Non appena si fa cenno alla teologia come materia di studio all‘università, la reazione è quella di sguardi interrogativi da parte dei coetanei. A cui seguono domande del tipo «come fai a credere in Dio e a contenuti di fede attestati dalla Bibbia o dalla Chiesa?»; «vai a messa tutte le settimane o preghi spesso?». Più volte, nei miei cinque anni di studio, ho fatto esperienza di qualcosa del genere.
Davanti allo sguardo degli altri
Quando poi si aggiunge l’informazione che l’altra mia materia è pedagogia speciale e che il mio studio della teologia è anche in funzione di quest’ultima e del mio lavoro come insegnante a scuola, allora gli sguardi passano dall’interrogazione alla quasi totale incomprensione. A questo punto cerco di aggirare la situazione di stallo, rispondendo alla domanda su cosa voglio cercare di mediare agli scolari nel corso delle lezioni di religione, da un lato, e su come voglio accostarli ai contenuti della fede, dall’altro.
Se si tiene conto dell’odierna rappresentazione della teologia, allora si può riscontrare, soprattutto tra i giovani della mia età, l’impressione di una fede ecclesiale sovente lontana dalla realtà e incapace di rivolgersi a loro, che a mala pena ha che fare con quanto accade nella società odierna. Per questo le persone hanno una comprensione della teologia che è largamente prevenuta o deficitaria.
Teologia e fede: una visione distorta
Da un lato prigionieri dell’idea, ad esempio, che sono religiose solo quelle persone che vanno in chiesa regolarmente; oppure che tutti gli eventi e le cose che accadono nella vita debbano essere presi e accettati perché voluti da Dio. D’altro lato si può percepire nei miei coetanei l’equazione immediata fra teologia e la posizione della Chiesa e della sua dottrina – quasi sempre per riferimento all’aborto o a questioni riguardanti il fine vita.
Le domande che mi vengono poste sul mio studio della teologia rimarcano questo tipo di assunzioni previe, ossia il fatto che la fede sia qualcosa di immobile, rigido, connesso alla partecipazione alla liturgia e all’assunzione di rappresentazioni della fede non personali ma dettate da un’istituzione. Allo stesso tempo, si può percepire la mancanza di comprensione, o una comprensione non più sostenibile, su cosa siano fede e teologia.
In larga misura i bambini e i giovani non sanno quasi nulla del significato delle celebrazioni e delle feste ecclesiali, come Natale o Pasqua; e si limitano a godersi i regali o qualche giorno di vacanza senza scuola.
Da qui sorge la domanda, permanendo questa condizione delle cose, se la teologia può avere ancora un qualche senso e rimanere una disciplina del sapere. Se diamo ascolto alla critica e alla non conoscenza che circola tra i giovani, così come al dibattito nella nostra società, soprattutto per ciò che concerne temi come il fine vita, allora appare immediatamente chiaro che una trasformazione della mediazione teologica è qualcosa di necessario.
Trasformare i processi di mediazione della teologia
Il presupposto per ciò è una continua e sempre nuova contestualizzazione della teologia, passando attraverso un continuo confronto condiviso con tutti. Ossia il fatto che alla teologia si deve dare una forma più vitale e adeguata alla cultura contemporanea, se si vuole che in essa possano fare ingresso i processi di pensiero e di azione degli individui, così che essi possano divenire parte attiva dell’impresa teologica.
Penso che solo in questo modo possa darsi la possibilità di partecipazione, di diritto alla parola e anche di un domandare critico, così che diventi possibile realizzare un’apertura del pensiero. Se la teologia vuole tutto ciò, allora essa deve entrare in rete con altri ambiti del sapere, sviluppare un carattere interdisciplinare, anziché continuare a pensarsi e attuarsi in uno splendido isolamento.
Eppure qualcosa del genere, tra le molte discipline del sapere, è possibile soprattutto e in maniera particolare nella teologia, perché essa si basa su valori e norme che sono in un qualche modo conosciuti da ogni persona in diversi contesti del vivere. Se la teologia, in concerto con altre discipline, fosse capace di mostrare qualcosa del genere, allora essa potrebbe divenire una casa comune, capace di offrire a ciascuno un suo proprio posto senza generare esclusione.
Spazio per il vissuto e il suo desiderio
Questo aspetto riguarda anche persone con disabilità, per le quali una questione centrale è quella del desiderio di appartenenza a una comunità e la possibilità di dare forma a essa. Se una tale coesistenza, se legami che generano comunanza, vengono sviluppati attraverso e con la teologia, allora le persone si trovano in uno spazio comune in cui possono confrontarsi insieme liberamente su temi e contenuti del vivere di cui fanno esperienza nelle loro vite.
Dove è possibile discutere tali questioni inerenti il vissuto umano senza limitazioni e imposizioni dottrinali, se non nella teologia? Abbiamo forse un’istituzione alternativa a essa che ci dia la possibilità di fare qualcosa del genere?
