Un’indagine sul reale significato che deve essere attribuito alla parola incarnazione, di questo si occupa l’ultimo libro di Stefano Fenaroli, La teologia della deep incarnation. Esso investiga, in particolare, il legame tra creazione e cristologia alla luce di una recente ramificazione teologica: quella dell’incarnazione profonda (deep incarnation).
Come viene rimarcato già nella prefazione, questo indirizzo del pensiero cristiano più recente non va considerato una delle tante appendici della scienza biblica, ma un vero e proprio new path for theology. Per meglio dire, lungi dall’essere una nuova declinazione della sistematica che si aggiunge alle infinite altre, essa si identifica piuttosto in un modo nuovo di vedere e approcciare i principali misteri cristiani, come l’ontologia del Cristo, la natura della creazione, la causa dell’incarnazione e la realtà del male.
Il saggio, frutto di un lavoro dottorale discusso alla Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale, inaugura una nuova collana dell’Editrice Queriniana dal titolo «Biblioteca Accademica», espressamente dedicata alle tesi di dottorato.
Un esordio apprezzabile
La ricerca svolta è sicuramente da apprezzare, anche perché rimedia a un colpevole ritardo e colma una lacuna nel panorama teologico italiano, nel quale la deep incarnation è ancora poco sconosciuta, sebbene proprio la Queriniana abbia tradotto e pubblicato alcuni volumi sul tema. Il principale merito del presente volume, quindi, è quello di offrire al pubblico di lingua italiana, per la prima volta, una presentazione organica, completa e sistematica della teologia dell’incarnazione profonda e dei suoi principali interpreti.
Un ulteriore pregio della pubblicazione, anche se inevitabilmente porta con sé la laboriosità e la fucina di pensiero che sempre accompagnano le ricerche dottorali, è quello di non essere pesante, essendo scritto in modo scorrevole e con l’intenzione di essere comprensibile. Le sue non poche pagine, quindi, più che affaticare la lettura danno modo di penetrare a fondo le questioni implicate.
Il volume, inoltre, nell’approfondire la deep incarnation si confronta e critica quel tradizionalismo cristologico che, in nome della conservazione del valore Tradizione, rimane ancorato sul solo schema calcedonense. In virtù della sua comprensione «profonda» dell’incarnazione, però, il saggio non si confronta solo sulla figura di Cristo, ma anche con varie questioni che ruotano intorno alla cosmologia, soprattutto la natura del mondo e la fisica e la biologia contemporanee, in un’ottica di fondo che papa Francesco denominerebbe «sviluppo della dottrina».
La struttura del libro è divisa in due parti: una prima in cui si presenta in sé la deep incarnation e i suoi temi di fondo, ed una seconda in dialogo con la teologia di Paolo Gamberini. Tuttavia, sebbene diviso in due sezioni, il saggio affronta in realtà tre diverse aree tematiche: la presentazione sistematica dei principali autori della teologia dell’incarnazione profonda; un dialogo critico con il monismo relazionale di Gamberini; ed una nuova versione della deep incarnation proposta dallo stesso Fenaroli che si affianca a quella degli altri autori della «scuola».
A livello metodologico, la ricerca si rivela seria e rigorosa, con un’evidente attenzione al metodo genetico, come lascia intendere l’approfondimento biblico e quello patristico. Nei capitoli successivi, però, l’autore dimostra anche una capacità di sintesi e di rilettura sistematica.
Chiude il saggio, infine, una bibliografia ragionata che è strumento indispensabile per tutti coloro che vorranno sviluppare in futuro questa innovativa ramificazione teologica. È auspicabile, infatti, che la teologia della deep incarnation penetri ancor più in profondità nel dibattito contemporaneo e su di essa si apra una discussione che non potrà che apportare proficue spinte di rinnovamento teologico.
La teologia dell’incarnazione profonda (deep incarnation)
L’espressione deep incarnation è stata coniata nel 2001 dal teologo danese Niels Henrik Gregersen, in assonanza con la deep ecology del filosofo norvegese Arne Naess. Questa ramificazione teologica possiede anche, quindi, un fondo ecologico che la rende di estrema attualità.
