Thies Münchow è docente incaricato presso il Dipartimento di teologia evangelica dell’Europa-Universität di Flensburg. Dopo il ciclo quinquennale di studi (musica e teologia evangelica) ha lavorato alla tesi di dottorato che ha difeso col massimo dei voti (Wir machen Sinn. (Post)moderne Bedingungen, Perspektiven und Grenzgängen theologischer Hermeneutik). Svolge attività di ricerca sugli incroci fra filosofia postmoderna, teologia e fenomeni culturali nell’Europa contemporanea. Co-direttore del gruppo di lettura evangelico-cattolico “Teologia e Cultura” recentemente fondato presso la Europa-Universität di Flensburg.
Nell’introduzione al volume Tra naturalismo e Religione Jürgen Habermas afferma che le «tradizioni religiose svolgono fino a oggi il compito di articolare una consapevolezza di quello che manca».[1] In tal modo si intende che il pensiero di diverse tradizioni religiose, nelle loro differenti forme, contiene potenzialità virtuali che, come abbozzi, possono giocare un ruolo nella negoziazione di discorsi reali (politici, etico-morali, sociali).
Un esempio maggiore per questo potenziale è la dinamica tra una visione teologica di una creazione divina, da un lato, e una comprensione del mondo naturalistica, dall’altro. Quello che è qui all’opera (idealmente) non è la rappresentazione a fini razionali di un’uniformazione metodologica di ambiti scientifici diversi tra loro, sotto la dittatura di un principio meta-narrativo; quanto, piuttosto, la dinamica di due modi incommensurabili di interpretazione nell’ottica di sfide e questioni che il mondo reale, abitato da uomini e donne, pone al pensiero umano.
La sfera dei saperi
Qualcosa che riguarda, quindi, le scienze in generale. Come si posiziona, in specifico, la teologia? In che modo essa può contrassegnarsi come moderna scienza (umana)? E quali prospettive la teologia può mettere in circolo nel discorso pubblico rispetto a «quello che manca»?
Se si segue il filo della rappresentazione generalizzante di potenzialità virtuali delineata da Habermas, allora ci si trova quasi subito confrontati con un’obiezione che ne relativizza la portata. Ossia, il fatto che non si tratta di una caratteristica propria solo ai discorsi teologici-religiosi. Per poter portare il loro contributo nel discorso pubblico tali potenzialità devono essere comunicabili.[2] A questo consegue che le dimensioni della fede personale si trovano qui a un livello subordinato, perché non sono semplicemente trasferibili/traducibili in maniera da toccare la sfera pubblica (non religiosa).
Il repertorio dei discorsi religiosi si presenta quindi nel seguente modo: da una parte, essi offrono un ampio bacino di storie, narrazioni, immagini, rituali, tradizioni e fenomeni, che, d’altra parte, trovano il loro appoggio su una dimensione di fede attraverso la quale quel bacino viene accreditato con una sorta di stato speciale (dal latino accredere: donare fede). Stato che, in quanto “fede”, rimane tuttavia incommensurabile (e con questo un fenomeno tra i fenomeni).
Le culture (e le società in vista dei loro orizzonti culturali) possono però ricorrere in generale a storie, immagini e così via. Qui vanno ricordate, in particolare, l’arte e la letteratura che, accanto a un catalogo redatto storicamente, possono offrire anche un potenziale dinamico e contemporaneo. Diventa quindi chiaro che non si dà alcuna posizione privilegiata della sfera religiosa in questo caso.
L’incommensurabile
Ma proprio qui si apre uno spazio per il potenziale della teologia come scienza dell’incommensurabile (come la chiamerei io). Cosa questo voglia dire, si rispecchia nell’auto-comprensione metodologica della teologia stessa. Il lavoro scientifico (logia) su quello che viene mostrato attraverso la parola Dio (theos) deve cautelare se stesso nel senso di una profonda discrezione. Con la questione della parola Dio, la teologia si espone infatti, in maniera paradigmatica, alla più estrema difficoltà del suo mestiere di scienza umana: quello dell’incommensurabilità.
