Teologhe italiane: giusto limite

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Il seminario del Coordinamento delle teologhe italiane (CTI) di quest’anno, svoltosi a Roma il 18 maggio, aveva per titolo Giusto limite. Strategie della violenza. Possibilità della pace. Espressione capace di evocare i tanti limiti superati in questo tempo: la violenza contro le donne, i confini superati e le modalità di conflitto, che si presentano oggi come mali necessari ma non lo sono – come ha ricordato la presidente Lucia Vantini nell’introduzione.

Di fronte a una serie di alternative secche, che paiono bloccare la possibilità del ragionamento, le teologhe si sono invece ancora affidate alle parole cercando quelle che possono generare energia (Vantini)

Questo per trasformare il termine stesso di limite: da un impedimento a una realtà che accade come evento di giustizia. Il riferimento a Simone Weil di Vantini merita di essere riportato: «Simone Weil dice che la violenza è sempre illimitata, si espande, travolge, uccide, umilia e devasta; e il limite che possiamo cercare di vivere non viene da una forza contraria di contenimento, ma da qualcosa di infinito che è in noi e che opera uno spostamento che fa saltare tutti i confini che abbiamo ingiustamente considerato naturali. È così che si sciolgono i campi dei troppi schieramenti assurdi su cui abbiamo ingaggiato battaglie non nostre».

Da qui si sono poi articolate le relazioni del mattino dedicate a categorie fondamentali per la teologia – come sacrificio, kenosis, martirio, limite e legami. Nel pomeriggio ci si è concentrate sulla passione per la giustizia: affinché la violenza non sia l’ultima parola – anzi, sia termine non pronunciato.

Parole

L’approfondimento di Emanuela Buccioni sul sacrificio ha aiutato a superare l’alternativa secca tra sacrificio di offerta (foriero di morte) o non sacrificio. Abramo interpreta l’invito a salire sul monte come un ordine per il sacrificio di Isacco, oscurando così l’altro senso possibile del salire – quello di andare a pregare. In tal modo, la parola di Dio poteva essere compresa come l’ingiunzione di insegnare a pregare ad Isacco. Invece Abramo comprende il comando alla luce di un contesto da lui stesso introiettato per cui l’offerta chiede distruzione. Così sarà anche per il voto di Iefte che dovrà sacrificare la figlia.

La parola profetica ripeterà più volte l’invito a un sacrificio del cuore: che è sacrificio, ma di lode. Così la nota conclusiva: la sacralità con cui rivestiamo la violenza non è neutra e, d’altra parte, il con-sacrare può essere apertura di spazi in cui Dio può agire, impegnandoci in un sacrificio di lode, di benedizione della vita.

Cristina Simonelli ha preso le mosse dal termine traversia: che indica il punto della costa in cui la tempesta può giungere da qualsiasi direzione. L’inedita immagine non è certo servita a Simonelli per descrivere tempeste (così traduco), ma per indicare la necessità e la possibilità di stare in esse. Il discorso d’odio chiede parole che sappiano silenziare la violenza. I termini di kenosi e croce possono portare con sé violenza e facilmente si sono saldate con il patriarcato. Si può però pronunciarli lasciando emergere l’hapax che è Gesù nell’interpretazione di queste parole. La medesima dinamica vale per le politiche discorsive intorno al martirio – pronunciabile quest’ultima parola solo se non replica la violenza stessa. In tutti questi casi si tratta di parole che sappiano fare un vuoto, che è energetico perché le rende parole “di potere con” e non su. Da qui il metodo indicato nel moto per luogo.

Se sopra il fraintendimento del limite era l’eccesso, qui è la chiusura: perciò il limite è da attraversare per trarre energia proprio dal buco nero che è la violenza prodotta dalla storia. Così Antoine Lieris, giovane marito e padre che ha perso la moglie al Bataclan, potrà dire: mio figlio non crescerà nell’odio, non avrete il mio odio.  In questo impegno di attraversamento non è escluso il fallimento, la sua tenuta. Solo in una pratica collettiva la non violenza potrà dirsi e farsi, parafrasando Butler, e qui intravvedere un antidoto – sostegno affinché quelle parole restino realtà.

Letizia Tommasone ha denunciato i nessi delle parole teologiche con la realtà socioeconomica: seguendo le molte le teologhe (Rita Segat, Donna Haraway, Sally Mac Fague) che hanno studiato il capitalismo in una prospettiva di genere, ha mostrato come sacrificio e voto siano parole che tornano.

Il capitalismo propone il sacrificio di sé perché ciascuno diventi esclusivamente consumatore; e solo con le passioni – come dice Elena Pulcini – potremo sfuggire al capitalismo “apocalittico” di fronte al quale sembriamo non avere possibilità di risposta.

Il vuoto, potremmo dire, è invece la categoria che risulta dall’assenza del capitalismo, dal ritorno a un’economia di sussistenza rispettosa della natura, nella chiara consapevolezza che così come è detto è quasi impossibile. In ogni nostro gesto siamo produttori e produttrici di plastica, vero segno dell’enfasi del consumo capitalistico.

Ma ancora nascita, relazionalità e dipendenza diventano le vie maestre per avviarci nella ripresa di una vita naturale – a cominciare dal mettere in mezzo anche i corpi di quella che chiamiamo natura. Il buon fine non è scontato: Stella Morra nelle conclusioni ricorderà che nessuna vita andrà perduta, ma della barca in cui siamo tutti non abbiamo assicurazione.

