Vorrei cercare di inquadrare il dialogo sulla figura della teologia, aperto dal contributo di Marcello Neri su Settimananews, all’interno del contesto tedesco – in cui sono cresciuto e lavoro. Mi auguro, così facendo, di riuscire a offrire comunque qualche spunto che possa interessare ed essere utile anche ai lettori e lettrici italiani.
In Germania la teologia sta vivendo la stagione del suo autunno avanzato. A un primo sguardo, la situazione sembra essere ancora sostenibile. È vero che le ore di luce diventano sempre più corte, e di questo se ne accorgono soprattutto i teologi e le teologhe più giovani all’interno dell’accademia. Più o meno quelli della mia generazione, che stanno scrivendo o hanno da poco finito il loro dottorato.
Autunno avanzato
A parte questo, qui da noi, la teologia accademica sembra essere ancora ben assestata. Si pensi, ad esempio, alla ricchezza e pluralità di cattedre nelle roccaforti teologiche del nostro paese – cosa che può suscitare invidia, soprattutto quando uno è così libero da pensare e cogliere il fenomeno complessivo guardando trasversalmente alle confessioni. Nei giorni uggiosi di pioggia, però, lo sguardo gettato sul futuro si fa più cupo. Da tempo si è messa mano, infatti, alla lenta morte delle facoltà teologiche.
Questa condizione minacciosa non mi sembra avere a che fare, in primo luogo, con il fatto che nell’accademia e nel discorso pubblico si voglia sottrarre al sapere della fede il carattere di scientificità. Molto più essenziale è il peso della percezione che i contenuti e gli ambiti di ricerca della teologia hanno perso il loro significato e rilievo per domande di profilo sociale, per un’autocomprensione e accordo esistenziale della persona, e anche per la pratica pastorale.
Il rilievo e significato dei contenuti della ricerca teologica non viene però messo in discussione né a livello delle politiche di formazione, né a quello della cultura e università. Tra l’altro, qui non viene neanche misurata la scientificità della teologia. Il dibatto sul rilievo della teologia si svolge altrove, ed altrove diventa evidente: proprio laddove è molto più pericoloso per una disciplina universitaria.
La ragione economica dell’università
Semplicemente, alla teologia vengono meno gli studenti. Quantomeno dall’ultima riforma universitaria, che va sotto il nome di «processo di Bologna», gli studenti significano numero di iscritti, e questo a sua volta vuol dire denaro. Anche i concordati non possono proteggere eternamente le istituzioni teologiche davanti all’esigenza di dover giocare secondo le nuove regole che governano l’accademia. Se una disciplina di studi scende sotto quel numero minimo di studenti immatricolati che la rende plausibile all’interno di questo nuovo quadro, allora si può perdere la partita in un attimo.
Ma da dove deriva la mancanza di studenti in teologia? La risposta è sicuramente complessa e ha molte dimensioni. Si posso addurre delle ragioni per le quali la teologia accademica è responsabile solo in misura limitata: prima di tutte la secolarizzazione. Ma vi sono altre ragioni che, a mio avviso, sono oramai evidenti: se gli studenti interessati alla possibilità di frequentarla non percepiscono il rilievo (rilievo, si badi bene, e non utilità) dello studio della teologia non solo per la loro propria autocomprensione, ma anche per una qualifica lavorativa, da dove dovrebbero venire allora le motivazioni intrinseche per questo tipo di studi?
A questo si aggiunge la continua progressione di un nuovo settore formativo, che ha grosse ricadute su tutto il panorama universitario: lo stato lavorativo degli insegnanti, socialmente apprezzato ma accademicamente considerato spesso come risibile.
Senza studenti, che poi vogliono diventare insegnanti di religione nelle scuole, molte delle istituzioni teologiche nelle università tedesche avrebbero da tempo chiuso i battenti. È da molto che questo tipo di studenti di teologia rappresenta la grande maggioranza tra gli immatricolati nella disciplina teologica.
Studiare per insegnare nella scuola: una teologia minore?
Per la formazione lavorativa nelle scuole di questo nuovo corpo docente sono stati aperti dipartimenti di teologia in città che non sarebbero mai state considerate per la fondazione di quell’istituzione classica che è la facoltà teologica. Molti vedono negli studenti di magistero, immatricolati anche a teologia, dei teologi/delle teologhe minori, deficitari, che vengono caratterizzati anche nel modo di parlare: ci sono i veri e propri studenti di teologia, e poi ci sono studenti di magistero che fanno anche teologia.
Questi ultimi studiano teologia solo parzialmente, come una cosa accanto a altre. Una certa visione delle cose rinfaccia loro di suddividere la loro attenzione accademica, dove la teologia rappresenta solo qualcosa di secondario, di messo lì accanto ad altro.
Ma proprio con questo gli studenti di magistero portano con sé qualcosa in cui potrebbe profilarsi il futuro della stessa teologia accademica. Essi, infatti, non studiano solo teologia, ma, accanto a essa, anche una seconda e talvolta una terza materia. Questo aspetto, che disturba gli esperti della disciplina teologica, dovrebbe in realtà essere considerato come una fortuna.