Questa incommensurabilità nella teologia non fa però capolino, come nella fede, quale momento accidentale dell’interazione sociale, ma come momento costitutivo della scienza stessa. La teologia cristiana rispecchia tutto ciò in maniera estremamente chiara. La theo-logia si trova davanti alla sfida dell’a-logion del cristianesimo. Tale alogon è dato in primo luogo attraverso il Dio monoteista che è indicibile (ineffabile) e non rappresentabile (perfino iconoclasta).
In secondo luogo, l’alogon del cristianesimo viene dal pensiero paradossale dell’incarnazione che, nel quadro della più antica interpretazione teologica tramandata (quella di Paolo), prende la forma della kenosis, ossia dello svuotamento o addirittura della de-divinizzazione di Dio. Mentre i miti e le storie bibliche sono in grado di reggere questo tipo di incommensurabilità, la teologia su questo punto deve ricorrere a un logos per rendere comprensibile l’impensabile/ineffabile.
Il paradosso che è la teologia
Nei tentativi della Chiesa antica di inventare Trinità e cristologia, e di consolidarle in maniera logica e dogmatica, l’incommensurabile finisce per cadere al di fuori della visuale della ragione teologica;[3] che però in tal modo riuscì a integrare una razionalità filosofica mediante la quale si appropriò di un linguaggio che la rese capace di argomentazione razionale.
La teologia ha quindi un doppio volto. In quanto scienza (umana), la sua trasparenza, coerenza e consistenza metod(olog)ica viene meno. Allo stesso tempo, però, essa radica il suo potenziale nel bacino mitico-narrativo di quello che, complessivamente, potremmo definire l’abramitico e l’antico. Ma anche questo è il caso particolare di uno schema generale. Dietro ogni metodo scientifico si nasconde una storia (o un insieme di narrazioni), che dà senso a quel metodo e senza il quale esso non si darebbe affatto.[4]
Il pensiero teologico, però, mette in luce questo fenomeno scientifico-discorsivo in maniera essenzialmente più evidente rispetto a quanto non facciano le altre singole scienze, così preoccupate dalla questione dell’oggettività. Anche se questa consapevolezza emerge dapprima nel modo della contestazione da parte della razionalità dello spirito illuminato, la teologia moderna assume la sua costituzione paradossale e si apre veramente a essa.
Una ragione auto-critica
Il mondo del pensiero teologico dell’illuminismo mostra tutto ciò in una maniera esemplarmente più che chiara: anziché rispondere con atteggiamenti di rifiuto e di reazione opposta, la ragione teologica diviene il catalizzatore di una ragione dinamica e auto-critica (tra i padrini di questa impresa possiamo annoverare Schleiermacher, Schelling, Hölderlin, Kierkegaard). L’indisponibilità del «fondamento sufficiente» diviene punto cruciale del lavoro di pensiero teologico e filosofico, sviluppando così il potenziale critico e di ricalibrazione della teologia illuminista.
Quest’ultima, infatti, costituisce anche un punto di leva attraverso il quale narrazioni e aspetti religiosi possono trovare accoglienza nel discorso, condotto razionalmente, della modernità. In tal modo, l’integrazione dell’incommensurabile rappresenta il valore formale della teologia per il discorso pubblico.
Un argomento, questo, introdotto anche da Habermas, nella sua comprensione del discorso pubblico come un «processo complementare di apprendimento» della «coscienza pubblica», che «comprende mentalità religiose e mondane differite».[5] Qui anche l’incommensurabile e l’autenticamente religioso devono giungere al diritto di considerazione.[6] Sotto gli aspetti formali della «situazione ideale di comunicazione linguistica», che Habermas ha in mente, è facile a dirsi. Ma come è possibile realizzarlo in condizioni concrete e reali (quindi non ideali)?
Il non rappresentabile e il differire della parola
Come scienza dell’incommensurabile la teologia può qui assumere un ruolo sia sul piano formale che su quello dei contenuti. Sul piano formale, la teologia, che fin dai primi momenti ha dovuto assumere ed elaborare anche un dotto discorsivo di carattere razionale e argomentativo (dal discorso sociale delle lettere di Paolo fino a quello filosofico dell’apologetica), può e deve mostrare, anche in un’epoca post-secolare, apertura e mentalità argomentativa. Come già accennato, proprio la teologia (post)illuminista è un esempio per un’auto-critica interna della singola scienza.
