Nel 1927 Julien Benda pubblicava La Trahison des Clercs, un fortunato pamphlet, nel quale egli denunciava il tradimento degli intellettuali francesi e tedeschi che, abbandonando la loro vocazione universale, la promozione del valore della giustizia e della democrazia, si lasciavano trascinare dalle passioni politiche furoreggianti in quegli anni, la lotta di classe, il nazionalismo, il razzismo.
Il titolo così suggestivo di quel testo dovrebbe restare la spina nel fianco di coloro che “sono pagati per pensare”, come disse un giorno un docente, il matematico Giovanni Prodi, in un colloquio sulle responsabilità dei docenti universitari, cioè di quanti fanno il mestiere di produrre e tenere viva la coscienza critica di un popolo.
Alla categoria appartengono a pieno titolo anche i teologi (anche se, a dire il vero, male pagati o non pagati affatto) il cui mestiere consiste nell’esercitare e promuovere il pensiero critico nella Chiesa, componente vitale dell’esperienza della fede.
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Se è da denunciare un “tradimento dei teologi”, oggi certamente non è perché il loro pensiero si lasci coinvolgere nelle passioni ideologiche, politiche o nei movimenti di interesse economico, ma perché tacciono.
Mai come oggi le grandi tensioni mondiali, i conflitti politici ed economici, i contrastanti programmi per il futuro, avanzati dai leader che contano, hanno posto sul tappeto questioni che toccano profondamente l’umano e, quindi, non possono non coinvolgere i pensatori impegnati nella riflessione sull’esperienza di fede nel Dio che si è fatto uomo.
Oltre ai mille altri confitti armati che insanguinano il mondo, ben due guerre si stanno rivestendo, più o meno esplicitamente, dei paramenti della religione, quella in Ucraina e quella in Palestina e Israele.
Il patriarca di Mosca predica la guerra santa contro l’Occidente scristianizzato e corrotto. I governanti di Israele non si peritano di ammantarsi dei panni di Giosuè per riprodurre oggi, contro i palestinesi, le sue imprese, di quando Dio «fece abitare nelle loro tende le tribù d’Israele» (Sal 78,55).
È facile immaginare quali turbamenti produca nelle coscienze dei palestinesi cristiani questo rievocare da parte di Israele le conquiste della terra, narrate dalla sacra Scrittura.
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Ci si aspetterebbe dai biblisti e dai liturgisti che aiutassero i lettori della Bibbia e i partecipanti alle celebrazioni liturgiche a mettere insieme le notizia dei telegiornali sulle nefandezze che il governo di Netanyau sta commettendo a Gaza e in Cisgiordania e le narrazioni bibliche sulla conquista della terra promessa, senza che in alcun modo queste possano venire a legittimar quelle.
Il problema della guerra, infatti, oggi, non si accontenta di provocare le dottrine vecchie e nuove sulla possibilità di una guerra giusta, ma ne ripropone addirittura vecchie e nuove motivazioni esplicitamente religiose, con i relativi appelli in Medio Oriente al Corano da una parte e alla Bibbia dall’altra.
E tutto questo non avrebbe dovuto provocare sui media, dai giornali ai social, una fitta presenza dei teologi sui media e accesi dibattiti con gli altri opinionisti e anche fra di loro, nel verificarsi delle diversità di giudizio, tali da accendere la curiosità della pubblica opinione? Niente di tutto questo sta accadendo.
Dopo due guerre mondiali, oltre alle tante guerre d’indipendenza, scatenate dai nazionalismi dei due ultimi secoli, la nostra generazione appare così insensata da avere il coraggio di riportarli alla dignità di movimenti e di programmi politici.