Essenzialmente, essa riprende la questione del Cur Deus homo, sebbene da un punto di vista diverso da quello della soteriologia tradizionale. Così impostata, una tale teologica risulta essere di assoluta centralità nel panorama contemporaneo, perché non esprime un genitivo teologico tra gli altri, ma un modo di leggere Dio, il cosmo e l’essere dell’uomo da un punto di vista inconsueto: quello della incarnazione. Di ciò dà dimostrazione il fatto che essa interseca discipline diverse, come la cosmologia, la cristologia, la trinitaria, la fondamentale, la soteriologia e, non ultima, l’ecologia.
Nel suo fondo, comunque, la deep incarnation richiede che vengano ripensate due categorie di base: quella di logos e quella di sarx, ed è ciò che Fenaroli fa con uno scavo biblico accurato. L’autore analizza con pari cura, però, anche gli scrittori patristici che risultano funzionali a questo ripensamento cristologico e cosmologico complessivo, a partire da Ireneo di Lione, difensore della realtà della carne assunta dal Verbo, ma anche Atanasio di Alessandria, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa.
Sulla base di questa ampia rassegna di autori patristici, il libro articola varie considerazioni sul linguaggio di Calcedonia, e sulla tendenza ad utilizzare, in cristologia, l’unica lente calcedonense, che, secondo l’autore, avrebbe sclerotizzato il lavoro teologico (cf. 109). In particolare, il rischio implicito in una cristologia troppo “fossilizzata” sul pensiero calcedonense è individuato essere nel pericolo di cadere in una prospettiva troppo univocamente metafisica.
Senza essere una critica al difisismo, quindi, la deep incarnation viene presentata come un modo per ripensarlo, e per liberare la cristologia dalle secche di un impianto troppo astratto, formalistico e ontologizzante (cf. 499).
Due piste
L’indagine teologica interna alla deep incarnation segue due piste: quella della «disputa della cristologia kenotica» e quella dell’odierna attenzione alla visione «panenteista».
Per quanto riguarda la prima, viene sottolineato che la kenosi obbliga a ripensare la Trinità. Come sottolinea Fenaroli
«Le critiche verso una cristologia kenotica intesa come auto-limitazione o auto-svuotamento da parte del Verbo sono numerose, in quanto una simile prospettiva sarebbe contraria al dettato di Calcedonia, oppure metterebbe troppo l’accento sulla preesistenza di Cristo come persona della Trinità, che rinuncia alle proprie prerogative divine per incarnarsi, lasciando così in secondo piano la sua vera umanità» (209).
Per quanto invece concerne la seconda pista, la questione di fondo appare essere
«l’alternativa tra un compatibilismo panenteista, secondo il quale la presenza e l’agire di Dio sono compatibili con l’autonomia e la libertà della creatura in quanto il mondo creato stesso è presente, custodito in Dio, in una relazione reciprocamente costitutiva di Dio e del mondo, e un incompatibilismo kenotico, secondo il quale la compresenza di Dio e della creatura implica necessariamente il libero ritirarsi, lo svuotarsi dell’uno (Dio) per far spazio all’altro (creatura)» (30).
Sulla scia di Gregersen, Fenaroli analizza dunque il concetto di panenteismo, termine coniato nel 1829 dal filosofo idealista tedesco Karl Christian Friedrich Krause. Con un certo margine di genericità, si ritiene abitualmente che questa categoria sia trasversalmente presente tra le religioni mondiali. Essa si accorda, inoltre, con altre teologie piuttosto discusse, come quella del processo di Alfred North Whitehead o la visione di Charles Hartshorne, secondo cui non è più possibile pensare Dio come totalmente altro e sulla base di «una biunivoca interazione tra Dio e il mondo».