La sua suddivisione in discipline specifiche assicura, da un lato, la pretesa empirica delle scienze moderne (lavoro storico-critico sul testo e sui fenomeni) e, dall’altro, anche un’auto-critica ermeneutica della propria tradizione (teologia sistematica e teologia fondamentale).[7] Proprio quest’ultimo fa emergere il lavoro teologico, in prospettiva formale, come esempio della discorsività moderna. Per quanto concerne un approccio costruttivo alle narrazioni personali e alle prospettive soggettive, la teologia può mettere in campo un’operatività che ha la stessa forza dell’ermeneutica filosofica (le due si distinguono solamente sotto il punto di vista dello spettro del loro sfondo storico-narrativo di irradiazione).
Per quanto riguarda il contenuto, se l’insieme delle singole scienze agisce davanti all’orizzonte delle loro proprie singole storie, allora il pensiero teologico (e non solo quello cristiano) si profila con una particolare evidenza in quanto, accanto a queste narrazioni implicite, si riferisce anche a un corpo testuale mitico-letterario concreto ed esplicito, che vale inoltre come canonico e santo. La funzione fondante e strutturante di queste storie mitiche, come emerge nella sfera della vita religiosa, rappresenta anche uno slancio del pensiero teologico.
In corrispondenza alla propria auto-critica metodologica, la teologia non può però attuarsi in maniera semplicistica, ribaltando il rinvio fondante al mito letterario canonico in una fondazione ultima (fondamentalista). Al contrario, essa si muove lungo lo snodo di diacronia e sincronia, di ordine simbolico e riorganizzazione scientifica – in breve, di mito e logos.
In questo modo la teologia non può né fissare una volta per tutte le sue argomentazioni e il suo metodo, né può consegnarsi a un pensiero di illimitato e autoreferenziale progresso e sviluppo. Piuttosto, la sua competenza risiede nella capacità di prendere decisioni in situazioni concrete, di posizionarsi nello spazio pubblico ed edificare forme del giudizio – e, in tutto questo, di mantenere un’apertura discorsiva e un’integrità scientifica, di integrarsi e di fare proprie le tematiche più pressanti che scorrono nella società.
In maniera del tutto opposta a un pensiero fondamentalista e ideologico, che vuole giungere a un superamento definitivo dell’opposizione discorsiva e delle incertezze/instabilità sociali (sotto il manto di un’illusoria immagine del mondo), la teologia si attua come critica delle ideologie rinviando con decisione all’aspetto dell’ineffabile e non rappresentabile presupposto a cui essa è legata. Per quanto riguarda il dibattito pubblico, questo significa che la teologia, rispetto al suo fondamento indisponibile, gioca a carte scoperte, da un lato, e in tal modo, dall’altro, mette in circolo in maniera feconda per il dibattito pubblico il fattore, a prima vista sospetto, dell’incommensurabile.
Un secondo mito
In tal modo l’elemento che essa, in prima battuta, fa apparire come estraneo al mondo diventa fattore integrale per il suo votarsi alla socialità umana del mondo – che essa non ricopia da altri né trasfigura da sé. Che questo modo dell’applicazione della ragione teologica si trovi già posto nel fondo delle sue storie, diventa chiaro se si legge l’Antico e il Nuovo Testamento come un (quasi psicoanalitico) secondo mito. Infatti, i miti biblici narrano anche la storia dell’(auto-)giudizio di Dio.
La creazione dal nulla, quella della donna, il Patto, la Nuova Alleanza, l’incarnazione, la morte in croce, la risurrezione, l’ascensione, la promessa – il mito stesso fa e fa vedere: con gli ordinamenti esistenti del mondo si può ben rompere, ma questo mondo non deve essere con ciò negato.[8] La ragione divina non è assoluta, essa è pronta e disponibile alla negoziazione e al ripensamento (metanoia). «Il mito stesso è un pezzo di alta caratura dell’elaborazione del logos».[9]
Il contenuto mitico della teologia può essere portatore dell’incommensurabile, ma il tal modo esso configura l’accesso poetico a una dimensione della ragione che, al di là della regolazione formale del discorso, si ritrova sempre in un ordinamento (kosmos) che la rende capace di un agire partecipativo concreto. Il nesso scoperto di mito e logos determina il valore del contributo teologico al dibattito pubblico.
