Per una teologia non irrilevante

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nardello-guit

La morte di Gustavo Gutierrez può suscitare molte emozioni in chi oggi si occupa di teologia. Da parte mia, vi è anzitutto un forte senso di gratitudine. Con questa figura, scompare uno dei grandi protagonisti della teologia del Novecento, uno di quelli di cui si sente la mancanza.

Anche se non è stato il primo a proporre una teologia della liberazione – il teologo James H. Cone lo ha preceduto di pochi mesi con la pubblicazione nel 1969 del suo volume Black Theology and Black Power[1] – è indubbio che le prospettive aperte da Gutierrez hanno avuto un impatto formidabile nel contesto teologico internazionale e, più in generale, nella vita della Chiesa cattolica.

D’altro lato, la morte di figure di questo genere fa nascere in chi come il sottoscritto dovrebbe ereditare la loro sapienza e il loro coraggio un senso di inadeguatezza, quasi un timore di non essere all’altezza del compito.

Il cambiamento culturale

Senza voler cercare indebite giustificazioni, mi sembra però che, in questi ultimi anni, sia intervenuto un cambiamento paradigmatico sul piano culturale che forse giustifica un modo un po’ diverso di fare teologia rispetto a quello del teologo peruviano.

Vorrei, quindi, offrire alcune riflessioni sull’approccio che il sapere teologico dovrebbe avere oggi per svolgere adeguatamente la sua funzione politica, cioè di critica profetica alle istanze disumanizzanti presenti nella società, assumendo a titolo esemplificativo il compito di promuovere la pace.

Mi sembra che attorno a questa questione ruotino almeno due problematiche, l’una già ampiamente discussa nei decenni passati e l’altra caratteristica dei nostri giorni.

La prima questione riguarda la possibilità di proporre l’etica evangelica, espressa ad esempio nel Discorso della montagna, agli Stati laici come riferimento normativo per la loro legislazione e politica. In tale ottica, la promozione della pace esigerebbe, da parte loro, l’assunzione del principio del “porgere l’altra guancia” anche nei confronti di un ingiusto aggressore, rinunciando a qualsiasi difesa armata.

Dal punto di vista teologico, la legittimità di tale opzione dipende dal modo in cui si intende il rapporto tra la storia e la signoria di Dio, e quindi da come si concepisce il percorso delle società verso il compimento escatologico della salvezza. Se esse sono chiamate a vivere fin d’ora la logica del regno, allora l’etica evangelica deve valere anche per loro, al pari delle comunità cristiane.

Questo però comporterebbe non solo un pacifismo radicale, anche a costo di ledere il diritto alla difesa, ma, più ampiamente, l’assunzione di tutta l’etica cristiana sul fronte civile. La legge dovrebbe essere normata dalla dottrina della fede, e la laicità dello Stato verrebbe delegittimata.

In realtà, per ragioni che oggi mi paiono ampiamente condivise, le istituzioni statali e le più ampie società sono chiamate ad approssimarsi al compimento escatologico della salvezza non attraverso il rispetto dell’etica evangelica, ma vivendo nella fedeltà a quei valori creaturali, condivisibili anche da chi non è cristiano, che il Creatore ha posto a fondamento dell’esistenza umana, e che sono formalizzati dalla dottrina sociale della Chiesa cattolica. In questo quadro, la difesa armata, se proporzionata all’offesa e presumibilmente efficace, è del tutto legittima.

Dal momento poi che, nelle situazioni concrete, la valutazione di queste condizioni è molto complessa, non ci si può aspettare dai teologi e dalle teologhe che convergano su una visione condivisa ed entrino nel dibattito pubblico con determinazione e con una voce sola. Se su tematiche del genere la teologia cattolica non parla all’unisono, non per questo tradisce la sua missione.

La seconda questione, su cui mi soffermo maggiormente, riguarda il ruolo specifico delle teologie politiche e della liberazione. Nei decenni passati, esse hanno offerto un contributo decisivo non solo alla riflessione teologica, ma anche al vissuto delle comunità cristiane e a quello di innumerevoli persone, anche non credenti.

A mio parere, l’efficacia di queste teologie – come quella di Gutierrez – è dipesa dal fatto che sono nate in paesi e in momenti storici nei quali il riferimento al Dio cristiano rappresentava una motivazione molto convincente per un’ampia parte della società.

Mostrare quindi, in modo argomentato, che la Scrittura e la più ampia Tradizione della fede legittimavano la difesa e la promozione dei poveri, dei neri, delle donne e di altre categorie di persone marginalizzate dai poteri economici o da discriminazioni culturali aveva un forte impatto sul fronte pubblico.

Oggi valgono più le emozioni che gli argomenti

Dal mio punto di vista, tale modello di teologia politica e della liberazione è al tramonto, per almeno due ragioni.

In primo luogo, viviamo ormai in un contesto culturale post-cristiano, nel quale il riferimento al disegno divino sull’umanità ha perso di rilevanza, se si escludono i movimenti fondamentalisti, che però sono sostanzialmente assenti nel nostro paese.

