Teologia e scienze sociali: uscire dal “piccolo mondo antico”

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Aula magna delle Facultés Loyola Paris (già Centre Sèvres)

La teologia europea (e non solo) deve molto al mondo francofono quanto alla ricerca teologica. Diverse istituzioni, sin dagli inizi del Novecento, hanno reso un importante contributo in tal senso. Come non ricordare, oltre la Facoltà di teologia dell’Institute Catholique di Parigi, un’istituzione come quella dei domenicani della “Provincia di Francia” (Parigi), ovvero di quel mondo intellettuale che ruota attorno a Le Saulchoir, che comprende altresì la rivista Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques e le edizioni Cerf?

Ancora, come non menzionare l’impegno dei gesuiti francesi, con la Facultés Loyola (già Centre Sèvres), di cui la rivista Recherches de Science Religieuse è espressione? Davvero singolare questa vivacità. La Francia, come molte nazioni europee (ad eccezione del mondo germanico) ha conosciuto l’espulsione delle facoltà di teologia dall’Università di stato.

Un luogo e una storia

Eppure questa esclusione (Sorbona in primis) non ha prodotto un accentuato isolamento della teologia rispetto al mondo della ricerca umanistica. I motivi possono essere molteplici, ma è probabile che uno dei fattori che ha consentito il prolungamento degli interessi teologici negli studi umanistici (seppur nella diversa postura delle Scienze religiose) sia da ascrivere anche a un fatto storico. Contemporaneamente alla chiusura delle facoltà di teologia statali (1885), sorse a Parigi la quinta sezione dell’Ecole Pratique des Hautes Études, avente per scopo lo studio delle Scienze religiose[1].

Ora, e veniamo così allo scopo di questa mia riflessione, mi domando: studiare il fenomeno religioso dal punto di vista degli studi o saperi umanistici (filosofia, storia, letteratura, sociologia, psicologia, etnografia, etc.) non comporta – passati i tempi della diffidenza e della reciproca autoreferenzialità – rimettere la stessa teologia all’interno di questi saperi? Di fatto, con questa domanda vengo a introdurre il recente numero (giugno-settembre) della già citata rivista Recherches de Science Religieuse (RSR) dedicato interamente a “Teologia e scienze sociali”. La scelta del tema è dettata soprattutto dalle giornate di studio che si terranno a Parigi (Facultés Loyola e Institute Catholique) nei giorni 14-16 novembre, sempre sul medesimo argomento.

Devo aggiungere che questo singolare concatenamento mi fa pensare ad altri tipi di convegni, ahimè di altro genere, dato che nascono come funghi, senza una esplicita prospettiva metodologica, risolvendosi così in eventi celebrativi, dettati dal calendario degli impegni da soddisfare. Se qualche traccia tali iniziative sono in grado di lasciare (vedi annali delle facoltà o miscellanee che nessuno leggerà), di solito non fanno storia, date le premesse genericiste da cui prendono il via. Pertanto, ed è questa la mia prima annotazione, è davvero ammirevole che ci si prepari – come di fatto sta facendo RSR – ad un convegno con un primo giro di studi che, entrando nel vivo del dibattito, consenta già di calibrare meglio la discussione e le ricerche dell’ormai imminente colloquio di novembre.

Delle pratiche discorsive

L’Editoriale, a firma di Patrick C. Goujon SJ e Dominique Iogna-Prat, traccia una sorta di status quaestionis sul rapporto tra teologia e scienze umane[2], senza scadere però nella pedanteria dei meri resoconti a cui questo genere letterario ci ha abituati.

Già la parte introduttiva dell’articolo lascia presagire il senso della posta in gioco. I due studiosi sostengono infatti che la teologia, se non vuole restare nel rango della «scienza perenne della verità detta una volta per tutte», deve riconoscere il suo gesto, ovvero quello che più avanti Jean-Pascal Gay, nel suo articolo, denomina l’atto teologico iscritto in una effettiva socialità e storicità[3]. Ciò significa, scrivono i due studiosi citati, riconoscere «che la teologia si è elaborata, e continua a farlo, in contesti variegati che hanno segnato le sue affermazioni.