[1] J. Habermas, Zwischen Naturalismus und Religion. Philosophische Aufsätze, Frankfurt/M. 2005, 13.
[2] Cf. J. Habermas, “Glauben und Wissen. Friedenspreisrede 2001”, in: ders., Zeitdiagnosen. Zwölf Essays, Frankfurt/M. 2003, 249-262.
[3] Si veda l’elenco delle aporie teologiche in K. Flasch, Warum ich kein Christ bin. Bericht und Argumentation, München 2013, 257ff.; o anche Ch. Hartshorne, Omnipotence and Other Theological Mistakes, Albany 1984.
[4] Come afferma R. Musil: «Da pura induzione, solo a partire da dati di fatto, nelle scienze naturali puramente razionali non si costruisce alcuna teoria. A partire da casi singoli non si troverà mai la legge universale regolativa senza aiuto di un pensiero che va in direzione opposta. Pensiero che originariamente include sempre un atto di fede, di fantasia, di accoglienza […]» (R. Musil, Gesammelte Werke, Bd. 8, Essays und Reden, hg. v. Adolf Frisé. Hamburg 1978, 1379s.). G. Steiner formula la stessa idea positivamente: «Tutto è iniziato con la poesia e non si è poi molto allontanto da essa» (Gedanken dichten, Frankfurt/M. 2011, 38).
[5] Cf. Habermas (2005), 116.
[6] Ivi, 136.
[7] Cf. H. Rosenau, “Vom Sinn des Systematischen in der Theologie”, in: P. David (Hg.), Theologie in der Öffentlichkeit. Beiträge der Kieler Theologischen Hochschultage aus den Jahren 1997 bis 2006, Hamburg 2007, 161-176, 162.170.
[8] Su questo si veda ad esempio S. Žižek, Das fragile Absolute. Warum es sich lohnt, das christliche Erbe zu verteidigen, übers. von N.G. Schneider, Berlin 2000, 124-138.
[9] H. Blumenberg, Arbeit am Mythos, 5. Aufl., Frankfurt/M. 2017, 18. Si veda anche l’osservazione di M. Frank rispetto al fatto che la teoria critica, sotto l’aspetto del mitologico, poteva e può anche attuarsi come teoria estetica (cf. Der kommende Gott. Vorlesungen über die Neue Mythologie, Frankfurt/M. 1982, 221).
Per il dibattito sulla teologia, vedi anche:
Marcello Neri, Teologia oggi: paradosso e ripensamento, 11 maggio 2017.
Michele Giulio Masciarelli, La teologia: passione per Dio, passione per l’uomo, 24 maggio.
Jakob Deibl, La teologia: una lettera amica, 8 giugno.
Christoph Theobald, Teologia: il sapore dei giorni, 23 giugno.
Andrés Torres Queiruga, Siamo gli “ultimi cristiani”… premoderni, 27 giugno.
Gerrit Spallek, Teologia: miglior attrice non protagonista, 23 luglio.
James McCartin, Teologia e l’innominato desiderio dei cuori, 27 agosto.
Christian Bauer e Zekirija Sejdin, Teologia fra religioni: punti fermi, 4 settembre.
Anna-Lena Schenk, Teologia: volto-a-volto con il nostro tempo, 7 settembre.
Maurizio Rossi, Urgenze pastorali in Europa, 11 ottobre.
Johanna Geueke, Trasformazioni della teologia, 19 ottobre.
Michele Giulio Masciarelli, Elogio (non retorico) della teologia, 11 novembre.
Marcello Neri, Il malessere della teologia, 12 dicembre.
Antonio Torresin, Scrivere alla propria gente. Fare teologia nella città, 27 dicembre 2017.