Gli autori della teologia dell’incarnazione profonda puntualizzano, però, che è necessario conservare una distinzione netta tra il panteismo, secondo il quale Dio e il mondo si identificano, ed il panenteismo che si limita invece a riconoscere che tutto è in Dio. Per meglio dire, il panenteismo bilancia in maniera più equilibrata trascendenza ed immanenza.
Fenaroli lo rimarca, sottolineando come, nella deep incarnation, non sia implicato nessun monismo semplicistico, proprio perché essa si pone come obiettivo quello di distinguere e precisare la differenza che sussiste tra la presenza di Dio nella storia incarnata di Gesù e quella più generica nella creazione. Al riguardo, l’autore pruntualizza che «la differenza della presenza di Dio in Gesù non è semplicemente una differenza di “grado” rispetto ad altre forme, ma una differenza ontologica» (192).
Ulteriore elemento di novità contenuto in questa teologia è, come evidenza sempre Fenaroli, il
«ripensare la tematica panenteista in dialogo con le scienze della natura, riconoscendo nella categoria di Logos un inatteso punto di contatto con le più recenti scoperte in campo fisico-quantistico. Il parallelismo istruito fra le persone della Trinità e la scientifica triade di informazione (il Logos), massa (il Padre) ed energia (lo Spirito)» (502).
Sono queste varie componenti, in sostanza, gli elementi che rendono la deep incarnation non soltanto attuale, ma anche un terreno inesplorato e una sfida teologica che non si può eludere.
La proposta di Henrik Gregesen
Il libro di Fenaroli rivolge un’attenzione mirata al teologo Niels Henrik Gregersen, professore di teologia sistematica all’Università di Copenhagen, ministro evangelico-luterano della chiesa danese e autore di vari saggi che ruotano intorno a quella che egli stesso ha denominato deep incarnation.
La ricerca in cui il pastore danese si è impegnato è indirizzata verso quella che egli ha definito una «possibile espansione del significato della dottrina dell’incarnazione». Lo studioso, infatti, fa una distinzione tra il significato «basilare» di incarnazione e il suo significato «totale», mettendo in evidenza le differenze che permangono tra una comprensione superficiale dell’incarnazione (skin-deep incarnation) e una concezione più estesa che riprende la questione soteriologica nella sua portata totale (full-scope sense) (cf. 49).
L’aggettivo «profonda», ad ogni modo, sta ad indicare in Gregersen una concezione del Logos divino inteso come modello o principio formativo che ha assunto non solo l’umanità, ma la piena matrice malleabile della materialità (cf. 49). Con esso, in altre parole, egli intende la penetrazione del Cristo nella materia e nella realtà biologica del cosmo.
Ciò conduce il teologo luterano a rigettare, sul piano cristologico, «l’impostazione metafisica di Calcedonia per recuperare il radicamento biblico di una “cristologia dell’identità”» (265).
In Gregersen è dunque presente una cristologia «alta» che acclude Gesù nell’unica identità divina, ragion per cui, a suo avviso, tutto ciò che riguarda l’umanità di Cristo ha a che fare con l’identità di Dio, «includendo così nell’unica identità divina ogni dimensione della vita biologico-evolutiva dell’essere umano, secondo la prospettiva di un’incarnazione realmente profonda» (265).
La deep incarnation, in sintesi, sta ad indicare che Dio entra nel tessuto biologico della creazione stessa, dando vita ad una realtà che non si deve definire panteismo, perché è piuttosto, appunto, una forma di panenteismo. È significativo, ad esempio, che Gregersen si sia distaccato dalla cosmologia della deep ecology proprio perché rigetta una comprensione panteistico-naturalista della realtà.
Un’altra dimensione caratteristica della teologia del danese, inoltre, è la sua condivisione della prospettiva evolutiva, nella misura in cui, come sottolinea Fenaroli, «punto fondamentale e principale dell’impegno di Gregersen è pensare la cristologia in relazione all’evoluzione, all’inclusione della storia di Gesù nella più ampia storia dell’evoluzione del mondo umano e non-umano» (264).