Ma non solo. Anche la grande tradizione culturale cristiana viene assunta spudoratamente a conferire loro una superiore nobiltà. Là dove cattolici eminenti e vescovi cedono a questa ondata, ci si domanda che fine ha fatto l’insonne fatica dei padri conciliari del Vaticano II per donare alla Chiesa del futuro, a noi, la costituzione Gaudium et spes con la sua categorica affermazione: «Siccome in forza della sua missione e della sua natura non è legata ad alcuna particolare forma di cultura umana o sistema politico, economico, o sociale, la Chiesa per questa sua universalità può costituire un legame strettissimo tra le diverse comunità umane e nazioni» (GS 42).
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È vero che il nostro tempo, per la prima volta nella storia, ha visto convergere le principali autorità religiose del mondo nella comune promozione della pace, ma non è certamente detto che le grandi masse religiose cui è diretto il loro magistero, certamente non i loro governi, ne abbiano accolto l’innovatore messaggio.
Nessuno ignora che il brodo di coltura dei conflitti e delle guerre è formato dagli enormi interessi economici in gioco. Il neocapitalismo e la divinizzazione del libero mercato oggi si qualificano, come non mai prima nella storia, per l’accumularsi della ricchezza nelle mani di pochi.
È un fenomeno impressionante che impone nuove responsabilità alla coscienza cristiana e, ai teologi, una rinnovata riflessione sul problema del diritto alla proprietà privata e, in genere, sul tema della ricchezza.
La rivoluzione digitale sta trasformando in maniera profonda tutte le relazioni umane trascinandoci verso un futuro, tutto da immaginare e, possibilmente, programmare.
Mille altri temi e problemi oggi all’ordine del giorno sembrerebbero dover attirare l’interesse dei teologi, risvegliare le loro responsabilità nei confronti della conversazione pubblica. Si pensi solo a quale diversità di giudizi potrebbe essere addotta a proposito della guerra in Ucraina per vederne scaturire un dibattito fra teologi, che non potrebbe non interessare largamente l’opinione pubblica e che vi farebbe risuonare, tra le mille voci, quella del vangelo, il grande assente, taciuto troppo spesso dagli stessi cristiani.
Molto più ancora, l’opinione pubblica avrebbe il diritto di attendersi dai teologi un aiuto per la comprensione dell’ebraismo, con la sua tradizione di fede, di cui Gesù stesso si è nutrito, giacché la sua presenza nel mondo, trasversale a tante nazioni e culture, è un fenomeno molto complesso, dalle mille diverse sfaccettature spirituali e culturali, alla cui necessaria conoscenza i teologi potrebbero dare un contributo decisivo, anche per contrapporsi al ridestarsi nel mondo dell’antisemitismo. Non basta infatti deplorare la strumentalizzazione delle narrazioni bibliche messa in opera dal governo di Israele per coprire l’orrore degli oltre 40.000 morti ammazzati nella striscia di Gaza.
Non sono questioni da trattarsi nei cenacoli degli studiosi, perché implicano la responsabilità dei teologi cristiani nei confronti della società civile. Il loro silenzio sarà imputato dagli storici del futuro a colpa della Chiesa del nostro tempo, perché la Chiesa non è il papa, il quale si ritrova praticamente solo, a proclamare e ribadire, con testarda insistenza, il giudizio del vangelo sugli eventi presenti.
Nessuno nel popolo di Dio più dei teologi deve sentirsi responsabile di elaborare e manifestare il proprio giudizio e di aprire dibattiti all’altezza delle proprie competenze, su ciò che sta avvenendo nel nostro tempo. Felice eccezione, che mi sembra doveroso citare, per rendere onore al merito, è quella di Giuseppe Lorizio sul quotidiano Avvenire.
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I teologi italiano sono bene organizzati nelle loro diverse associazioni, fra le quali, inoltre, hanno creato anche un valido ed efficiente coordinamento, il CATI. Ciò che manca e deve essere urgentemente risvegliato e promosso è la responsabilità verso il mondo esterno e l’uscita dallo spazio ristretto dei propri circoli.
Si potrebbe anche, per scendere nel concreto, rimandare, come a un possibile modello, a come i missionari del PIME, con il loro blog Asianews, riescano a raggiungere vasti strati di persone, anche abitualmente estranee alla vita della Chiesa.
