Nel capitolo 18esimo del libro divulgativo di Roberto Battiston, La prima alba del cosmo leggiamo: «Sulle origini e l’evoluzione dell’universo dobbiamo evitare di cadere nel classico errore dell’ubriaco, che si mette a cercare le chiavi sotto il lampione, pur avendole perse altrove, solo perché quella zona è l’unica a essere illuminata. […] Il fatto è che le prime stelle e supernove costituiscono in effetti la parte visibile del lavorio incessante della gravità a tutte le scale. Ma nel cosmo vi è molto di più. Vi sono delle parti invisibili, altrettanto, se non più, importanti, che è necessario prendere in esame se vogliamo capire in che modo l’universo è evoluto fino ai nostri giorni».
La natura ci riserva sorprese che meravigliano sia il credente sia il non credente. Ad entrambi essa chiede una spiegazione su fatti che vanno contro l’intuizione giornaliera o che ci sfuggono e siamo soliti mettere nella categoria mistero. Ma tale categoria, prima che a fatti singoli stupefacenti, si riferisce a realtà di carattere molto generale, in primis a tutta la nostra esistenza che, se indagata nel profondo, ci lascia sempre a bocca aperta.
Per fare un po’ di luce su questi argomenti il 12 maggio si sono dati appuntamento diversi professori alla Pontificia Università Lateranense, per verificare la «fattibilità» di un connubio tra teologia e scienza che porti ad un rinnovato impegno comune per la ricerca.
Il mistero
«Aprire finestre» che mettano in comunicazione discipline e punti di vista differenti: è questa la proposta con cui esordisce il prof. Giuseppe Lorizio, docente di Teologia Fondamentale alla PUL (cf. articolo su Avvenire). E uno dei temi che si prestano a tale analisi transdisciplinare è sicuramente l’attuale dibattito sulla materia oscura: un gran parte invisibile dell’universo che da alcuni anni è al centro della riflessione e degli esperimenti che la comunità scientifica intraprende nell’impervio cammino della conoscenza e della verità.
Già dagli anni Settanta del secolo scorso, alcune «sentinelle» si erano accorte del non trascurabile ammanco di massa. Ad esempio l’astronoma Vera Cooper Rubin, pioniera nello studio della rotazione delle galassie, constatò che la materia visibile (imputabile alla luce, che osserviamo con i classici telescopi, di stelle, polveri e gas) non era sufficiente affinché la gravità tenesse insieme il vorticoso turbinio degli oggetti astronomici da lei osservati. Per effetto della forza centrifuga alcune stelle sarebbero dovute fuggire come sassi dalla fionda rispetto al centro della loro galassia, e invece ruotavano intorno ad essa legate da una forza invisibile, appunto la materia oscura.
Le moderne acquisizioni ci dicono che tale materia costituisce circa il 22% di tutta quella presente nell’universo, contro l’appena il 4-5% di quella ordinaria visibile che possiamo misurare grazie alla sua emissione di radiazione elettromagnetica (la luce nelle sue diverse lunghezze d’onda).
Non dobbiamo temere il mistero: sia nella fede sia nella scienza gli enigmi che non si spiegano precedono una comprensione più profonda. In questo rinnovato coraggio, alla scoperta della verità insieme, è necessario accogliere differenti punti di vista senza fare cesure tra sapere teologico e sapere empirico-scientifico, ad esempio sulla problematica di una teoria del tutto.
Una volta acquisito un approccio dialogante, si deve procedere illuminando i diversi campi con le competenze specifiche. E dunque abbiamo bisogno che la scienza approfondisca le leggi di natura e le rinvenga nella loro unità dove esse sono frammentate in leggi meno generali, perché si possa capire sempre meglio il disegno di una trama ordita fin dal principio (pensiamo, ad esempio, alla meraviglia che suscita il fine tuning delle costanti di natura); ma, teologicamente parlando, «una teoria del tutto» è problematica, ad esempio, quando arriva ad affermare (in modo assoluto) una completa autosufficienza dell’universo.