Nella sua ottica, pertanto, creazione ed evoluzione risultano congiunte e finalizzate a dare una risposta sia al male morale che a quello biologico-naturale. Su queste premesse, la riflessione del teologo di Copenaghen risulta essere una sorta di teodicea ed una conciliazione tra immanenza e trascendenza.
Fenaroli, al riguardo, è bravo ad approfondire con cura le varie radici, o fonti, della deep incarnation teorizzata da Gregersen. Il bresciano mette così in risalto il suo legame con la teologia della croce di Lutero, con l’ecologia profonda di Arne Naess, con i lavori di Daniel Lord Smail ed Andrew Shyrock sulla deep history, e, almeno in parte, con Jürgen Moltmann, che lo stesso danese definisce un «precoce ispiratore».
La riflessione teologica gregerseniana, ad ogni modo, è alquanto articolata ed abbraccia svariate tematiche che non possono essere approfondite, come lo scandalo della materia, la teodicea, la sofferenza e l’unicità del Cristo nell’ottica della teologia delle religioni. Ciò che rende il testo di Fenaroli il primo saggio sistematico sulla deep incarnation, però, è che egli non si limita ad analizzare solo la teologia del danese, ma passa in rassegna anche gli altri esponenti di questo movimento.
Nelle pagine del libro troviamo quindi sintetizzata l’opera di Christopher Southgate e la sua deep incarnation nella chiave della teodicea; la versione maggiormente attenta al regno animale di Denis Edwards; il confronto con la sofiologia di Bulgakov di Cecilia Deane-Drummond; e l’impronta femminista di Elisabeth Johnson. È grazie a questa completa panoramica, che il saggio di Fenaroli, oltre ad esserne una presentazione sistematica, si può anche considerare una sorta di storia della deep incarnation.
Un dialogo (critico) con Gamberini
Ha fatto discutere un recente libro del gesuita Paolo Gamberini pubblicato da Gabrielli: Deus duepuntozero. Fenaroli, senza voler entrare in dibattito polemico con lui, ha dedicato la seconda sezione del proprio volume a un confronto critico con la sua visione, denominandola «confronti».
L’autore dichiara di essersi soffermato sulle posizioni di Gamberini non per polemizzare con lui, ma perché i temi della deep incarnation e del monismo relazionale difeso dal gesuita risultano essere vicini. Fenaroli cerca di dimostrare che la deep incarnation è l’argomento più efficace per rispondere – o correggere – il monismo relazionale teorizzato dal gesuita ravennate. Evitando pregiudizialità o controversie aprioristiche, egli tenta di dimostrare che la posizione di Gamberini è troppo sbilanciata verso il monismo, a differenza della deep incarnation il cui panenteismo dimostra invece grande equilibrio ed attenzione dottrinaria.
Opportunamente, comunque, Fenaroli prima ricostruisce le fonti della teologia di Gamberini e le sue intenzioni, e solo dopo svolge degli appunti critici alla sua visione sulla base degli asserti della deep incarnation. Viene appunto messa in risalto come l’intenzione del gesuita ricalchi un progetto ambizioso: quello di tendere ad un nuovo logos per la teo-logia. Si sottolinea, in sintesi, la sua intenzione di creare un nuovo paradigma e la volontà di armare un pensiero trasgressivo, capace cioè di superare stereotipi religioso-culturali e rigidità concettuali.
Per quanto riguarda le fonti su cui risulta appoggiata una tale operazione teologica, Fenaroli le individua nella critica all’analogia presente nel pensiero di Eberhard Jüngel e nella critica al sostanzialismo ontologico. Dal combinato di entrambe, Gamberini ne avrebbe appunto ricavato la necessità di pensare il rapporto tra l’umano ed il divino in chiave relazionale, anziché sostanziale.
La riflessione del gesuita risulta dunque muovere da Jüngel. Questi, fedele discepolo di Barth, ritiene che Dio possa essere pensato solo a partire dalla sua Parola/rivelazione, e non risalendo a lui per via induttiva o trascendentale come fanno le religioni.