È vero che il contesto e le circostanze di allora erano molto diverse, ma resta pur vero che i teologi di allora, a differenza di quel che accade oggi, mordevano davvero sull’opinione pubblica del proprio tempo, se in un certo giorno degli anni Settanta la Repubblica di Scalfari dedicava un’intera pagina all’intervista del vicepresidente dell’ATI di allora, condotta da Domenico Del Rio, uno dei migliori vaticanisti della storia del giornalismo.
Dall’articolo e dai commenti si dovrebbe dire: Dio ci salvi dai teologi!.
Aggiungo: mi sembra estremamente importante l’invito di P. Dianich a creare qualcosa sul modello di Asianews per dare spazio alla comunicazione teologica, cioè uno strumento agile e immediato di informazione. Sarebbe preziosissimo soprattutto in questo momento!
È indubbio che lo stesso potremmo dire per filosofi e poeti che ugualmente tacciono, ma i teologi hanno il dovere della verità che proviene da fuori di loro. A se stessi si può anche non prestare orecchio, ma non prestarlo a Dio significa perdere un’occasione per trascendersi.
Aggiungo anche Hans Küng , tra i tanti transalpini banditi e cassati .. senza dialogo non c’è ricerca . Amen
Concordo con Emanuele , le voci nuove sono state silenziate una dopo l’altra e senza libertà la ricerca non va avanti . Ognuno di noi ha un pensiero libero nel cuore , una teologa o un teologo che ha allargato le suoi orizzonti e che , per qualche anatema , non dovrebbe leggere . Penso a Mattew Fox di “In principio la gioia” , un libro le cui idee potrebbero cambiare tanti pregiudizi e preconcetti dei nostri teologi “nostrani” . L’ho conosciuto tramite consigli di amici stranieri , ho partecipato ad alcune sue conferenze a Milano presso la chiesa valdese e ho scoperto che è stato epurato . Che peccato !
La ringrazio, come lei dice, la ricerca non va avanti senza libertà. Solo così nasce anche la gioia di dedicarsi a questi termi e di cercare spazi per parlarne.
Concordo con il teologo “militante” Dianich. Mi pare di notare come la teologia sia appiattita su tre fronti. Il primo: produzione di manuali, cosa che non richiede senso critico. Secondo fronte: lo sforzo di rendere teologicamente appetibile il magistero di papà Francesco, mostrarne la profondità quasi come non la avesse. Terzo fronte: lo sforzo di difendere teologicamente una tradizione che il Concilio Vaticano II ha aggiornato. In tutto questo la teologia come sapere critico della Chiesa viene a morire. Qualche teologo bravo c’è ma il papà preferisce farlo vescovo.
Tutto giusto quello che scrive P. Dianich, ma bisognerebbe anche fare un discorso storico e critico nei riguardi della Chiesa cattolica (intendo la gerarchia, non altri). Negli ultimi decenni i teologici, essenzialmente diocesani e religiosi, se sgraditi – e per forza lo devono essere, perché chi si ispira al vangelo è per forza di cose controcorrente – se sgraditi, dicevo, venivano denigrati ed emarginati. Questo quando andava bene. Altrimenti finiva peggio. Pensiamo a don Milani e alla sua teologia militante o a David Maria Turoldo, teologo-poeta. Che cosa ha fatto Ratzinger per la promozione di una nuova generazione dei teologici? Non ha messo loro la museruola con “Ad tuendam fidem”, cioè con un documento assurdo, che voleva umiliare il libero pensiero in nome di una dottrina (Ratzinger sembra tra l’altro non avere chiaro che siamo nella storia e qualsiasi dottrina ha subito mutamenti e continuerà a subirli) ? Oggi, nella Chiesa cattolica, quali sono i teologici che si possono leggere? Nessuno, salvo chi comandava, cioè i pochi principi di turno che hanno imposto il loro pensiero agli altri, come se fossero gli unici possessori della verità. Ben diversa la situazione in ambito evangelico-protestante. Pensiamo ai Valdesi: appena 20000 persone. Ma quanti teologi e quale spessore! Pensiamo solo al recentemente scomparso Paolo Ricca. Perché una comunità così piccola vanta tale qualità di pensiero cristiano? Perché ci sono due cose che in ambito cattolico mancano: promozione e soprattutto libertà. Sarebbe bene aprire un capitolo di discussione pubblica su questo.