Come primi mediatori della teologia sono certo decisive le comunità pastorali, ma lo sono anche gli insegnanti. Si tratta di persone che entrano immediatamente in contatto con i giovani e si muovono in spazi in cui essi spendono gran parte della loro giornata. Se penso a me stessa, nel mio lavoro di insegnante insieme a bambini e giovani con difficoltà cognitive o disabilità, desidero assumermi questo compito e, attraverso una circolazione costante tra teologia e pedagogia, cercare di ridurre lo iato che esiste tra le formulazioni teoriche dei piani di studio e il modo di mediare contenuti teologici.
Il grande fossato
Infatti, spesso la realizzazione del programma all’interno di una classe non conduce alle mete messe per iscritto nei piani dell’insegnamento della religione. In questo ambito, ma credo che questo valga anche al di fuori di esso, la domanda sul «come» è decisiva per potere comunicare effettivamente la teologia alle generazioni più giovani.
Il movimento di incorporazione e realizzazione, ossia il piano delle azioni simboliche, è più importante di quello della comunicazione verbale. Si tratta di una specifica mediazione teologica, che si espande sullo spettro di più discipline e deve essere capace di accettazione e che dovrebbe iniziare già prima dell’età scolare, per poi svilupparsi lungo tutto l’arco dell’infanzia fino alla stagione più matura degli anni giovanili.
Al centro vi sta la ricerca genuina di una personale comprensione della fede, una solidarietà critica, un’apertura della teologia e la tematizzazione di valori portanti della vita sociale, per dare forma a una coesistenza umana tra i molti.
Dare forma a sé stessi
Per questo motivo gli ambiti di vita dei bambini e dei giovani, dalla situazione familiare alla scuola, la propria persona ed esistenza, gli elementi simbolici della loro esperienza, devono essere formati e plasmati in maniera attiva da loro stessi. È qui che si innesta la connessione con altri aspetti e discipline del sapere. Questo collegamento si basa su temi effettivi del vissuto e si sviluppa seguendo molteplici categorie con cui i bambini e i giovani si confrontano in esso.
Una conoscenza trans-disciplinare significa che, da un lato, contenuti di altre materie siano assunti nelle lezioni di religione e, dall’altro, che aspetti contenutistici centrali dell’insegnamento della religione vengano integrati in processi di insegnamento/apprendimento complessivi.
Non si deve poi dimenticare che oggi, per le generazioni più giovani, la digitalizzazione e la multimedialità rappresentano una parte reale dei loro vissuti. Oggi si cresce e si diventa adulti in un mondo mediale e digitale, ed è per questo che Internet e media digitali dovrebbero entrare a far parte della relazione di reciprocità insegnamento/apprendimento.
Non guardare solo alla propria tradizione
Ritornando allo specifico dell’insegnamento della religione e della teologia, gli ambiti delle feste come quello della comprensione simbolica e del linguaggio dovrebbero estendersi a tutte le grandi religioni, perché viviamo in un paese o in un mondo in cui diverse religione si incrociano fra di loro. Già all’asilo o alla scuola elementare i bambini percepiscono, ad esempio, che non tutti i compagni di classe celebrano le stesse feste e gli stessi rituali di fede.
In merito, è importante mettere in atto processi di apprendimento comune e di scambio condiviso sui simboli, sulle scritture sacre, sui giorni di festa, sulle preghiere e sui rituali che riguardano il mangiare e il bere nelle varie religioni. Per esperienza posso dire che quando qualcosa del genere accade, allora si apre l’orizzonte per discussioni, domande e pensieri efficaci, che coinvolgono l’interna classe in un comune processo di apprendimento – me inclusa in quanto insegnante.
Teologia e i legami del vivere-insieme
Abbiamo bisogno di una teologia che lasci spazio alla critica e all’interrogazione, senza soffocarle nella strettoia di un pensiero preconfezionato.
In questo modo potremo dare forma a una disposizione religiosa, aperta e ospitale, del sapere delle fedi, capace di sviluppare uno scambio attivo e partecipe sui legami fondamentali del vivere-insieme come mediazione del sapere teologico nella vita delle giovani generazioni di oggi.
Johanna Geueke ha completato i suoi studi in teologia cattolica e pedagogia speciale presso l’Europa-Universität di Flensburg. Ha svolto lavori di ricerca teologica sulle questioni legate al fine vita in ambito estetico e artistico, in particolare nella letteratura e nel cinema. Ha scritto la sua tesi di specialistica in pedagogia speciale sull’analisi valutativa del «Good Behavior Game» in ambito scolastico. Attualmente lavora come insegnante di scuola elementare nel Nordrhein Westfalen (Germania). Il suo intervento porta avanti il dibattito sulla teologia oggi per il futuro del cristianesimo (qui tutti gli interventi già pubblicati).