Si è svolto a Rimini, nei giorni 21-22 aprile 2023, il Convegno nazionale promosso dall’ISSR «A. Marvelli» (cf. qui su SettimanaNews) insieme con la Facoltà teologica dell’Emila Romagna, il Centro Studi «Teilhard de Chardin» (www.teilhard.eu) e l’Associazione italiana Teilhard de Chardin. Per gentile concessione degli organizzatori riprendiamo la relazione tenuta in quella sede dal prof. Paolo Trianni, docente presso il Centro studi interreligiosi della Gregoriana (cf. qui su SettimanaNews), sull’originalità della proposta spirituale del gesuita e scienziato. La relazione integrale sarà pubblicata nel volume degli Atti del convegno di prossima uscita.
Da tempo la chiesa ha capito che la pastoralità deve diventare la sua priorità, se vuole contrastare il secolarismo imperante. Nessuno può nutrire dubbi sul fatto che oggi il contrasto alla secolarizzazione passa anche attraverso una componente essenziale dell’azione pastorale: il rinnovamento della vita spirituale individuale e comunitaria. La chiesa non ha saputo comunicare e valorizzare adeguatamente la ricca varietà della sua spiritualità, e ne sta pagando il caro prezzo. Se le tecniche ascetiche che provengono dall’Oriente, per non parlare di quelle dei nuovi movimenti religiosi, suscitano oggi un crescente interesse è perché vengono considerate alternative e innovative rispetto a quelle praticate nel mondo ecclesiale.
Questa perdita di attrazione si deve a una carenza nella formazione cristiana, sia a livello parrocchiale sia a livello accademico. La teologia spirituale, infatti, è ingiustamente ritenuta una disciplina teologica di serie B, come se essa non si ponesse domande altrettanto gravi e ultime di quelle che si pongono le altre discipline della sistematica.
Da questo doppio limite, ne deriva che i cristiani stessi non conoscono la loro spiritualità e persino molti battezzati e cresimati si lasciano sedurre dalle vie spirituali dell’estremo Oriente. Queste vengono viste non solo come più affascinanti, ma anche come più efficaci. Qualche anno fa un noto teologo, registrando questo fenomeno, si chiedeva come mai tanti giovani cercano Dio nelle tradizioni orientali, e che cosa trovano in esse che non hanno trovato nel cristianesimo. È una domanda che ogni fedele cattolico dovrebbe porsi.
Religioni e spiritualità
Per rispondere adeguatamente a tali sfide, è dunque necessario rinnovare la spiritualità. Non sono molti, però, i teologi che possono accompagnare questo processo. Uno di essi è Pierre Teilhard de Chardin, che è stato rivoluzionario in molte materie teologiche, e in teologia spirituale lo è stato forse un po’ di più. Avendo vissuto vent’anni in Cina, questo gesuita francese è stato tra i primi autori occidentali che si sono confrontati con le spiritualità dell’Oriente, che egli chiamava «la via dell’Est».
Senza farne un’estesa analisi, con tale termine si è soliti indicare una visione metafisica caratterizzata dal panteismo, dal dualismo, dall’idealismo e dall’impersonalismo. Considerando quanto queste dimensioni siano antitetiche alla dottrina cristiana, non possono che sorprendere gli scritti del gesuita francese nei quali dimostra apprezzamento per la così detta via dell’Est. Anzi, occorre chiedersi come mai, un sacerdote cresciuto alla scuola dei gesuiti in piena epoca antimodernista, si sia interessato a questa spiritualità religiosa al punto di scrivere, nel 1947, un articolo dal titolo «L’apporto spirituale dell’Estremo Oriente».
Le ragioni per le quali le religioni orientali erano da lui considerate arricchenti sono diverse. Bisogna in primo luogo considerare la sensibilità personale, perché, come raccontava in alcune note autobiografiche, già da ragazzo aveva avuto delle esperienze panteistiche simili a quelle di cui parlano le religiosità asiatiche. Dietro la sua intenzione di riflettere sulle spirituali orientali, però, c’erano anche altre motivazioni, come la conversione di una delle sue migliori amiche, Lucile Swam, all’induismo.
A prescindere dalle motivazioni, Teilhard de Chardin, con un atteggiamento senza pregiudiziali, parlava di «ruolo indispensabile e funzione essenziale dell’Estremo Oriente», dichiarandosi convinto che l’incontro con l’India avrebbe prodotto un rinnovamento del cristianesimo. È un fatto, del resto, che riconoscesse alle pianure del Gange una sorta di primato religioso, riconoscendo che «la prima corrente di vera mistica (vale a dire di tendenza all’unione universale) […] è quella che, nata in India, cinque o dieci secoli prima dell’era cristiana, ha fatto per lungo tempo di quella contrada il polo religioso della terra».
