Cari Severino e Francesco,
nel dibattito inaugurato da Severino, e nel quale sono entrati anche Marcello, Andrea, e ben 2 Giuseppe, trovo utile mettere a paragone il testo iniziale, scritto da un teologo di 90 anni e questo ultimo di Francesco, che ha 45 anni. Siamo di fronte alla riflessione di teologi di cui il primo potrebbe essere il nonno del secondo. In mezzo stanno gli altri intervenuti, le cui età oscillano tra i 50 e i 60 anni. Scrivo a voi perché di fatto vi sento come “padri” e come “figli” e per questo, sentendomi generato dai primi e in certo modo generatore dei secondi, porto con me e su di me quella responsabilità che spetta alle “generazioni di mezzo”.
Una prima cosa mi colpisce molto: il coraggio con cui Severino fa del silenzio una forma di “tradimento”, e la prudenza con cui Francesco tende a giustificare il silenzio quasi come un destino. Vorrei fotografare la vostra posizione con una breve citazione tratta da ciascuno dei vostri scritti. Tu Severino scrivi che anche il teologo deve sentire “la spina nel fianco di coloro che “sono pagati per pensare”, […] cioè di quanti fanno il mestiere di produrre e tenere viva la coscienza critica di un popolo.”
In modo assai diverso tu Francesco scrivi invece: “Rimane, però, una contraddizione invocare la voce dei teologi mentre il contesto stesso in cui operano rischia di silenziarli o li incoraggia al mutismo.”
Qui mi pare che un confronto franco e diretto tra le due posizioni sia necessario e possa essere compreso come gli “anni di formazione”. Se usciamo da una raffigurazione astratta delle biografie, e guardiamo in quali epoche siete stati formati, come teologi, scopriamo che tu, Severino, hai studiato teologia tra fine anni 50 e primi anni 60, mentre tu Francesco hai studiato tra fine anni 90 e anni 2000. Questo fatto involontario ha dato a Severino una identità di teologo diversa da quella di Francesco, pur nella continuità della medesima Chiesa cattolica. Che cosa è accaduto? perché mai per Severino il silenzio appare una colpa mentre per Francesco sembra un destino?
Credo che, per interpretare queste vostre parole, nella loro diversità, sia utile considerare che cosa è accaduto alla teologia cattolica nei 60 anni dopo il Concilio. Lo direi con due espressioni:
- le pretese del magistero sono cresciute a dismisura
- il teologo ha potuto comprendersi come funzionario
Queste due tendenze sono legate ad una recezione possibile, ma non necessaria, del Concilio Vaticano II e di ciò che di più originale quel Concilio ha donato alla Chiesa cattolica: ossia una inedita estensione del Magistero conciliare e papale all’intera esperienza ecclesiale. I 16 documenti di quel Concilio, infatti, hanno ampliato a dismisura quel “magistero negativo”, che da secoli aveva caratterizzato la parola magisteriale.
Il fatto che si sia scelto, per tante buone ragioni che nel 1962-1965 si sono imposte alla assise conciliare, di coprire l’intera esperienza cristiana con grandi testi, senza alcuna definizione dogmatica e senza alcun canone di condanna, ha abilitato il Magistero post-conciliare a parlare letteralmente di tutto e di farlo “in positivo”, ossia non nel registro della “condanna di proposizioni erronee”, ma in quello di “affermazioni di proposizioni vincolanti”. Questa svolta, che è davvero epocale, si è sviluppata dagli anni 80, progressivamente, trasformando a fondo l’idea di magistero.
Nel frattempo, con il nuovo Codice di Diritto Canonico, si ponevano le premesse autorevoli, per la rilettura anche del compito della teologia. Alla quale restava, già dal 1983, solo una alternativa drastica e drammatica: o commentare il magistero come fonte del sapere ecclesiale, oppure tacere. La questione del silenzio dei teologi, e del loro eventuale tradimento, è diventata, dal 1983 e poi con numerosi altri testi magisteriali nell’ ultimo decennio del II millennio, una “istanza istituzionale”. Possiamo prenderne atto o possiamo restarne scandalizzati.
Cari Severino e Francesco, ho voluto descrivere brevemente la storia del rapporto tra libertà e vocazione ecclesiale del teologo per identificare, istituzionalmente, la origine storica di una differenza così grande nelle vostre parole. Non mi stupisco che Severino si ribelli al silenzio: lui ha imparato a scuola che il teologo, nelle forme dovute, deve parlare, anche quando tutto gli consiglierebbe di tacere. Viceversa Francesco ha imparato a scuola la logica del silenzio. Per questo ciò che tu Severino senti come tradimento Francesco sente quasi come un dovere, e ciò che tu Francesco chiami “contraddizione” Severino definisce “mancanza di coraggio”.
Severino, forse tu hai scritto il tuo testo alla vigilia della seconda Assemblea del Sinodo dei Vescovi proprio per dare una sollecitazione ai teologi di non rifugiarsi nel silenzio. In questo senso mi pare si siano mossi anche i commenti di Marcello e di Giuseppe, oltre al mio. Le parole di Francesco, però, ci aiutano a capire che vi è un modo di fare teologia che ha imparato, sui banchi di studio, il silenzio come un compito. La tua frase finale, Francesco, mi pare rivelatrice. Tu concludi così: “A meno che non si voglia semplicemente puntare sull’inclinazione, la libertà di pensiero e la passione del singolo teologo, scommessa che appare però eccessivamente ottimistica.”
Inclinazione, libertà di pensiero e passione, nel tuo testo, sembra che arrivino quasi da fuori, che non siano il frutto della formazione, che alla Chiesa siano indifferenti o, forse, addirittura sospette. Con Severino mi sembra di dover ricordare questa sua istanza: “Nessuno nel popolo di Dio più dei teologi deve sentirsi responsabile di elaborare e manifestare il proprio giudizio e di aprire dibattiti all’altezza delle proprie competenze, su ciò che sta avvenendo nel nostro tempo.”
Cari Francesco e Severino, non rassegnarsi al silenzio è una cosa complessa. Lo era negli anni 50, lo era negli anni 90 e lo è anche nei nostri anni 20. Ma credo che, anche grazie al confronto emerso da questo dibattito, dobbiamo chiedere che la funzione della teologia e la formazione che conduce al suo esercizio possa aiutare la Chiesa a capire che:
- il Magistero non si sovrappone mai totalmente al sapere ecclesiale e alle sue pratiche: c’è una sporgenza della Parola di Dio e della esperienza degli uomini (GS 46) che non si lascia addomesticare solo col silenzio;
- il teologo deve aiutare i pastori a onorare la tradizione con evidenze e argomentazioni nuove: questo ha un prezzo, talora anche alto, ma che fa parte del “ministero ordinario” e non è limitato alle “virtù eroiche” di martiri della teologia.
Proprio sui temi più caldi della nostra attualità ecclesiale e civile (le forme del ministero, le istituzioni del sentimento, la costruzione della fratellanza e la valorizzazione della differenza) il “cambio di paradigma” esige certo molto silenzio, molta meditazione, ma altrettanto confronto e moltissima argomentazione, aperta e sincera, così come avete fatto su queste pagine di SettimanaNews.
- Pubblicato sul blog dell’autore Come se non.