Se il linguaggio umano diventa capace di esprimere l’essere di Dio, è appunto perché, secondo il tedesco, Dio stesso viene al linguaggio (cf. 358). Una tale condizione diventa la premessa per una relazione e per una esperienza che sono utilizzate da Gamberini al fine di superare l’ontologia sostanziale sostituendola con un’ontologia relazionale.
La creazione viene così descritta come un rapporto tra Dio e il mondo nel quale Gesù di Nazaret incarna la relazione ad extra di Dio. Sulla base di tale comunicabilità, viene così prefigurata un’identità di fondo tra il Verbo e la creazione.
Nella sua sintesi, Fenaroli non mette in discussione la riflessione sull’analogia di Jüngel o l’ontologia relazionale, critica però gli esiti escatologici a cui arriva Gamberini. Movendo dalla simile, ma diversa prospettiva della deep incarnation, l’autore svolge infatti una critica a quella trasformazione post-teistica della fede cristiana sostenuta dal gesuita che condurrebbe verso una nuova creazione in cui Dio, Spirito, sarà tutto in tutti (cf. 419).
A questo preciso monismo relativo, Fenaroli contrappone la visione di Gregersen che invece trova un discriminante «nell’insuperabile radicamento storico dell’incarnazione». L’autore aggiunge, però, che Gamberini
«si è dimostrato incapace di custodire il peso della libertà di ciascuno – quale determinazione storica di sé di fronte alla verità di Dio rivelata in Gesù –, troppo sbilanciato a comprendere Dio come colui che nel proprio essere ontologicamente relazione col mondo (x=x+y) finisce con l’annichilirlo in sé, in una unità in cui viene meno ogni reale relazione (y=0)» (504).
È in virtù di queste considerazioni, che il pensiero di Gregersen viene presentato come una correzione ed una calibratura delle posizioni di Gamberini, sulla scia della convinzione che il danese
«a partire proprio dalla singolarità di Gesù, delinea una nuova immagine di Dio, a sua volta comprensiva e panenteistica, ma in cui la libertà della creatura è realmente custodita nella sua capacità di dire la verità di Dio, e per questo può trovare in lui il proprio posto, il proprio compimento» (504).
La critica principale che viene rivolta alla riflessione gamberiniana si concentra appunto sull’escatologia, non essendo essa ordinata, com’è invece nella maggior parte dei padri, ad una divinizzazione personalistica. Nel gesuita, infatti, il compimento, anziché coincidere con un’assunzione del mondo creato in Dio, consisterebbe «nel “perdersi”, nell’annientarsi in Dio della creatura, riconoscendo solo nella divinità la possibilità di ogni esistere, e in noi, nella creazione, semplicemente il “nulla”» (422).
Sono vari e diversi, comunque, i temi della teologia di Gamberini toccati da Fenaroli, come il concetto di risurrezione, la differenza tra Gesù e Cristo, l’apofatismo di fondo, e la sua lettura dell’incarnazione intesa come controparte di una relazione che coinvolge allo stesso titolo l’umanità (cf. 422-424).
Anche se l’autore bresciano non lo mette in evidenza, la prospettiva del ravennate risulta affine, a ben vedere, ai monismi indiani, soprattutto quello dell’advaita vedanta. Una tale prospettiva, se seguita alla lettera, segnerebbe effettivamente la fine di ogni personalismo cristiano. Essa, nondimeno, risulta una pista di riflessione interessante, sebbene già battuta sia da quei teologi che hanno dialogato con le metafisiche indo-buddhiste sia da coloro a cui è familiare la mistica neoplatonica.
