Alcune parole pronunciate da papa Francesco mercoledì scorso, all’udienza, nel corso del suo sesto discorso su san Giuseppe, hanno suscitato reazioni appassionate. Ecco il cuore del testo:
«E oggi, anche, con l’orfanezza, c’è un certo egoismo. L’altro giorno, parlavo sull’inverno demografico che c’è oggi: la gente non vuole avere figli, o soltanto uno e niente di più. E tante coppie non hanno figli perché non vogliono o ne hanno soltanto uno perché non ne vogliono altri, ma hanno due cani, due gatti … Eh sì, cani e gatti occupano il posto dei figli. Sì, fa ridere, capisco, ma è la realtà. E questo rinnegare la paternità e la maternità ci sminuisce, ci toglie umanità. E così la civiltà diviene più vecchia e senza umanità, perché si perde la ricchezza della paternità e della maternità. E soffre la Patria, che non ha figli e – come diceva uno un po’ umoristicamente – “e adesso chi pagherà le tasse per la mia pensione, che non ci sono figli? Chi si farà carico di me?”: rideva, ma è la verità. Io chiedo a san Giuseppe la grazia di svegliare le coscienze e pensare a questo: ad avere figli».
Il contesto del discorso, tuttavia, è introdotto da una distinzione, che può essere utile considerare con attenzione: la paternità non consiste nel «generare», ma nell’assumere la responsabilità di una vita.
La frase «forte», che mette in relazione contraddittoria «culle» e «cucce», si comprende del tutto solo alla luce di un orizzonte più ampio, che non è soltanto «morale», ma direi allo stesso tempo «generazionale» e «sociale». Una delle evidenze che scattano, in questo ambito, è quella della «differenza» tra uomo e animale. Avere figli è sempre rischioso. Ma, dice Francesco, non averne è ancora più rischioso. Come pensare questa sfida se la mettiamo in relazione al rapporto di «cura» verso gli animali? In quale senso la sostituzione degli animali ai bambini costituisce un problema e uno scandalo?
Propongo solo alcune annotazioni, per cercare di comprendere meglio la questione. Anzitutto è proprio l’«assenza di generazione», una sorta di «estraneità» che segna il rapporto con l’animale, a rendere più chiaro e diretto il rapporto di «cura». Nel famoso film di De Sica «Umberto D.», il rapporto tra il vecchio e il cane è un gioiello di poesia e di gratuità. Nessuno parlerebbe, in quel caso, di egoismo. Anzi, nel rapporto con il cane, non di rado gli uomini e le donne sanno essere più generosi rispetto al rapporto con gli umani. Ma perché tutto questo non è soltanto scandaloso?
La ragione è che gli animali sono quasi dei santi. In loro non vi è doppiezza, non vi è coscienza, non c’è tempo. La loro vita «sempre presente» è una vita compiuta, pienamente aperta, nuda, senza vestiti e senza riserve. Insieme meravigliosa e spaventosa. Ogni animale attesta non solo meno, ma anche più dell’uomo e della donna. Essere «a immagine e somiglianza di Dio» è un titolo di privilegio umano, ma anche un peso, che l’animale non porta. L’animale non pecca perché non è libero. È impeccabile e muto: in quanto creatura senza la parola, è ciò che deve essere e deve essere ciò che è. Mentre all’uomo e alla donna sta di fronte un essere sé stessi che è un delicatissimo intreccio di compito e di dono. Ognuno di noi, umani, non è già ciò che deve essere e deve/può lasciarsi donare se stesso dal prossimo e da Dio.
La semplicità animale ci ricorda Dio. E può essere, per questo, anche una via di fuga dal prossimo. E possiamo anche chiederci: ma dove l’uomo e la donna scoprono la loro differenza dall’animale che essi stessi sono? La differenza sta in ciò che è più elementare: non zampe, ma mani e piedi ci sono propri, non muso, ma bocca. Proprio questo rapporto delicatissimo tra zampe che si fanno mani operanti e musi che divengono bocche parlanti dicono la differenza: Tommaso, sulla scorta di Aristotele, ha detto che la differenza è «ratio et manus», ossia parola che permette di uscire dal presente e mani che trasformano e ricreano la realtà. L’animale, con la sua voce e con le sue zampe, non ha altro compito che esistere. Non ha nulla da cercare. Ha trovato già all’inizio tutto quello che gli basta. Gli umani, invece, nascono poveri, e trovano lungo la via tutto ciò che li caratterizza come uomini e come donne.