Elsa Antoniazzi, La lettera e la teologia femminista, 18 gennaio 2018.
Jakob Deibl, La lettera, genere originario della teologia, 9 febbraio 2018.
Theologie und öffentlicher Diskurs
In der Einleitung zum Sammelband „Zwischen Naturalismus und Religion“ schreibt Jürgen Habermas, „[r]eligiöse Überlieferungen leisten bis heute die Artikulation eines Bewusstseins von dem, was fehlt“[i]. Damit ist gemeint, dass das Denken unterschiedlicher religiöser Traditionen in ihren diversen Formen virtuelle Potenziale enthält, die als konstruktive Entwürfebeim Aushandeln realiter bestehender (d.h. politischer, ethisch-moralischer, sozialer) Diskurse wirken können. Ein prominentes Beispiel für ein solches Potenzial bietet die Dynamik zwischen dem schöpfungstheologischen Gedanken einer göttlichen creatio auf der einen und einer naturalistischen Weltdeutung auf der anderen Seite. Hier wirkt (im Idealfall) nicht die zweckrationale Vorstellung einer methodologischen Vereinheitlichung unterschiedlicher Wissenschaftsbereiche unter der Diktatur eines metanarrativen Prinzips, sondern die Dynamik zweier inkommensurabler Deutungsmodi im Hinblick auf Herausforderungen und Fragen, die die wirkliche, von Menschen bewohnte Welt dem menschlichen Denken aufgibt. Dieser Sachverhalt betrifft daher Wissenschaften generell. Wie ist es nun im Speziellen um die Theologie bestellt? Wodurch zeichnet sie sich als moderne (Geistes)Wissenschaft aus (1) und welche Perspektiven von „dem, was fehlt“ kann sie den öffentlichen Diskursen verschaffen (2)?
(1) Denkt man Habermas’ verallgemeinernde Vorstellung von virtuellen Potenzialen weiter, so ergibt sich rasch der relativierende Einwand, dass es sich hierbei keinesfalls um ein Alleinstellungsmerkmal religiös-theologischer Diskurse handelt. Solche Potenziale müssen, um im öffentlichen Diskurs zur Aushandlung bestehender Fragen beitragen zu können, kommunizierbar sein.[ii] Dies hat zur Folge, dass die Dimension des persönlichen Glaubens sich hier unterordnen muss, da sie schlicht und ergreifend nicht übertragbar ist. Das Repertoire der religiösen Diskurse stellt sich daher wie folgt dar: Einerseits bieten sie einen umfangreichen Fundus an Geschichten, Narrativen, Bildern, Ritualen, Traditionen und Phänomenen, die andererseits auf einer Glaubensdimension ruhen, wodurch jenen tatsächlich eine Art Sonderstatus akkreditiert (lat. accredere, Glauben schenken) wird, die als ‚Glaube’ selbst allerdings inkommensurabel bleibt, und damit ein Phänomen unter Phänomenen. Auf Geschichten, Bilder und dergleichen aber können Kulturen (bzw. Gesellschaften mit Blick auf ihre/n kulturelle/n Horizont/e) generell zurückgreifen: Hier sind besonders Literatur und Kunst hervorzuheben, die neben einem historisch-redigierten Katalog auch aktivisches, zeitgenössisches Potenzial bereitstellen. Keine Spur also von einer Sonderstellung der religiösen Sphäre.