La questione di fondo rimane comunque l’ontologia e la libertà dell’uomo in rapporto a Dio. La domanda filosofica che emerge – nodo cruciale di ogni misticismo – è quale effettivamente sia la differenza ontologica tra Cristo e l’uomo, perché, alla luce delle considerazioni di Gamberini, come precisa Fenaroli, sembra venir meno l’alterità della relazione tra Dio e l’uomo, considerato espressione finita dell’infinita coscienza di Dio (cf. 424)
La teologia del mondo del Figlio incarnato
Sebbene giovane, Stefano Fenaroli dimostra in questo studio che non gli fa difetto intraprendenza ed intelligenza teologica. Ciò lo si capisce dal fatto che il suo saggio non si limita a presentare la deep incarnation e a reagire alle suggestioni di Gamberini, ma propone anche una propria versione della teologia dell’incarnazione profonda.
La visione da lui denominata teologia del mondo del Figlio incarnato è esposta dall’autore nel settimo capitolo, che è quello in cui maggiormente emerge la sua personalità teologica. In esso si notano il coraggio e la volontà di uscire dalle ingessature di un certo tradizionalismo, intese come qualità intellettuali che possono meglio accompagnare la chiesa nelle sfide che essa è chiamata ad affrontare nella contemporaneità.
Idealmente, il capitolo vorrebbe essere una integrazione e correzione sia alla visione di Gregersen sia a quella di Gamberini. Per essere più precisi, l’intenzione di Fenaroli è quella di mettere mano ad una riformulazione della deep incarnation originaria. Egli lo fa, sostanzialmente, mettendo maggiormente in risalto due elementi: la categoria biblica di mondo e il fondamento trinitario.
Il guadagno nel passaggio dalla «teologia dell’incarnazione profonda del Logos» a una «teologia del mondo del Figlio incarnato» viene appunto spiegata da chi la propone nel più rilevante radicamento biblico e nella maggiore vicinanza culturale rispetto alle astrattezze del linguaggio filosofico greco.
Per quanto riguarda la prima correzione, l’insistenza sul termine mondo è giustificata dal fatto che questo termine evangelico appare inclusivo di tutta la storicità dell’evento Gesù (cf. 505). Il rimando ad esso, inoltre, risulta avere il vantaggio di non essere solo universale, ma anche funzionale a meglio affrontare la categoria del male, la cui insufficiente trattazione è uno dei limiti che l’autore individua nel pensiero di Gregersen, nel quale, come scrive, sembra mancare «una puntuale trattazione attorno al tema del male morale presente nel mondo» (436).
Per quanto invece concerne la seconda correzione, Fenaroli sostiene che un accento maggiormente trinitario darebbe maggiore spessore teologico alla deep incarnation, perché in questo modo
«si riconosce come sia proprio il Figlio a farsi uomo, e quindi carne, in Gesù. In questo senso, la duplice assunzione della sarx al cuore della deep incarnation può essere letta non solo in senso biologico-evolutivo, come assunzione da parte di Dio di tutto ciò che è collegato alla medesima materialità implicata nel suo diventare uomo in Gesù di Nazaret, ma allo stesso tempo nel seno di una teologia della creazione che, in quanto realtà assunta dal Figlio di fronte al Padre (risurrezione), riconosce nel Figlio il luogo trinitario del mondo creato, nell’abbraccio d’amore dello Spirito Santo» (505).
La convinzione base dello studioso bresciano, la cui intenzione è parimenti quella di accordare la cristologia dell’identità divina di Richard Bauckhman con l’incarnazione profonda, si riconduce al fatto che quest’ultima, a suo avviso, deve essere inserita in un orizzonte trinitario e storico, perché senza un tale radicamento la cristologia diventa astratta.
In relazione alle idee di Gamberini, Fenaroli ritorna invece sull’evento kenotico, sottolineando che esso «porta a compimento la comprensione compatibilista della presenza di Dio» (441). Nella sua disamina, cioè, mette insieme la compatibilità-panenteistica con la singolarità dell’evento kenotico dell’incarnazione, in virtù della quale Dio «non si identifica semplicemente con la materia (panteismo) o con una qualche relazione inclusiva in cui, ultimamente, l’altro è ricondotto e «assorbito» in Dio (monismo relativo)» (442).