La cura per l’animale è più semplice: perché l’animale non tradisce mai, non illude, non finge, non aggira, non mente. Resta sempre infantile, perché non parla. Ogni animale, pur crescendo e cambiando fisicamente, resta sempre cucciolo, diretto, immediato, perché senza parola e senza mani.
La cura per gli umani è sicuramente più complessa, perché cambiano continuamente. E hanno bisogno di una presenza non semplicemente affettiva, ma educativa, autorevole, liberante. E questo è un aspetto maledettamente (e lodevolmente) complicato.
Capisco bene come anche gli animali possano essere funzionali a «borghesi piccoli piccoli». Ma ogni animale, nella sua immediatezza, può essere sempre lo sfondamento di ogni chiusura borghese. Sull’Aventino, nei viali accanto a Sant’Anselmo, si vedono spesso «domestici» che accompagnano i cani alle loro incombenze fisiche. I padroni si godono solo il lato ludico della bestiola. Ma la logica profonda con cui un cane ha il suo «mondo» sfugge al nostro modo di pensare e solo uomini «marginali» come coloro che sono affetti da «autismo» possono capire fino in fondo la «ratio canina» e rivelarne aspetti singolarissimi.
Il mondo non è percepito solo da uomini adulti: come ha scritto nel 1948 M. Merleau-Ponty, «animali, bambini, primitivi e pazzi percepiscono il mondo a modo loro» e noi dobbiamo ascoltarli, anche nelle cose che riguardano la fede. E in ognuno di noi sta, sempre, un animale, un bambino, un primitivo e un pazzo. Guai se non fosse così. Il «presepe» è forse la sintesi più impressionante di questa logica più complessa, più opaca e più ricca: non solo adulti (come Maria e Giuseppe) ma anche il bambino divino, gli animali (bue e asino), i primitivi (pastori) e i pazzi (Magi) compongono il quadro del rivelarsi del mistero. La trasgressione animale, senza la riduzione borghese a soprammobile o a passatempo, può essere una risorsa per comprendere a quale cura dell’altro Dio ha chiamato ogni uomo.
Per il mio lavoro ho frequentato lungamente le strade della mia città, Napoli.
In una mattina fredda di un giorno d’inverno notai un capannello di persone contro una saracinesca, serrata oramai da lungo tempo. Mi avvicinai e notai che l’oggetto dell’attenzione dei curiosi era un barbone avanzato negli anni ed il suo cane. Il vecchio – sporco e malandato, forse ciucco – dormiva profondamente mentre il cane – ben sveglio – guardava gli astanti, accucciato contro quello che verosimilmente era il suo compagno di strada.
Commenti dei curiosi: “Povero cane, chissà se il vecchio gli da’ da mangiare”.
La cura per l’animale è più semplice: perché l’animale non tradisce mai, non illude, non finge, non aggira, non mente. Resta sempre infantile, perché non parla. Ogni animale, pur crescendo e cambiando fisicamente, resta sempre cucciolo, diretto, immediato, perché senza parola e senza mani. Mi sembra che tutto questo possa applicarsi bene a Canis familiaris, e per un motivo estremamente semplice: è stato selezionato per essere così da millenni, e l’uomo lo ha voluto per essere appunto un umano puro, innocente, che ti segue anche se lo bastoni. Per altri animali beh, avrei i miei dubbi, e possiamo parlare sia di animali complessi come i grandi primati (tra i quali avvengono guerre, stupri, tradimenti, massacri: provate a cercare “Gombe chimpanzee war”) che di animali meno complessi ma più sociali come i ciclidi. L’etologia ha rotto parecchio il dualismo uomo/animale sta mostrando invece un continuo.