiana e la cultura del presente è il compito più importante della teologia in generale. Senza rapporto vivo con le possibilità e i problemi degli uomini del presente la teologia cristiana diventa sterile e irrilevante»[1].
Senza per nulla smentire la coraggiosa denuncia di Dianich, ritengo che la questione debba essere affrontata anche a partire da numerosi fattori – ad intra e ad extra – che, a loro modo, hanno a che fare con l’attuale irrilevanza del pensiero teologico nel contesto contemporaneo. Essa, cioè, non dipende esclusivamente da una presunta ignavia dei teologi né il loro mutismo può essere ascritto soltanto alla loro personale responsabilità, magari per calcolo prudenziale o per incapacità di elaborare una visione.
Tutto ciò purtroppo non manca e, tuttavia, è utile mettere a fuoco alcuni nodi non risolti, che, nel tempo, hanno generato un contesto a dir poco sfavorevole – e anche poco entusiasmante – per il lavoro dei teologi. Essi si riferiscono tanto alla comunità cristiana quanto alla società civile: per entrambi i contesti la teologia è diventata oggi senza peso[2].
La solitudine del teologo
Quando ci si inoltra nelle letture della crisi odierna riguardante la trasmissione della fede e l’appartenenza ecclesiale, ci si sofferma spesso sulla sofferenza di alcuni protagonisti o agenti della vita pastorale. Forse, per una volta, abbiamo l’occasione di soffermarci anche sulla solitudine del teologo e, di conseguenza, sulla sua sofferenza.
Per quanto sia doloroso e spiacevole ammetterlo, è nello stesso alveo ecclesiale – tra i vescovi, tra i preti, tra i laici – che l’impegno per la riflessione teologica è stato nel tempo stigmatizzato e via via sempre più marginalizzato, cadendo sotto i colpi di una disarmante banalità, alimentata dai luoghi comuni e dai pregiudizi.
Affrontando perciò il mutismo dei teologi, bisogna chiedersi con onestà: quanto è ritenuta importante oggi la teologia nella Chiesa cattolica? Il lavoro dei teologi è stimato, riconosciuto, incoraggiato? La voce dei teologi è tenuta in debita considerazione nella variegata costellazione della vita pastorale ed ecclesiale?
Ciò che appare sotto i nostri occhi è spesso desolante: in cima alle priorità pastorali rimangono spesso altre questioni, talvolta sollecitate dai bisogni sacramentali o di altro genere, con energie quasi tutte catalizzate per la pietà popolare o qualche piccola devozione; tutto bene, se non fosse che, lentamente ma progressivamente, la nostra religiosità ha subìto una tale metamorfosi da assumere sempre più la forma di una «religione agnostica, umanistica… occasionale, immediata, sperimentale, con un tocco futile di ritualità e di mistica»[3], per la quale l’esercizio del pensiero teologico appare irrilevante e superfluo.
Naturalmente la teologia stessa ha le sue responsabilità, dal momento che «si occupa eccessivamente di se stessa e si intrattiene con l’infinito racconto del suo pensiero, della sua storia, del modo in cui si è formata, dei suoi beni e dei suoi ornamenti»[4], in un’“autoreferenzialità” che la relega a essere solo «uno strumento di addestramento dottrinale del personale ecclesiastico»[5]. Tuttavia, la svalutazione ecclesiale dell’impegno teologico, relegato ai margini, con il confinamento dei teologi a personaggi di nicchia che nessuno capisce quando parlano, non aiuta.
Non si dimentichi, poi, che, per lungo tempo, i teologi hanno studiato, lavorato, insegnato e pubblicato sotto uno sguardo sospettoso e diffidente, che spesso ha messo sotto accusa la loro libertà di pensiero e ha preteso un formale allineamento dottrinale, mortificando la loro capacità critica e la passione della ricerca, di fatto gettando delle ombre su chi osasse pensare fuori e oltre gli schemi precostituiti[6]; come storia degli effetti, il popolo di Dio si è guardato bene dallo sporgersi troppo dalle altezze del pensiero, preferendo coltivare una fede passivamente obbediente, «sicura» e «certa».
Di questi tempi, ci consola il magistero di Francesco quando afferma che l’unità nella Chiesa non equivale all’uniformità totale su tutte le singole questioni; egli ha affermato che, «a volte, si confonde la sicurezza della dottrina con il sospetto per la ricerca» e ha raccomandato: «restate in mare aperto! Il cattolico non deve aver paura del mare aperto, non deve cercare il riparo di porti sicuri»[7].