Le nozioni di ortodossia e di eterodossia non sfuggono ai giochi di potere instaurati dalla Chiesa né a quelli in cui essa si trovava coinvolta. La storia dei dogmi non può ridursi allo sviluppo lineare di una tradizione immutata. Le affermazioni cristologiche di Calcedonia hanno tracciato uno spazio geopolitico sempre attuale. Gli odierni dialoghi ecumenici che dunque trascurano questo dato non possono che arrestarsi bruscamente»[4].

Confrontarsi e lavorare con le scienze sociali, ce lo ricorda più avanti l’articolo di Jean-Marie Donegani e Philippe Portier, consente alla teologia non solo di uscire dall’illusione della perennità delle definizioni che la Chiesa attribuisce a ciò che definisce l’identità dei suoi membri, ma permette anche di capire da quale posizione nella società essa intende, o meno, dialogare con le scienze sociali[5].

Una tensione feconda

L’iscrizione della teologia entro un quadro storico e sociale[6], pone la questione del rapporto e della tensione feconda tra teologia e scienze sociali. Gujon e Iogna-Prat tracciano infatti un doppio filo di connessione. «Pensando Dio come il suo oggetto costitutivo (Sache), la teologia non può fare a meno di confrontarsi con il sociale come situazione nella storia (Lage), il che implica, in un contesto epistemologico di modernità avanzata, di articolarsi con altri saperi che si pongono in modo agnostico rispetto alla questione religiosa»[7].

Ciò d’altra parte pone la necessità di verificare se e come la teologia intenda fare spazio ad altri saperi che si pongono in posizione critica nei suoi confronti[8]. La teologia è così provocata dalle scienze sociali a smettere i panni di un sapere totale, elaborato secondo una sua “sistematicità” (più volte gli autori di questo numero di RSR parlano a questo proposito di “architettonica”) che nel corso dei secoli ha assunto forme diverse.

Ma resta il fatto – e siamo così alla seconda indicazione – che le stesse scienze sociali non possono fare a meno di un’unità sintetica (e se non altro, aggiungo io, come ideale regolativo) e dunque di non escludere pregiudizialmente la teologia dal loro raggio. I nostri due autori introducono questo secondo aspetto mediante un’accattivante domanda: «non c’è forse un sogno inconfessato di architettonica teologica nel cuore dell’attività di antropologi, storici, filosofi, sociologi, inevitabilmente alla ricerca di coerenze d’insieme sull’uomo e sulla società, a meno che non limitino le loro attività a mini-problemi eruditi e culturalisti?»[9].

Oltre l’architettonica dottrinale degli ultimi decenni

Nel suo contributo, dal titolo: L’appartenenza del teologo all’istituzione, Christoph Theobald inquadra tale questione entro una prospettiva storica ed epistemologica, caratteristiche che a mio avviso contrassegnano la sua vasta ricerca. Due sono i punti di fondo che il teologo franco-tedesco chiama in causa: il cambio di paradigma nel fare teologia e la revisione dei presupposti epistemologici sul “reale”.

Dico subito che per chi non è allenato a fare teologia (ma la stessa cosa vale per coloro che, solo perché intervengono e scrivono intorno alla galassia cristiana, credono ipso facto di essere competenti in materia teologica e perciò di dire cosa debba essere e cosa non debba essere la teologia) queste problematiche potranno risultare “astrattezze” e vacuità. Chi invece naviga in queste acque con una certa preparazione e onestà intellettuale, può ben capire che si tratta di posizioni le quali, sebbene non intendano creare allarmismi (al contrario!), dovrebbero “far tremare i polsi”, date le problematiche e gli scenari che da esse si dipanano.