Soprattutto, poi, la logica argomentativa di cui la teologia si è tradizionalmente servita non è ritenuta funzionale a trattare le questioni che toccano l’esistenza individuale e collettiva, ma solo quelle che riguardano il funzionamento della realtà, di cui si occupano la scienza e la tecnologia. La mentalità decostruzionista che ha pervaso le società post-moderne ha reso impossibile e inutile il dialogo inteso come ricerca di una verità oggettiva comune, per legittimare solamente uno scambio libero e paritario di opinioni sul senso delle cose.

Il valore di tali opinioni prescinde dalla loro fondazione teoretica, e dipende esclusivamente dal fatto che siano sentite soggettivamente come funzionali al proprio benessere ed eventualmente a quello collettivo.

In questa prospettiva, la teologia e la sua capacità argomentativa vengono vanificate. Ciò che conta è la capacità di emozionare, e a questo servono più le immagini che le parole. Così l’appello per la pace fatto da un video ben costruito di un personaggio famoso (sportivo, cantante, attore, influencer…) potrebbe avere un impatto ben maggiore sull’opinione pubblica della lezione di un rigoroso e competente pensatore che non può esimersi dal citare in lingua originale almeno tre filosofi o teologi anche solo per augurare a tutti una buona serata…

Ora, il silenzio dei teologi e delle teologhe sulle grandi questioni della società mi sembra determinato dalla loro percezione di non essere rilevanti sul fronte pubblico. In questo contesto non si possono e non si devono proporre l’antropologia e l’etica evangelica come normative, ma dei valori creaturali comprensibili con la luce della ragione per i quali nelle odierne società post-cristiane l’ulteriore motivazione teologica non aggiunge alcuna enfasi.

In più, l’approccio argomentativo non è sicuramente il più apprezzato. Così, anche se i teologi e le teologhe dovranno partecipare alle battaglie civili per la difesa del bene comune, al pari degli altri credenti e di altre persone non cristiane e non religiose, il loro specifico contributo teologico sul fronte pubblico sembra ormai terminato. A meno che non lo si ripensi radicalmente. Tale ripensamento, però, non può essere ricercato nel modello passato, riproponendo alle istituzioni laiche l’antropologia e l’etica evangelica come normative.

Purtroppo, mi sembra che si vada in questa direzione quando, ad esempio, si parla della necessità di soccorrere i migranti in quanto in loro è presente il Signore o in quanto amati da Dio. Se un messaggio del genere è del tutto legittimo quando è rivolto ai cristiani, non lo è per nulla se è declinato nell’ambito pubblico, cioè se è indirizzato a tutti i membri di una società multireligiosa o addirittura alle istituzioni di uno Stato laico.

Questa commistione di ambiti diversi, che emerge in molte recenti prese di posizione, rivela la difficoltà di declinare lo specifico cristiano nelle questioni sociali che caratterizzano il nostro tempo, stante la perdita della tradizionale rilevanza della motivazione religiosa.

Proporre modi sensati di vivere

A mio parere, il modo in cui la teologia potrebbe esprimere oggi la sua vocazione politica potrebbe essere quello di ricavare dalla Scrittura e dalla più ampia Tradizione cristiana delle visioni del senso dell’esistenza umana individuale e collettiva e proporle sul fronte pubblico, non più però come strumento rivoluzionario di trasformazione della realtà, ma come modi sensati di vivere che possono ispirare le libere scelte delle istituzioni laiche e delle persone, anche non religiose.

Tali visioni non dovranno essere purificate della loro connotazione religiosa per entrare nel dibattito pubblico, ma dovranno comunque essere declinate in modo tale da essere fruibili anche per coloro che non sono cristiani.

Il linguaggio parabolico potrebbe tornare utile, vista la sua capacità di stimolare rispettosamente l’uditore (o il lettore) ad entrare in una nuova visione delle cose, senza metterlo in difficoltà o forzargli la mano se preferisce non mettersi in discussione.

Tali proposte dovranno godere di una fondazione rigorosa sul piano teologico, ma non sarà questa fondazione a renderle appetibili sul fronte pubblico. Sarà decisivo il loro aspetto estetico, cioè la loro capacità di affascinare, di far intuire un modo migliore di spendere la vita individuale e collettiva. Si tratta di elaborare una nuova retorica, e non più basata sul solo linguaggio verbale.

Tutto questo rende il compito politico della teologia un po’ diverso da quello che essa ha svolto nei decenni passati, meno battagliero e più umile e discreto. A chi oggi dovrebbe essere l’erede dei grandi teologi del Novecento, come Gustavo Gutierrez, si impone il compito di seguire le loro orme ricercando un proprio modo di favorire il cammino dell’intera umanità verso il regno di Dio.


[1] Sulla capacità di quest’opera di aiutare innumerevoli neri a continuare ad essere cristiani, è interessante la lezione e la commovente testimonianza personale di Dwight N. Hopkins in https://martycenter.org/series/why-this-text-matters/black-theology-power-hopkins.

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