Perché in questo intreccio di discipline, tipico degli studenti che vogliono poi insegnare nelle scuole, ciò che essi ascoltano e imparano nelle ore di lezione di teologia si ritrova immediatamente invischiato in un discorso con i contenuti diversi delle altre materie.
Una teologia «accanto…»
Dopo le ore di teologia fondamentale inizia la lezione di introduzione alla sociologia o quella sulla pianificazione geografica dei quartieri della città. Prima dell’introduzione all’Antico Testamento frullano ancora in testa i temi della biologia molecolare. Forse questi studenti potrebbero riuscire laddove spesso professori e professoresse capitolano: costruire relazioni trasversali tra le discipline, scoprire il significato esistenziale di ciò che si è appreso per il mondo della vita, fare attenzione a tutto ciò e, a partire da qui, pensare teologicamente percorsi ulteriori.
Se la teologia non si perde in un’auto-commiserazione per non essere più il Big Player dei suoi stessi studenti, ma impara a essere un’attrice non protagonista, allora essa ha qualcosa da offrire agli studenti e studentesse universitari. Qualcosa che può rendere la teologia come materia secondaria (non solo per gli studenti di magistero) estremamente attrattiva.
La teologia può risultare interessante non solo perché il suo studio ha un rilievo per l’auto-comprensione di sé stessi, per trovare un accordo con la propria storia di vita; ma anche perché attraverso lo studio della teologia si aprono orizzonti per una migliore comprensione delle altre discipline studiate in vista dell’insegnamento nella scuola.
La ragione di ciò è evidente e al tempo stesso estremamente attuale: oggi la nostra realtà di vita è divenuta molto più complessa e multidimensionale di quanto non fosse solo una ventina di anni fa.
In questa prospettiva, la teologia sarebbe un partner discorsivo che riesce nel suo compito proprio se non rimane da sola con se stessa. Teologi e teologhe sono oggi cercati come partner di dialogo, sia nell’accademia che nella società e nel mondo della cultura.
La percezione degli altri
Ma in questi luoghi non è possibile sopravvivere se si ritiene di essere indispensabili in sé stessi. Per essere presenti nel dialogo sociale e culturale gli altri devono percepire come cosa buona e utile che una competenza teologica si dia al suo interno.
Non si tratta di una partecipazione confortevole, redditizia o qualunquista. Quello che conta è che le università e le città sentano che vale la pena che degli istituti teologici siano presenti in questi luoghi comuni del vivere umano. Chi si riscopre essere solo un partner del dialogo, e si sa liberato dal peso di doversi camuffare in un Big Player onnisciente, trova con più agevolezza la strada per passare da un atteggiamento di indottrinazione a uno di apprendimento.
Questo vale anche rispetto alle realtà di vita delle città in cui i teologi e le teologhe abitano e sono impegnati al di là del loro mestiere. Nelle pubblicazioni si trovano spesso delle indicazioni di luogo. Normalmente sono collocate dopo il nome dell’autore/autrice e segna il luogo in cui questa persona insegna o è attiva professionalmente. Questa indicazione rimanda alla reputazione dell’autore/autrice, che risalta in modo maggiore se insegna presso una facoltà rinomata e conosciuta.
Indicazione di luogo: l’umano che vive concretamente
Ma cosa succederebbe se queste istituzioni teologiche famose perdessero, in futuro, prestigio e divenissero realtà più piccole nel grande mondo dell’accademia? In questo caso l’indicazione di luogo cambierebbe automaticamente la sua direzione semiotica indicativa.
Si tratterebbe, a questo punto, di un rimando simbolico alle reti in cui è coinvolta la persona in quanto partner di dialogo, da un lato, e, dall’altro, alle realtà concrete di vita che essa incontra nella sua attività e che, a loro volta, possono diventare il punto di partenza o di riferimento del loro lavoro teologico.
L’indicazione di luogo non sarebbe dunque più l’etichetta di un prestigio auto-referenziale, ma il rimando ai molti contesti in cui si sono generati gli argomenti e pensieri trattati nella pubblicazione: contesti in cui essi vengono messi alla prova e sono formulati. Questo luogo apparterrebbe più al contributo pubblicato stesso che al nome e al rango della persona che lo ha scritto.
Esso diverrebbe un implicito luogo teologico. Allo stesso tempo, questo luogo rimanderebbe anche alla costellazione multiforme in cui la teologia, come partner di dialogo, si deve invischiare, se essa vuole affrontare il dibattito sulla propria rilevanza e plausibilità in maniera nuova e inedita.
Gerrit Spallek è dottorando presso il Dipartimento di teologia cattolica dell’Università di Amburgo, dove lavora anche come ricercatore con incarichi di docenza. Dal 2016 è membro della redazione della rivista teologico-pastorale Feinschwarz. Il contributo di Gerrit Spallek porta avanti il dibattito suscitato dall’intervento di Marcello Neri sul ruolo della teologia in riferimento al futuro del cristianesimo (cf. Settimananews 11 maggio 2017; ad esso hanno fatto seguito gli interventi di M.G. Masciarelli, il 24 maggio, di J. Deibl dell’8 giugno, e di Ch. Theobald, il 23 giugno, e di A. Torres Queiruga il 27 giugno).