Questo suo apprezzamento per le altre religioni, che a suo avviso testimoniavano la vitalità dello spirito, lo hanno portato ad impegnarsi attivamente nel dialogo interreligioso. Fu chiesto a lui, nel 1947, di tenere il discorso inaugurale al «Congrès Universel des Croyants», a cui inviò uno scritto dal titolo: La fede nell’uomo, che, non potendo all’epoca tenere discorsi in pubblico, venne letto dall’orientalista René Grousset. Già dal titolo del suo intervento, si può comprendere dove si radicasse il suo atteggiamento positivo nei confronti delle religioni, egli dava però un’ulteriore giustificazione al dialogo interreligioso quando sottolineava che «lo spirito ha un solo vertice e la medesima base».
In sintesi, Teilhard de Chardin stimava lo spirito presente nelle religioni, dichiarando che «Molto più che frammenti di visione, sono esperienze di contatto con un Inesprimibile supremo che esse conservano e tramandano». Nei confronti dell’Islam, però, che considerava un giudaismo residuale, conservava un atteggiamento maggiormente critico. Come annotava, «Può darsi che vi sia in futuro una rinascita, ma per ora l’Allah del Corano è un Dio per Beduini. Non potrebbe attirare verso di sé le attenzioni di nessun uomo veramente civilizzato».
La via dell’Ovest
Nonostante l’apprezzamento per l’Oriente e l’impegno nel dialogo interreligioso, Teilhard de Chardin deve però essere ricordato come uno dei più strenui difensori della via dell’Ovest. Quasi volendo dare una risposta a tutti quei giovani che si interessavano delle spiritualità orientali, ripeteva che «in Oriente il problema dello Spirito è stato affrontato in modo insufficiente, ed era pertanto inutile rivolgersi verso l’Est per attendere il sorgere del sole». Inoltre, a coloro che consideravano innovativi gli esotismi delle tecniche indiane, ricordava che la vera mistica autenticamente nuova era quella cristiana, perché non si limita a fuggire il mondo, ma mira a trasformarlo in un Regno di Dio.
Uno degli aspetti più originali della sua teologia spirituale, però, è che egli non ha enfatizzato la via dell’Ovest distruggendo quella dell’Est, bensì integrandola o, forse meglio, sublimandola. Se Teilhard de Chardin è diventato un autore di riferimento per molti missionari cristiani che hanno lavorato in India, come Henri Le Saux, Jules Monchanin o Raimon Panikkar, è appunto perché la sua visione fa da ponte tra il cristianesimo e la sapienza indiana. Ad esempio, se le scuole che indirizzano la spiritualità orientale sono caratterizzate dal dualismo o dall’idealismo, la sua visione le super entrambe. Nella visione del gesuita, infatti, materia e spirito non si contrappongono, per il semplice fatto che l’evoluzione va dal molteplice all’Uno e dalla materia allo spirito. Al riguardo, scriveva appunto che non bisogna «opporre in modo puro e semplice Uno e molteplice, spirito e materia. Bisogna perseguire, adorare l’uno attraverso l’altro».
La spiritualità teilhardiana, dunque, respinge nettamente il dualismo indiano superandolo. Un procedimento di pensiero simile, lo ha poi dedicato anche al suo idealismo. Nei confronti di quella cosmologia orientale che considera il cosmo una mera illusione (maya), esprimeva infatti una critica esplicita. Firmando una delle critiche più lucidi e radicali che siano state indirizzate all’idealismo indù e buddhista, sosteneva che nelle sue principali religioni «la molteplicità degli esseri e dei desideri è soltanto un sogno cattivo, dal quale bisogna svegliarsi. Sopprimiamo lo sforzo di conoscenza e di amore, vale a dire di personalizzazione, che tende a conferire una maggiore consistenza a questo miraggio: e ipso facto (tutto sta là), e proprio grazie allo svanire del Plurale, noi vedremo apparire il fondo essenziale della tela; nel silenzio costante, percepiremo la Nota unica. I fenomeni non ci manifestano, ma ci nascondono la Sostanza».