An dieser Stelle aber zeigt sich nun das Potenzial der Theologie als derWissenschaft vom Inkommensurablen, wie ich es nennen möchte. Was das genau heißt, spiegelt sich im methodologischen (Selbst)Verständnis der Theologie wider: Die wissenschaftliche Arbeit (logia) an dem, was durch den Begriff Gott (theos) angezeigt wird, muss sich selbst zur Obacht ermahnen. Mit der Frage nach dem Begriff Gott nämlich setzt sich die Theologie paradigmatisch der größten Schwierigkeit ihres geisteswissenschaftlichen Metiers aus, und zwar der Inkommensurabilität. Diese tritt hier allerdings nicht wie beim Glauben als akzidentelles Moment sozialer Interaktion auf, sondern als konstitutives Moment der Wissenschaft selbst. Die christliche Theologie spiegelt das überdeutlich wieder: Die theo-logia steht vor der Herausforderung des a-logon des Christentums. Dieses alogon ist zum einen durch den monotheistischen Gott gegeben, der unsagbar (ineffabel) und undarstellbar (sogar ikonoklastisch) ist; zum anderen durch den paradoxen Gedanken der Inkarnation, die im Rahmen der ältesten (überlieferten) theologischen Auslegung, nämlich der des Paulus, die Gestalt der kenosis, d.h. als Entleerung oder gar Entgottung Gottes, annimmt.Während diebiblische Mythen und Geschichtendiese Art Inkommensurabilität auszuhalten imstande sind, muss die Theologie an dieser Stelle auf einen logos zurückgreifen, um das Undenkbare begreifbar zu machen. Bei den altkirchlichen Versuchen, Trinität und Christologie zugleich zu erfinden und logisch sowie dogmatisch zu konsolidieren, geriet das Inkommensurable so zwar zunächst aus dem Blickfeld der theologischen Vernunft,[iii] dafür aber integrierte sie eine philosophische Rationalität, wodurch sie sich eine Sprache aneignete, die sie zu vernünftiger Argumentation befähigt.
Die Theologie zeigt sich also doppelgesichtig: Als (Geistes)Wissenschaft ist ihr method(olog)ische Transparenz, Kohärenz und Konsistenz aufgegeben. Gleichzeitig aber fußt ihr Potenzial in dem mythisch-narrativen Fundus dessen, was man umfassend mit den Begriffen des Abrahamitischen und Antiken bezeichnen kann. Dies ist allerdings auch wieder ein spezieller Fall eines generellen Schemas: Hinter jeder wissenschaftlichen Methode steckt eine Geschichte (oder ein Komplex von Narrativen), die ihr Sinn verleiht, und ohne den es sie gar nicht gäbe.[iv] Das theologische Denken aber bringt dieses wissenschaftlich-diskursive Phänomen wesentlich deutlicher ans Tageslicht, als es beispielsweise die um Objektivität bemühten Einzelwissenschaften tun. Auch wenn dieses Bewusstsein zunächst unter dem Aspekt der Anfechtung durch die Rationalität des aufklärerischen Geistes hervortritt, nimmt sich die moderne Theologie ihrer paradoxalen Verfassung an bzw. öffnet sich ihr regelrecht. Die theologische Gedankenwelt der Aufklärung beispielsweise macht dies überdeutlich: Anstatt mit Ablehnung und Reaktionismus zu antworten, wird die theologische Vernunft zum Katalysator einer dynamischen und selbstkritischen Vernunft. (Schleiermacher, Schelling, Hölderlin und Kierkegaard stehen hier Pate.) Die Unverfügbarkeit des ‚zureichenden Grundes’ wird zur Schnittstelle theologischer und philosophischer Denkarbeit und entfaltet damit das kritisch-revisionistisches Potenzial der aufklärerischen Theologie; denn diese bildet zugleich auch einen Achsenpunkt, über den vermittelt religiöse Befunde und Narrative Aufnahme in die vernunftgeleiteten Diskurse der Moderne finden können. Damit stellt die Integration des Inkommensurablen den formalen Wert der Theologie für öffentliche Diskurse aus.
(2) Dieses Argument bereitet auch Habermas vor, wenn er den öffentlichen Diskurs als einen „komplementären Lernprozess“ des „öffentlichen Bewusstseins“ begreift, das „phasenverschoben religiöse wie weltliche Mentalitäten erfasst“.[v] Dabei soll folglich auch das Inkommensurable und das authentische Religiöse zu seinem Recht auf Anhörung kommen.[vi] Unter formalen Aspekten der „idealen Sprechsituation“, die Habermas vorschweben, ist dies leicht gesagt – aber wie lässt es sich umsetzen? Als Wissenschaft vom Inkommensurablenkann die Theologie dabei eine Rolle sowohl auf formaler (a) als auch auf inhaltlicher Ebene (b) einnehmen.