Rimane, però, una contraddizione invocare la voce dei teologi mentre il contesto stesso in cui operano rischia di silenziarli o li incoraggia al mutismo.
Nel contesto culturale
Venendo al contesto culturale, esso non è per nulla più ospitale, specialmente in Europa. Che si tratti del dibattito culturale pubblico o di un qualche tema specifico, magari salito alla ribalta per qualche fatto di cronaca, raramente il teologo è considerato come una delle possibili voci da mettere in campo. Nella compagine di commentatori, analisti, opinionisti e «tuttologi» del web, al teologo non viene riconosciuta nessun tipo di autorevolezza che possa «permettere» di intervenire, col risultato che, nella maggior parte dei casi, i teologi intervengono in casa propria, sulle pagine di blog, riviste e giornali che – fatta qualche eccezione – rimangono comunque destinati a un universo esclusivamente cattolico.
Nella sua ficcante riflessione sul tema, già vent’anni fa il teologo Christian Duquoc affermava: «i teologi non hanno più interlocutori: la cultura moderna non onora la loro disciplina»[8]. Secondo Duquoc, non manca la responsabilità dei teologi stessi, i quali a volte danno l’impressione di procedere nelle argomentazioni con metodi ibridi dal punto di vista scientifico, di appellarsi troppo acriticamente all’autorità delle proprie fonti e di rifugiarsi in questioni marginali invece che condividere gli interessi principali delle nostre società; in questo senso, «essi pagano con il prezzo dell’esilio la loro lentezza ad affrancarsi da interessi ormai passati; oggi vengono ascoltati poco nello spazio pubblico a causa della storia vera o presunta della loro intelligenza totalitaria e nel contempo corporativa della verità»[9].
Tuttavia, non mancano questioni inerenti al contesto culturale stesso, a quella postmodernità che si configura come una realtà multiprospettica, segnata da «impossibilità di una prospettiva centrale, impossibilità di un centro della storia»[10] a partire dal quale leggere la vita e la realtà.
Si tratta di un contesto che assume il punto di vista democratico, parziale e plurale contro la pretesa coerente e unificante cui spesso mirano i teologi; Duquoc ne parla come una congiuntura inospitale che si è affrancata dalla speranza religiosa non più attraverso un sistema ateo di pensiero ma cadendo nell’indifferenza; una realtà in cui trionfa la visione tecnocratica e matematica della verità a scapito di quella simbolica; una crisi generale dell’autorità e delle istituzioni che, se, da una parte, non impedisce una certa disseminazione delle religioni in mezzo alle culture, dall’altra parte, le ha ormai fiaccate nella loro pretesa di essere legittimate quanto alla loro parola e proposta.
Si tratta di realtà contestuali e culturali che, come si può ben vedere, comprendono lentezze e ritardi dei teologi ma, al contempo, vanno ben oltre.
Guardando avanti
La teologia ha certamente molto da fare. Come di recente ha ricordato Giuseppe Lorizio, una teologia inquieta e inquietante deve anzitutto attrezzarsi per abitare la complessità della vita reale invece che percorrere la sola autostrada dei contesti accademici, così da svegliare sé stessa dal sonno dogmatico e far emergere l’importanza della valenza pubblica e politica della fede.
Ma la riflessione sul contesto ecclesiale, che appare paradossalmente più inospitale di quanto possa esserlo come culturale, suggerisce che una simile cura deve partire da lontano. Di recente, ho scoperto che, per alcune malattie rare, i nuovi farmaci sono più efficaci perché non intervengono più alla fine del processo, ma – si dice tecnicamente – «a monte della cascata», cioè dove l’infiammazione ha inizio. Dunque, il monte a cascata dei teologi è la stessa comunità cristiana: da lì essi provengono, e il loro cammino di fede, talvolta anche di formazione religiosa o presbiterale, accade ovviamente lì.
Non si può pretendere di agire sul loro mutismo se essi, come tutti gli altri, nascono, crescono, credono e si formano in un contesto che spesso non considera l’esercizio teologico come necessario, il più delle volte snobbandolo o comunque relegandolo a una nicchia per pochi eletti. A meno che non si voglia semplicemente puntare sull’inclinazione, la libertà di pensiero e la passione del singolo teologo, scommessa che appare però eccessivamente ottimistica.
[1] J. Moltmann, Che cos’è oggi la teologia, Queriniana, Brescia 1991, 67.
[2] Cf. P. Sequeri, «Bastioni da abbattere o ponti da costruire?», in P. Sequeri-E. Salmann-C. Theobald, La teologia non ha futuro senza immaginazione, Vita e Pensiero 4/2021, 71.