Con una frase che da un lato critica la vacuità idealistica del Buddha e dall’altra riassume l’essenza della sua spiritualità, riconosceva che il «vuoto» è arricchente e beatificante, ma aggiungeva anche che questo vuoto attirante Dio può incarnarsi soltanto nel vivo di un pieno preesistente. A chiusura di queste considerazioni, aggiungeva poi una frase che potremo assumere a modello del suo evoluzionismo: «Per fendersi ed aprirsi, bisogna che il frutto sia maturo».
Secondo lo scienziato francese, infatti, il processo evolutivo del cosmo coincide con una progressiva maturazione spirituale che è al contempo una reificazione e una unificazione che si compiono «in» e «attraverso» Cristo, sia quello storico che quello sacramentale. Va sottolineato, però, che in Teilhard de Chardin, non diversamente da quanto predica l’Oriente, questa maturazione-unificazione è descritta essenzialmente come una liberazione. Senza essere un dualista, faceva infatti coincidere la pienezza della vita spirituale con il distacco dalla materia. Anche secondo lui «Per crescere nella verità bisogna camminare voltando le spalle alla materia».
Trasfigurazione del cosmo
Mentre la spiritualità delle religioni indiane è orientata all’acosmismo, però, quella teilhardiana è invece orientata alla trasfigurazione. Come sottolineava, «la cosa fondamentale non è quella di dimenticare la terra per il cielo, ma di sovrannaturalizzare il dovere e l’interesse umani». Egli disegnava così due forme antitetiche di distacco, perché «Il distacco cristiano anziché “lasciare indietro”, trascina; anziché stroncare, solleva: non più rottura ma traversata; non più evasione ma emergenza».
La vera novità, rispetto all’Oriente, è che egli interpretava questa liberazione dalla materia non come la conseguenza di un conflitto dialettico, bensì come effetto di una maturazione liberante che è strutturale alle dinamiche stesse della vita: «Malgrado il nostro attaccamento alle cose, noi ce ne distanziamo: il nostro attaccamento stesso, in un certo senso, ci allontana, perché nella natura vi è inclusa una logica, una forza di rinuncia, di espansione, di morte creatrice (che è precisamente l’inizio della rinuncia organicamente imposta da Cristo ai suoi membri soprannaturali)».
È dunque possibile cogliere quale sia il tratto distintivo della spiritualità teilhardiana: quello di andare al cielo attraverso la terra. Essa è un attraversamento cosmico che suppone la vita e una comprensione positiva del mondo, che non a caso definiva «ambiente divino». Prima di essere una legge spirituale, quella dell’attraversamento era per lui una legge fisica: «nulla perviene allo spirito se non per mezzo di un determinato tragitto attraverso la materia». Riassumendo l’ambiguità di quest’ultima, o forse meglio l’ambivalenza, aggiungeva che questo tragitto o percorso «è in un certo senso una distanza che separa ma anche, in un altro senso, una strada che unisce».
L’originalità della teologia spirituale teilhardiana, in sintesi, consiste nell’aver applicato alla vita dell’anima le stesse leggi della vita cosmica. In Occidente non ci sono autori che abbiano espresso un pensiero eguale, ma anche in India il solo che abbia coltivato idee simili è Aurobindo, e non a caso ci sono vari studi dedicati alla vicinanza delle rispettive visioni.
Una mistica della traversata
La teologia spirituale di Teilhard de Chardin si può dunque definire, per usare un suo termine, mistica della traversata. Essa, coincidendo appunto con un attraversamento della vita cosmica, comporta dei corollari alquanto originali.
Il primo è che essa esprime un’ascesi dialettica ma non dualistica che invita a sublimare anziché a reprimere, perché, come spiegava, «forzarsi significa spesso falsarsi. Reprimere tende a far esplodere. Nessuno ha mai dominato né una forza né un’idea soffocandola, ma catturandola». Un secondo corollario è quello che potremmo definire soggettivismo, perché è evidente che «l’attraversamento» è sempre un evento individuale. Lo raccontava in questi termini: «Ogni essere è in qualche punto della china che sale dall’ombra alla luce. Davanti a lui, lo sforzo per dominare e semplificare la sua natura; dietro di lui, l’abbandono delle sue potenzialità nella dissociazione fisica e morale. Così, ciò che è male e materiale per me può essere bene e spirituale per un altro che cammina dietro a me. E colui che mi sta davanti sulla montagna si corromperebbe se utilizzasse quello che mi unifica».