(a) Die Theologie, die von der ersten Stunde an auch den vernünftig-argumentativenSprachduktus pflegen musste (vom gesellschaftlichen Diskurs der Paulusbriefe bis zum philosophischen der Apologetik), kann und muss auch im postsäkularen Zeitalter argumentative Offenheit und Aufgeschlossenheit beweisen. Wie oben bereits angedeutet, ist gerade die (nach)aufklärerische Theologie ein Beispiel für intragenerische Selbstkritik einer Einzelwissenschaft. Ihre Unterteilung in Fachbereiche sichert dabei einerseits den empirischen Anspruch moderner Wissenschaftlichkeit (historisch-kritische Arbeit an Text und Phänomen), andererseits aber auch eine hermeneutische Selbstkritik der eigenen Tradition (Systematische Theologie/Fundamentaltheologie).[vii]Gerade Letztere lässt die theologische Arbeit unter formalen Gesichtspunkten als Beispiel moderner Diskursivität hervortreten: Hinsichtlich des konstruktiven Umgangs mit persönlichen Narrativen und subjektiven Perspektiven im Kontext wissenschaftlicher Arbeit ist sie ebenso leistungsstark wie die philosophische Hermeneutik – beide unterscheiden sich lediglich unter dem Gesichtspunkt des Spektrums ihrer historisch-narrativen Hintergrundstrahlung. Die Theologie tritt hier mit der paradigmatischen Forderung nach intra- und interdisziplinärerErörterung undAushandlungauf.
(b) Wenn sämtliche Einzelwissenschaften vor dem Horizont ihrer jeweiligen Geschichte(n) agieren, so sticht das theologische Denken (und zwar nicht nur das christliche) dadurch heraus, als dass es neben diesen impliziten Narrativen zudem auf einen expliziten und konkreten mythisch-literarischen Textkorpus zurückgreift, nämlich den des Alten und Neuen Testaments, der zudem als kanonisch und heilig gilt. Die begründende und strukturierende Funktiondieser mythischen Geschichten, wie sie etwa in der Sphäre des religiösen Lebens auftritt, ist nun zweifellos auch ein Impetus des theologischen Denkens. Entsprechend ihrer methodischen Selbstkritik aber, kann die Theologie es sich an dieser Stelle allerdings nicht einfach machen und in (fundamentalistische) Letztbegründung abdriften. Im Gegenteil, vielmehr bewegt sie sich auf der Schnittstelle von Diachronem und Synchronem, vonsymbolischer Ordnung und wissenschaftlicherReorganisation, kurz, von Mythos und Logos.
Damit kann ihr weder aufgegeben sein, ihre Argumente oder ihre Methode ein für allemal zu fixieren, noch, sich einem uneingeschränkten, selbstreferenziellen Fortschritts- und Entwicklungsdenken hinzugeben. Stattdessen liegt ihre Kompetenz in der Fähigkeit, konkrete Entscheidungen zu fällen, sich zu positionieren und normative Urteile zu bilden, dabei diskursive Offenheit und wissenschaftliche Integrität zu bewahren, sich zu integrieren und der virulenten Themen der Gesellschaft anzunehmen. Ganz im Gegensatz zu ideologischem/fundamentalistischem Denken, dem es um die endgültige Auflösung diskursiver Opposition und gesellschaftlicher Unklarheiten unter dem Deckmantel eines illusorischen Weltbildes geht, agiert die Theologie ideologiekritisch, indem sie vehement auf den Faktor des ungreifbaren Vorausgesetzen verweist, auf den sie ja angewiesen ist.Mit Blick auf den öffentlichen Diskurs bedeutet dies, dass die Theologie hinsichtlich ihres narrativen Fundaments einerseits mit offenen Karten spielt und dadurch andererseits den zunächst suspekten Faktor, den das Inkommensurable bildet, handhabbar und für den Diskurs fruchtbar macht. Damit wird das Element, das sie zunächst weltfremd erscheinen lässt, zu einem integralen Faktor für ihreHinwendung zur gesellschaftlichen Lebenswelt, die sie weder abschreibt noch verklärt.