Le correzioni/integrazioni di Fenaroli risultano quindi semplici, ma decisive, e non va pertanto considerato un mero espositore-sintentizzatore della teologia dell’incarnazione profonda, bensì il primo esponente italiano di questa rinnovativa scuola di pensiero.
Una vera novità?
A margine del libro di Fenaroli e della sua esposizione della teologia dell’incarnazione profonda e della critica al monismo relazionale, una domanda si impone come necessaria: la deep incarnation e il monismo relazionale rappresentano veramente un’effettiva e totale novità?
Entrambe queste due prospettive teologiche, infatti, sembrano trascurare – in modo persino clamoroso – il debito con l’evoluzionismo di Pierre Teilhard de Chardin, nel quale, oltretutto, la deep incarnation trova anche una fondazione e giustificazione sacramentale ed eucaristica.
È opportuno ricordare che il paleontologo francese, ottant’anni prima di Gregersen, si riferiva a quella che il danese denomina incarnazione «profonda» utilizzando il termine pancristismo, definendo poi quest’ultimo panteismo cristiano. Nella sua visione evolutiva, inoltre, la spiritualizzazione della materia coincide con una divinizzazione del cosmo che egli denominava, significativamente, cristificazione o amorizzazione.
Stupisce assai, pertanto, che il suo nome sia latitante, così come l’assenza del concetto di pancristismo, che avrebbe collegato la deep incarnation ad una tradizione filosofico-teologica molto più antica.
Va infatti rimarcato, al di là della presenza di questa categoria nei padri greci – poi raccolta da una certa cristologia filosofica come quella di Xavier Tilliette – che tale prospettiva è stata ripresa, all’inizio del Novecento, da M. Blondel, J. Monchanin e P. Teilhard de Chardin. Il tema, inoltre, oltreché negli autori citati, è presente anche in H. de Lubac, in virtù dell’amicizia con gli ultimi due.
Se, inoltre, la deep incarnation nasce dalla deep ecology di Arne Ness agli inizi degli anni 2000, non si può non segnalare quanto questa prospettiva sia stata anticipata dal lavoro svolto dal monaco camaldolese Robert Hale, che, già agli inizi degli anni Settanta, aveva legato il pancristismo teilhardiano – inteso come incarnazione biologica e quindi profonda del Cristo – alla teologia dell’ecologia[1].
Chi scrive, proprio appoggiandosi ai saggi di quest’ultimo, sosteneva nel maggio del 2012 − ben prima di Laudato si’ − che il pancristismo teilhardiano poteva essere una valida argomentazione teologica per risacralizzare il cosmo[2]. Al convegno, oltretutto, era presente anche Moltmann, il cui intervento venne prontamente ripreso da Rosino Gibellini[3]. Questa nuova declinazione teologica che il mondo anglosassone ha chiamato deep incarnation, quindi, non è assente nel mondo teologico latino, se non altro nei filoni di ricerca che si richiamano a Teilhard de Chardin[4].
Per quanto invece riguarda l’ontologia relazionale, è necessario segnalare che Monchanin, oltre a essere un teorico del pancristismo è stato anche uno dei fondatori del personalismo (e prima ancora dell’idealismo personalista), auspicando, già nei primi anni Trenta, il superamento del sostanzialismo ontologico. Egli si deve pertanto considerare anche un precursore di quell’ontologia trinitaria che è oggi discussa e attuale. Il filosofo lionese, vivendo in un ambiente missionario indiano in confronto diretto col panteismo, l’impersonalismo e l’idealismo del vedanta, descriveva l’essere come co-esse ed esse ad, cercando in questo modo di «spezzare» l’ontologia indiana al fine di far penetrare in essa un discorso personalista e trinitario.