[3] E. Salmann, «Cari teologi, la prognosi è riservata», in P. Sequeri-E. Salmann-C. Theobald, La teologia non ha futuro senza immaginazione, 78.
[4] P. Sequeri, «Bastioni da abbattere o ponti da costruire?», 73-74.
[5] Ivi, 74.
[6] Su tale questione si può leggere H. Verweyen, La teologia nel segno della ragione debole, Queriniana, Brescia 2001, in particolare 6-31.
[7] Papa Francesco, Discorso alla Comunità de La Civiltà Cattolica, 9 febbraio 2017.
[8] C. Duquoc, La teologia in esilio. La sfida della sua sopravvivenza nella cultura contemporanea, Queriniana, Brescia 2022,
[9] Ivi, 8.
[10] E. Salmann, Passi e passaggi del cristianesimo. Piccola mistagogia verso il mondo della fede, Cittadella, Assisi 2009, 37.
Sarà sempre più difficile per i teologi cattolici parlare di Dio in un contesto culturale dove Dio è ormai marginale e insignificante. Marginale al contrario, invece, non è la ricerca di tantissime persone dentro le nostre realtà ecclesiali di approdare a percorsi spirituali svincolati dall’ortodossia ufficiale e tacciate perciò, ahimè, di un pericoloso sincretismo. Si ritornerà nel 2025 a parlare di Michel de Certeau, in occasione dei 100 dalla sua nascita, e già si tengono Convegni anche in questi giorni. Per il gesuita francese la vita della Chiesa procede per discontinuità e fratture e si dovrebbe inserisce là dove la storia ci indica le crepe, le fratture, le faglie. Come affermava Elmar Salmann: “L’approccio di De Certeau con la modernità non è il solito piagnisteo ecclesiastico sulla secolarizzazione; al contrario, egli assume la sfida posta dalla contemporaneità”. E’ lo stile questo dei teologi votati al mutismo?
Il parlare su “Dio” dei teologi “accademici” e delle istituzioni “ecclesiastiche” è muto e irrilevante. Ma la società civile intrattiene un fruttuoso e interessante dialogo con chi nella società, nella chiesa o ai margini di essa non parla “teologhese” ma indica il Mistero in ogni “pezzetto” della realtà. Altrove la gente cerca e sta trovando ciò di cui la teologia ha troppo parlato.
La teologia , come tutte le scienze umanistiche , ha bisogno di libertà di indagine per progredire . In Italia il pensiero teologico è asfittico perché sono asfissianti le istituzioni entro le quali lavorano i teologi , che devono essere “approvati” e certificati dalla gerarchia. Non ci sono fronti di ricerca nuovi , solo tanti confini invalicabili .. a chi interessa una riflessione che non progredisce, che non cerca strade nuove ?
Non è quello il problema. È in difficoltà perché è in difficoltà la filosofia o più in generale io mondo umanistico. Non c’è un pensiero sufficientemente strutturato con cui dialogare, o per lo meno, nulla che duri il tempo sufficiente per poterlo elaborare. Dovrebbe essere la Chiesa a indicare una qualche novità. Che poi quale novità? Che siamo tutti fratelli? Che il nazionalismo o la guerra sono sbagliati? Lo dicevano già Benedetto XV (inutile strage) o Pio XI (voler rinchiudere Dio nel ristretto della nazione è come voler richiudere il mare in un catino). C’è un pò di presunzione nel pensare che gli uomini di oggi siano diversi da quelli di ieri..
Ci isola e ci deprime la guerra, relativamente lontana, l’ ottusità di una società che è si è talmente ristretta da non uscire dalla “nostalgia” che ci ha sottratto tempo al punto di scaraventarci indietro di un secolo, che purtroppo è quella italiana. Non si tratta del ritardo culturale che la Chiesa dotata di qualche sensibilità e’solita rimproverarsi: le osservazioni di Dianich si riferiscono a una polemica che nel secolo scorso dimostrava un impegno teorico e applicativo che al contrario è è stato considerato eccessivamente politico Vedo più pericolo nell’ indicazione di lasciare emergere la mistica e prevalere il mistero, considerato che questa soluzione a sua volta ha già dato storicamente posto a un diluvio di irrazionalità aggressiva. Verso i commenti “ostinati” del Papa c’è sostanzialmente tanto poco consenso, ci vuole la prudenza di non attenersi solo al mimetismo formale! (Ho risposto a lei ed è venuto più lungo quello che avevo pensato)…