È chiaro che Teilhard de Chardin è arrivato a queste sue considerazioni applicando all’anima le leggi dell’evoluzionismo, ma un orientale non potrebbe non cogliere delle affinità con la dottrina indiana del karma. Tra l’altro questi concetti egli li ribadì anche in un altro scritto, dove spiegò che «la vita pone ciascuno di noi in un determinato punto sul pendio materiale che conduce allo spirito. E ciascuno deve abbracciare e risalire questa materia a partire dal punto in cui si trova, e non da un punto accanto, o più su o più giù».
Un terzo corollario della visione teilhardiana, è che la sua spiritualità risulta strutturalmente mediata. In altre parole, mentre le ascetiche dell’Oriente sono generalmente immediate, egli, al contrario, riconosceva come indispensabile la mediazione della Bibbia, di Cristo, della chiesa e del sacramento eucaristico.
La divinizzazione del mondo e la cristificazione dell’uomo, secondo il gesuita francese, passano appunto attraverso l’eucarestia. Essa, nella sua visione, è infatti l’anello che congiunge la materia e lo spirito, la terra e il cielo. È lei che transustanzializza l’anima del cosmo e quella dell’uomo, che considerava tra loro interconnesse: «Tutto sommato, aderire al Cristo nell’eucaristia è, inevitabilmente, ipso facto, incorporarsi, ogni volta sempre di più, ad una cristogenesi la quale, a sua volta, non è diversa (in ciò consiste, abbiamo visto, l’essenziale della fede cristiana) dall’anima della cosmogenesi universale».
Aggiungeva che «Nell’eucaristia c’è una comunione con Dio attraverso la Terra, un sacramento del mondo». La sacramentaria di Teilhard de Chardin guarda dunque all’eucarestia non tanto nell’ottica del memoriale di un sacrificio, quanto in quella tipica del cristianesimo orientale, intendendola come quella forza dinamica che produce la divinizzazione personale e cosmica.
Relativizzazione del male
Un ulteriore corollario della prospettiva teilhardiana, connesso a questa sua comprensione dell’evoluzione, è poi la relativizzazione del male. Quest’ultima, però, non implica, come ritengono alcuni, una negazione del peccato originale, bensì solo una sua reinterpretazione.
Leggendo i suoi scritti, è tuttavia innegabile che essi descrivano una dinamica evoluzionistica che comporta una certa svalutazione della drammaticità del male. Estremamente originale, al riguardo, è la sua lettura della croce, che egli leggeva non come un’espiazione ma come il simbolo della creazione che risale la china dell’essere. Precisava il senso di questa sua convinzione, spiegando che «la Vita non si è elevata che mediante la sofferenza, attraverso il male, seguendo il cammino della Croce».
Tale persuasione relativizzante non può che sorprendere e persino sconcertare, in un uomo che aveva fatto il barelliere durante la prima guerra mondiale, e ne aveva sperimentato in modo diretto gli orrori. Il suo sguardo, però, andava oltre la storia immediata e guardava agli esiti escatologici finali. Nell’ambito di questa visione, nella quale storia ed escatologia si fondono, il male risulta essere un disordine residuale, un inesorabile sottoprodotto dell’evoluzione, una conseguenza dell’incompiutezza, il prezzo inevitabile dell’evoluzione.
Per Teilhard de Chardin il male coincideva essenzialmente con il non essere, e si riassumeva nella necessità evolutiva di passare dall’oscurità alla luce, dalla dipendenza alla libertà, dalla frammentazione all’unità. Nell’ottica del gesuita, infatti, il peccato coincide essenzialmente con la divisione, e la spiritualità con l’unificazione. Egli chiamava questo vertice finale della storia, nel quale trova compimento il processo unitivo di evoluzione, Omega, leggendolo appunto come il polo attrattivo divino che fa convergere ed unificare popoli e religioni.
Teologia delle religioni
È su queste premesse che Teilhard de Chardin, oltre ad essere un precursore del dialogo interreligioso, è anche un fondatore della teologia delle religioni inclusivista ed in particolare della prospettiva del compimento. Egli vedeva infatti convergere le religioni verso il cristianesimo, o quantomeno verso valori cristici. Già nel 1934, ad esempio, aveva parlato di «una convergenza generale delle religioni su un Cristo-Universale che in definitiva le soddisfa tutte: ecco, a parer mio, l’unica possibilità di convergenza del Mondo, l’unica forma immaginabile per una Religione dell’avvenire».
Dal momento che nel suo lessico mistica ed unificazione sono sinonimi, specificava che «Non c’è religione conquistatrice senza mistica. E non c’è mistica profonda al di fuori della fede in qualche forma di unificazione dell’universo». Si capisce, pertanto, che la dottrina teilhardiana della convergenza è coincidente con la prospettiva del compimento e con la comprensione della mistica come unificazione. Il suo ottimismo cosmico nasceva da questa preliminare persuasione che la molteplicità è ultimamente ordinata all’unificazione.