Dass diese Art des theologischen Vernunftgebrauchs im Grunde ihrer Geschichten bereits angelegt ist, zeigt sich, wenn man das AT und NT als einen (quasi psychoanalytischen) sekundären Mythos liest: Denn die biblischen Mythen erzählen auch die Geschichte der (Selbst)Evaluation Gottes. Die Schöpfung aus dem Nichts, die Erschaffung der Frau, der Bund, der neue Bund, die Menschwerdung, der Tod am Kreuz, die Auferstehung, die Himmelfahrt, die Verheißung –der Mythos selbst macht vor: Mit den bestehenden Ordnungen der Welt kann zwar gebrochen werden, diese Weltmuss dabei aber nicht verneint werden.[viii]Die göttliche Vernunft ist nicht absolut, sie ist bereit zur Aushandlung und zum Umdenken (metanoia).„Der Mythos selbst ist ein Stück hochkarätiger Arbeit am Logos.“[ix]Der mythische Gehalt der Theologie mag Träger des Inkommensurablen sein, aber dadurchbildet er den poetisch vermittelten Zugang zu einer Dimension der Vernunft, die sich jenseits formaler Diskursreglements immer schon in einer Ordnung (kosmos) wiederfindet und sie zur konkreten Aktion und Teilnahme befähigt.Die offengelegte Verschmelzung von Mythos und Logosmacht den Wert des theologischen Beitrags zum öffentlichen Diskurs aus.
[i] J. Habermas, Zwischen Naturalismus und Religion. Philosophische Aufsätze, Frankfurt/M. 2005, 13.
[ii] Vgl. J. Habermas, „Glauben und Wissen. Friedenspreisrede 2001“, in: ders., Zeitdiagnosen. Zwölf Essays, Frankfurt/M. 2003, 249-262.
[iii] Vgl. exemplarisch die Auflistung theologischer Aporien in K. Flasch, Warum ich kein Christ bin. Bericht und Argumentation, München 2013, 257ff.; oder auch Ch. Hartshorne, Omnipotence and Other Theological Mistakes, Albany 1984.
[iv] Dies zeigt z.B. Robert Musil: „Aus reiner Induktion, bloß aus den Tatsachen heraus, läßt sich nicht einmal in den rein rationalen Naturwissenschaften eine Theorie erbaun; niemals wird aus den Einzelfällen das allgemeine, regelnde Gesetz gefunden ohne Hilfe eines in entgegengesetzter Richtung verlaufenden Gedankens, der anfangs immer ein Akt des Glaubens, der Phantasie, der Annahme einschließt[.]“ (R. Musil, Gesammelte Werke, Bd. 8, Essays und Reden, hg. v. Adolf Frisé. Hamburg 1978, 1379f.) Positiv formuliert den Gedanken George Steiner: „Alles begann mit Dichtung und hat sich nie sehr weit davon entfernt.“ (Gedanken dichten, Frankfurt/M. 2011, 38).
[v] Vgl. Habermas (2005), 116.
[vi] Ebd. 136.
[vii] Vgl. H. Rosenau, „Vom Sinn des Systematischen in der Theologie“, in: P. David (Hg.), Theologie in der Öffentlichkeit. Beiträge der Kieler Theologischen Hochschultage aus den Jahren 1997 bis 2006, Hamburg 2007, 161-176, 162.170.
[viii] Vgl. dazu z.B.S. Žižek, Das fragile Absolute. Warum es sich lohnt, das christliche Erbe zu verteidigen, übers. von N.G. Schneider, Berlin 2000, 124-138.
[ix] H. Blumenberg, Arbeit am Mythos, 5. Aufl., Frankfurt/M. 2017, 18. Zu erinnern wäre hier auch an M. Franks Befund, dass die Kritische Theorie unter dem Aspekt des Mythologischen auch als Ästhetische Theorie wirken konnte bzw. kann (vgl. Der kommende Gott. Vorlesungen über die Neue Mythologie, Frankfurt/M. 1982, 221).
Thies Münchow ist Dozent am Seminar für Evangelische Theologie der Europa-Universität Flensburg.