Quanto al primo punto, Theobald presuppone che la teologia oggi vada incontro ad un superamento del suo inserimento in quella “architettonica dottrinale” forgiata con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, e resasi manifesta con il tridente: magistero infallibile, definitivo e autentico. Il cambiamento sarebbe dettato dalla diversa configurazione che la teologia verrebbe ad assumere oggi nello scenario del pluralismo culturale.

Papa Francesco, scrive Theobald, lo avrebbe espresso nella Veritatis gaudium quando ha sostenuto che la teologia è chiamata a fare «esercizio dell’interpretazione performativa della realtà che scaturisce dall’evento di Gesù Cristo»[10]. In ciò Theobald intravede il carisma profetico della teologa e del teologo, il quale andrebbe esercitato in modo transdisciplinare all’interno del sensus fidei del popolo di Dio e, più largamente, del sensus humanitatis molto diffuso nell’umanità, partecipando così a l’esercizio d’interpretazione performativa della realtà aperta a tutti[11].

Il secondo punto ha a che fare con il superamento della giustapposizione tra teologia e altri saperi (il che può verificarsi nella pratica di una semplice interdisciplinarietà) al fine di giungere ad una effettiva transdisciplinarietà.

Qui la posta in gioco è ancora più esigente: si tratta della capacità di comprendere la “realtà” presente in tutta la sua complessità. Non è questione di un metodo specifico, precisa Theobald, ma di una postura d’intelligenza collettiva che ha come sua specificità quella di inventarsi di volta in volta, regolando la crisi delle nostre multiformi società e attivando altresì un nuovo interesse per questa configurazione[12].

Il numero di RSR sembra dunque preannunciare un interessante prosieguo del dibattito nel convegno di novembre. Grato agli studiosi per i loro contributi non mi resta che attendere le pubblicazioni…, fiducioso, questa volta, che non si tratterà di materiale celebrativo o di un semplice resoconto da rubrica (Compte rendu, direbbero i francesi).

guglielmi-rsr


[1] Attualmente l’EPHE si suddivide in tre Sezioni (Scienze della vita e della terra, Scienze storiche e filologiche, Scienze religiose) e quattro Istituti.

[2] P.C. Goujon – D. Iogna-Prat, «Théologie et Sciences Sociale», in RSR 112 (2024) 369-385.

[3] Cf J.-P. Gay, «Socialité et historicité de la théologie. Théologie réflexive et apories des rapports entre sciences sociales et théologie», in RSR 112 (2024) 431-441.

[4] P.C. Goujon – D. Iogna-Prat, «Théologie et Sciences Sociale», 369.

[5] Cf. J-M. Donegani – Ph. Portier, «De l’appartenance à l’identité. Les hésitations du catholicisme contemporain», in RSR 112 (2024) 407-430.

[6] Uno spaccato dell’automprensione storica della teologia e della sua esposizione alle scienze sociali è offerta, sempre in questo numero della rivista, da A. Rauwel, «Nommer les savoirs du religieux: essai sur les enjeux de dénomination au moment moderniste», in RSR 112 (2024) 391-405.

[7] P.C. Goujon – D. Iogna-Prat, «Théologie et Sciences Sociale», 377.

[8] Ma questa prospettiva sbaraglia le prigioni disciplinari (in realtà tanto comode ad alcuni teologi). Gujon e Iogna-Prat si chiedono infatti se «coinvolgere i teologi significa fare appello alla teologia o instaurare un dialogo con esperti che, grazie alla loro competenza e al loro posizionamento all’interno della loro disciplina, rendono possibile un dialogo che non si intende principalmente come un dialogo tra discipline, ma tra colleghi che lavorano su questioni religiose?» (Ib., 376).

[9] Ib., 379.

[10] Francesco, Veritatis gaudium, 3.

[11] Cf C. Theobald, «L’appartenance du théologien à l’institution», in RSR 112 (2024) 443-467 (qui 466).

[12] Cf ib., 464.

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Un commento

  1. Fabio Cittadini 17 ottobre 2024

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