Nella mattina, dunque, la riflessione delle diverse teologhe femministe ha offerto i punti altri da cui partire per scoprire ancora una volta i vuoti del testo, mostrando anche tutta la capacità trasformativa della teologia femminista.

Giustizia e rigenerazione

Il tema del pomeriggio sembrava voltar pagina, perché dedicato al tema della giustizia e della costruzione di un ambiente comune. Invece, le parole ascoltate al mattino hanno trovato qui percorsi di prassi offrendo l’interessante impressione di ascoltare un’eco, o meglio: il gusto di individuare un orizzonte performativo.

Donata Horak ha affrontato la giustizia, indicata come diritto dall’articolo 3 della Costituzione italiana e garantita da essa, con l’impegno a rimuovere gli ostacoli affinché ogni cittadino sia rispettato nella propria dignità. Ed è qui il punto importante, perché ogni diritto vive solo se qualcuno lo garantisce. Nel Codice canonico, invece, al canone 208 la pari dignità è affermata, ma non si indica chi debba garantirla.

Tuttavia, in ambito statale come ecclesiale, il concetto di giustizia sembra non sentire l’ingiustizia. Per fare giustizia, invece, occorre stare nella lotta; ma – come si diceva al mattino – senza replicare e moltiplicare violenza e ingiustizia. Sotto questo punto di vista, la giustizia rigenerativa, e non riparativa, per altro ideata da una donna (Jaqueline Morineau) è una giustizia di equi-prossimità, ma che chiede anche una comunità.

E in questa prospettiva è sembrato importante il rilievo sulle nuove norme del Diritto penale canonico, che, in caso di abusi, si preoccupa di isolare i colpevoli senza ancora prendersi carico della situazione di squilibrio che favorisce il triste proliferare degli abusi.

La relazione di Vincenzo Rosito ha confermato come la riflessione femminista sia capace di intercettare e di attivare processi di reciproco arricchimento con ogni riflessione che abbia come attenzione prima quella di non fare del fondamento un recinto mortifero.

Sulla scia di Bruno Latour, ci ha offerto parole efficaci che possono accompagnare l’analisi dei discorsi come delle prassi: irriduzionismo, non riportare tutto a uno schema già conosciuto ed etichettabile, ma spiegare la rete di mediazioni possibili; di due eventi simili non cercare cosa accomuna, ma le diversità; minore – termine tratto dall’architettura, è tale il luogo pensato senza una precisa connotazione, solo l’uso gliene darà uno senza che questa sia predefinita; corrispondere, che non è fondare. Piuttosto è pensiero e gesto che chiede improvvisazione e aggiustamento, perché ciascuno è un attore-rete in grado di fare qualcosa, ma non di determinare il tutto. Ancora una volta, solo l’attenzione reciproca può sperare di allargare il pensiero e l’azione.

Nel complesso così si riesce a entrare in contatto con l’opera viva, espressione marinara per dire della parte di barca che sta sotto l’acqua, e cogliere così l’opera morta, la parte che vediamo dell’imbarcazione, in connessione.

La metafora è stata traslata nel dibattito in quella ecclesiologica, con scivolamenti di significati. E la cosa è interessante per la testimonianza della necessità di procedere non separando ragioni, discipline, prospettive – così come ha cercato di fare l’intero seminario.

L’incertezza

A Stella Morra il difficile compito di raccogliere e intrecciare ulteriormente i percorsi. La citazione di Bonhoeffer, quasi a titolo dell’intervento, non era di maniera ma preveggente: etsi deus non daretur: il ritirarsi di Dio consente l’adultità e, nello stesso tempo, ci insegna il nostro vero stare davanti a Dio marcato da un limite da vivere e scoprire.

È da questa situazione che si pone il tema del discernimento tra un’etica della responsabilità e quella della giustizia. Le due sono superate, non certo hegelianamente, dall’etica della radicalità che oltrepassa il registro oppositivo; ma soprattutto aiuta a stare seriamente nella dimensione dell’incertezza, che definisce la nostra realtà.

Ancora una volta, è cammino possibile se comune, perché nella dimensione comunitaria sono coinvolti tutti, anche chi si colloca in un pensiero binario. La prima sottolineatura presenta un pensiero femminista capace di dare voce e farsi carico di ciascuno, anche se non in immediata sintonia.

L’indicazione, invece, è l’assunzione dell’incertezza che fa di quest’ultima quasi una categoria politica, facendo della teologia femminista una parola politica che si propone di offrire un luogo per pensare la pace che sia comune, per tutti.

Per approfondire si possono riascoltare le relazioni andando sul sito del CTI; ricordando che quello del CTI non è un convegno, ma un seminario in cui a ciascuna/o è chiesto di partecipare, producendo pensiero.

A mo’ di semplice esempio, è ascoltando il richiamo a un’economia di sussistenza che è venuta alla mente l’analisi di Ivan Illich riguardo al mondo industriale, di cui ha ben mostrato l’inganno. Esso ha di fatto impoverito i soggetti, anche quando porta con sé effetti “positivi”. Pensiamo alla critica dello studioso rispetto al sistema medico, o a quello della scolarizzazione. Anche per Illich non si tratta di tornare indietro, sognando un’età dell’oro. Nel volume Il genere, negli anni ottanta, rimproverava alla modernità la costruzione del soggetto astratto. Davanti a questo, Illich prospettava la persona e la comunità conviviale, la cui condizione è l’austerità per evitare eccessi che schiaccino gli altri.

Se rinunciamo a cercare la fionda che uccide il filisteo, possiamo intrecciare una rete sempre più fitta, che qua e là può diventare il tessuto della storia.

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