P.s.: correggo un refuso: teologi, non teologici
Solo per per correttezza di informazioni: la “museruola” Ad tuendam fidem (1998) l’ha messa in realtà Giovanni Paolo II (il testo è un motu proprio pontificio!). Senza dubbio questo arnese – sempre per restare nella metafora utilizzata nel commento precedente – non cade dall’alto ma è stato preparato dall’allora prefetto Ratzinger con l’Istruzione sulla vocazione ecclesiale del teologo “Donum veritatis” (1990) e poi nuovamente collaudata dallo stesso prefetto con la “Nota dottrinale illustrativa” (1998: un mese dopo il motu proprio). Gli storici della teologia (Komonchak, Ruggieri, Alberigo, Boyle, Gaudemet, etc) ricordano però che già durante il pontificato di Paolo VI la medesima Congregazione aveva cominciato a preparare l’arnese. Nel 1973, infatti, questo dicastero emanò il documento “Mysterium ecclesiae”, che non solo redarguiva alcuni teologi e inseriva una distinzione nei livelli del magistero che sarà canonizzata (nel senso di entrare nel CIC) nel 1998, ma introdusse (dopo lo schema De Ecclesia del Vaticano II) nuovamente nel gergo teologico-dottrinale l’espressione “le” verità che tanto successo avrebbe avuto in seguito.
Gentile G. Guglielmi, la ringrazio, ovviamente è il papa che ha emesso il “motu proprio”. E ci sono i retroterra di cui lei dice, già trattati in un fascicolo di CrSt. Ma io alludevo (ho scritto troppo concisamente) a un evento successivo alla pubblicazione della Nota illustrativa, cioè alla raccolta di Professione di fede con commi, Giuramento, “Ad tuendam fidem” e Nota illustrativa in un unico volumetto (così ho ricavato dai dati online su CdF e dalla premessa delle edizioni francese, italiana tedesca; cercherò le edizioni a stampa per ulteriore verifica). Se è così come avevo concluso (se cioè questi testi sono stati riuniti e pubblicati dalla CdF in un unico volumetto; controllerò anche la data), ne rimango a dir poco amareggiato: 3 documenti (Professone con commi; Giuramento; Nota illustrativa) usciti dalla Congregazione della dottrina della Fede + l’inserimento di “Ad tuendam” sull’aggiornamento normativo e l’inserimento delle sanzioni. Di fronte a un opuscolo del genere, che ai miei occhi non fa assolutamente onore a Cdf (ma ripeto: controllerò a questo proposito le edizioni a stampa), capisco lo sconforto di chi ha abbandonato: non solo istruzioni, giuramenti, professioni, commi, note illustrative, ma, nel mezzo, il richiamo alle sanzioni con il testo completo del “motu proprio”. Cosa hanno comportato questo e altri eventi degli ultimi decenni? La “desertificazione” (questo è quello che vedo) del campo teologico.
Comunque la storia dei valdesi si può anche spiegare in altro modo: sono una comunità piccola che spesso è stata perseguitata o vista come corpo estraneo, quindi hanno avuto un’esigenza sia personale che comunitaria di ‘eccellere’ per poter sopravvivere e farsi accettare.
Paradossalmente le dominanza sociale della Chiesa Cattolica in Italia non ha favorito un’esplosione di talenti accademici. Comunque siamo riusciti anche noi a produrre le nostre eccellenze a livello mondiale: leggendo articoli in lingua inglese sulla storia della liturgia cristiana mi fa sempre piacere veder citato il nostro Enrico Mazza.