Come scriveva, «Nel suo buono e vero senso, il molteplice è di natura convergente». Su un piano antropologico, parlava appunto di un «senso cosmico», indicando con esso quel senso di unità e totalità che si ricollega alla forza unificante del Cristo, pneumatologica e sacramentale.
Quando faceva riferimento a questa dinamica mistica usava un termine di suo conio difficilmente traducibile: oneness. Con esso intendeva la convergenza del molteplice verso l’Uno, che si poteva ottenere, a suo dire, in due modi opposti: per dissoluzione impersonale senza amore, o per parossismo personale in un centro comune effetto specifico dell’amore. Essenzialmente, le due vie dell’Est e dell’Ovest, si distinguono, secondo Teilhard de Chardin, per queste «due nozioni inverse dell’unità: da una parte, l’unità di impoverimento, tramite l’astrazione, o il ritorno all’omogeneo; e, dall’altra parte, l’unità di ricchezza, per concentrazione di quanto c’è di positivo nelle determinazioni e le qualità».
L’Uno cristiano, secondo il gesuita, non smarrisce e non può smarrire la differenza ontologica e quindi il valore ultimo della Persona e dell’amore. Nel pensiero religioso teilhardiano, pertanto, non trovano posto l’impersonalismo, il panteismo, il quietismo, l’immediatezza o il pelagianesimo. Tuttavia, se la mistica monistica dell’India parla di advaita, ovvero della non-dualità tra Dio e l’uomo, anche in lui sono presenti espressioni che sembrano lambire il panteismo: «Più discendo in me, e più trovo Dio nel cuore del mio essere».
Pancristismo
Il suo personalismo di fondo, però, lo orientava verso la dottrina del pancristismo, di cui nel Novecento è stato uno dei principali interpreti. Dottrina che egli stesso riteneva essere una forma di panteismo cristiano alternativo a quello indiano perché non monistico. Per spiegarlo meglio usava il termine di «sintesi differenziante», sottolineando che l’«Unione differenzia». Cristo stesso, del resto, era da lui compreso come «personalità personalizzante».
L’evoluzione stessa la vedeva convergere verso il personalismo, il quale, essendo inclusivo di una relazione con l’alterità, risulta antitetico al monismo. In una nota spirituale, sosteneva appunto che «La morte dell’egoismo deriva dal capire che siamo elementi di un universo che si sta personalizzando (se posso dire) unendosi a Dio (non dico diventando Dio)».
D’altro canto, concependo l’unificazione come amorizzazione, l’evoluzionismo teilhardiano evidenzia una struttura necessariamente relazionale e personalista. A conferma del fatto che quella teilhardiana è una spiritualità incentrata sulla relazione interpersonale, vale la sua precisazione che «l’amore non ha soltanto la virtù di unire senza depersonalizzare, ma ultra-personalizza mentre unisce».
Più di ogni altra componente, però, ciò che rende Teilhard de Chardin un difensore della via dell’Ovest, è il suo concepire la santificazione personale come inseparabile dalla santificazione del mondo e dall’impegno incarnazionista nella storia. Al riguardo, metteva in risalto l’interrelazione che sussiste tra queste due santità, spiegando che «Ogni uomo si fa la propria anima durante tutti i suoi giorni terreni e, al tempo stesso, collabora ad un’altra opera, ad un altro «opus»: il compimento del mondo». Dal suo punto di vista, è appunto questo incarnazionismo declinato al Regno, la caratteristica che rende nuova la mistica dell’Occidente, oltreché antitetica all’acosmismo e all’impersonalismo della via dell’Est.
Un episodio, più delle parole, spiega questa sua spiritualità. Pochi mesi prima dell’infarto fatidico della Pasqua del 1955, camminando insieme all’amico Pierre Leroy tra la folla di Park Avenue – nel cuore di New York e non in un eremo o nella cella di un monastero – lo prese per un braccio e a mezza voce gli disse: «Posso dirvi che ormai vivo alla costante presenza di Dio!».
Per un approfondimento
P. Trianni, Teilhard de Chardin. Una rivoluzione teologica, EMP, Padova 2018.
P. Trianni, Il Cristo di tutti. Teilhard de Chardin e le religioni, Studium, Roma 2012
P. Trianni, Teologia spirituale, EDB, Bologna 2019