Il rigore necessario per un circolo virtuoso
Nasce dunque la domanda: come conciliare la concezione biblica (l’azione di un Creatore) con la narrazione scientifica del Big Bang? Un punto di raccordo è in quell’eventuale momento zero in cui le grandezze misurabili (di temperatura, energia ecc.) secondo il modello scientifico attuale, dovrebbero assumere valori infiniti perdendo di senso fisico.
Qui interviene mons. Claudio Giuliodori, assistente ecclesiastico generale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Egli fa suo l’esempio dei ricercatori della Specola Vaticana, p. Gabriele Gionti e don Matteo Galaverni, che hanno proposto una nuova comprensione matematica del momento iniziale dell’universo. Essi sono l’esempio di persone credenti e, al contempo, studiose della scienza.
Il linguaggio della fede e quello della scienza possono entrare in un circolo virtuoso, e mostrare come i diversi approcci hanno molto da dire l’uno all’altro, se il concetto di Big Bang «rimane» scientifico e non viene confuso con quello teologico di creazione! Per i credenti il Big Bang incarna un segno di un’intelligenza superiore mentre per i non credenti costituisce semplicemente l’inizio plausibile dell’unico universo finora conosciuto.
La teoria lascia un «tempo libero iniziale», su cui la scienza non può indagare, fosse anche una frazione infinitesimale di secondo: qui il credente può «collocare» l’intervento misterioso di Dio nel trarre il tutto dal nulla, anzi di più. Per la teologia non solo l’inizio, ma tutta la storia dell’universo, diremmo ogni suo istante, è sempre nelle mani del Creatore (e Redentore), tanto che possiamo parlare di creatio continua, intendendo non solo che Dio «avvia» la creazione ma che la sostiene sempre nell’essere, anche col mantenimento delle leggi che la scienza scopre non essere (quasi) mai disattese, e qualora lo fossero essa è autorizzata a cercarne di più grandi e comprensive.
La goccia e l’oceano
Dopo aver parlato così tanto della dinamica della scoperta, ci piace concludere con uno dei motti che hanno caratterizzato una nota serie di fantascienza, Dark, i segreti di Winden, apparsa proprio durante il drammatico periodo della pandemia, quando ancora non avevamo fatto luce sulle nostre paure più ancestrali e sulle nostre capacità scientifiche e tecnologiche di affrontare il virus (cf. qui su Settimana News).
Umilmente dobbiamo ringraziare Dio se la situazione a due anni di distanza è migliorata, e al contempo riconoscere una verità che accompagna la nostra finitezza: «Ciò che sappiamo è una goccia; ciò che non sappiamo è un oceano» (Isaac Newton).
Anch’io penso che sia epistemologicamente ingenuo parlare di “connubio tra scienza e teologia” come ritengo che quella cesura che l’articolista non auspica tra i due diversi saperi sia, invece, l’elemento che li qualifica ambedue.
D’altronde in un dialogo naif tra scienza e teologia temo che sarebbe quest’ultima a farne le maggiori spese.
Anche il nostro tempo abbonda di teologi che hanno fatto cattiva teologia confondendo spirito ed energia, universi paralleli ed oltretomba o creazione e big bang. Comprendo lo sforzo di inculturare il Vangelo ma gli esiti spesso sono comici quando non tragici e ciò anche a dispetto delle numerose copie di saggi vendute.
La scienza invece – lontana dalla logica discorsiva della teologia odierna – ha le sue ferree regole basate sull’empiria che le vietano ogni bislacco volo pindarico, facile a concludersi in un tonfo. Attenzione, non intendo dire che anch’essa non prenda cantonate ma voglio dire che ha in se stessa gli strumenti per riconoscere quando sbaglia secondo i noti parametri della falsificazione illustrati da Popper.
La cattiva teologia no. Prima che termini la sua inevitabile parabola fa grandi danni e lascia innumerevoli vittime spirituali sul terreno.
In definitiva dialogo si, ingenuo connubio no.
Allo stato attuale, condurre un dialogo costruttivo tra teologia e scienze fisiche mi sembra velleitario e probabilmente tale dialogo è impossibile per la diversità strutturale tra i contenuti delle due discipline. Gli argomenti richiamati nell’articolo consentono soltanto deboli similitudini che possono al più alimentare alcune suggestioni soggettive ma non possono legittimare dei passaggi logici tra scienza e teologia (che scienza non è).