Le sue intuizioni filosofiche sono poi passate a due suoi amici: Henri Le Saux, monaco che ha vissuto un’esperienza yogica, e Raimon Panikkar, il cui cosmoteandrismo (di matrice teilhardiana) si può parimenti definire un panenteismo che si è confrontato, esattamente come i due autori francesi, con la mistica monistica del non-dualismo. Essi sono giunti a conclusioni non dissimili: Le Saux ha descritto un’«advaita cristiana dello Spirito», Panikkar ha invece trasformato il monismo in ontologia relazionale parlando di «a-dualismo».
In sintesi, sia la riflessione sulla deep incarnation che l’ontologia relazionale non possono trascurare la mistica comparata e quelle teologie contestuali nelle quali il messaggio cristiano è stato messo a confronto con l’induismo ed il buddhismo, e persino il taoismo.
Gli autori menzionati, in gran parte sulla scia delle intuizioni originarie di Monchanin, erano arrivati agli scenari oggi discussi dalla deep incarnation e dall’ontologia relazionale già nei primi anni Cinquanta. Non solo ne hanno anticipato le conclusioni, ma vi sono anche arrivati attraverso un percorso di pensiero differente: la teologia dell’immagine di Gregorio di Nissa, l’esicasmo, il palamismo, il pancristismo evolutivo di Teilhard de Chardin, la mistica renano-fiamminga e il personalismo.
Occorre pertanto ribadire che la teologia missionaria che ha dialogato in India con il monismo vedantico – è auspicabile che si cominci a parlare di «Scuola teologica di Shantivanam» in omaggio ai lavori di Upadhyaya, Monchanin, Le Saux, Griffiths e Panikkar – non soltanto ha anticipato la deep incarnation e l’ontologia relazionale, ma le ha persino pensate in maniera comparativa, anche se con minore sistematicità.
È possibile aggiungere, ad esempio, che già Monchanin − cui si deve, secondo de Lubac, una rilettura di Teilhard de Chardin maggiormente equilibrata e dottrinalmente corretta − parlava del Cristo come «il tutto forma» ed «Uno nel molteplice». Il missionario lionese, in altre parole, con largo anticipo rispetto agli autori della deep incarnation, leggeva il logos come in-formazione sulla materia.
Non va dimenticato, per portare un altro esempio, che se Cecilia Deane-Drummond ha messo tale prospettiva a confronto con la teologia di Bulgakov, Monchanin aveva dialogato personalmente con lui. Anzi, il pensatore russo aveva riconosciuto nel collega francese una figura affine che lo aveva compreso più di chiunque altro in vita sua.
Senza approfondire ulteriormente, va comunque messo in evidenza che spesso la rivendicata originalità di tante teologie – non escluse quella della deep incarnation e dell’ontologia relazionale – risulta solo relativa. Ogni protagonismo teologico, cioè, prima di guardare in alto e in avanti, farebbe bene a guardarsi alle spalle per non tradire il debito con coloro che ci hanno preceduti.
Va a merito di Fenaroli, a ogni modo, aver portato questi orizzonti dentro la riflessione teologica italiana. Il suo lavoro, insieme a quello degli autori appena richiamati, aiuteranno a sviluppare non soltanto la teologia dell’incarnazione profonda, ma anche a quella della teologia universale considerata nel suo complesso. La chiesa «in uscita» ha urgente bisogno di una visione come quella della deep incarnation, perché essa si dimostra capace di leggere e raccontare il cristianesimo in modo innovativo.
[1] Cf. R. Hale, Il cosmo e Cristo. Basi di una teologia ecologica secondo Teilhard de Chardin, Edizioni Camaldoli, Arezzo 1973.
[2] Cf. P. Trianni, «Il Cristo come cosmo. Spunti per una teologia ecologica a partire dalla cristologia», in E. Garlaschelli, G. Salmeri, P. Trianni (edd.), Ma di’ soltano una parola Economia, ecologia, speranza per i nostri giorni, EDUcatt, Milano 2013, 37-46.
[3] Dal blog teologico di Queriniana
[4] Teologie attuali in debito con la cristologia di Teilhard de Chardin: D. Edwards, cattolico australiano; N. Gregersen, protestante danese; C. Southgate, anglicano inglese.