Un altro elogio (teologico) della follia

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Lo si sente ripetere stancamente anche oggi, spesso da gente che ormai non si stupisce più di nulla, che la filosofia nasce dalla meraviglia. Quello che in genere si omette di dire è che a nascere dalla meraviglia non è tanto il sapere filosofico così come lo conosciamo ai nostri giorni, quanto il desiderio di capire al suo livello più basilare: nudo, affamato, ricco di espedienti.

Forse riesco a spiegarmi meglio con un esempio. Quando lo scorso marzo l’Italia, e dopo di lei, a cascata, come i tasselli di un gigantesco domino, l’Europa intera si è fermata per frenare il contagio del nuovo coronavirus, lo stupore è stato tanto. È cominciato come una forma di curiosità spigliata, ma a un certo punto è diventato sgomento. Che cosa poteva significare, infatti, per una società che ha costruito la propria forma di vita intorno alla velocità, il dinamismo, la folla, il consumo, le relazioni, i viaggi, fermarsi di colpo e chiedere, supplicare, talvolta persino intimare alle persone di stare lontano le une dalle altre? Eravamo attrezzati per una sfida del genere? Quali altre fragilità impreviste potevano nascondersi appena dietro l’angolo?

Inizialmente un simile stato di agitazione è stato come risucchiato dalle esigenze pratiche e canalizzato nella soluzione di problemi (ce la faremo a fare la spesa? Dove posso trovare mascherine e disinfettanti? Come mi devo comportare se mi viene la febbre? È da irresponsabili fare visita alle persone care? Come farò a ritrovare la concentrazione per rispettare le scadenze lavorative?), ma una volta superato lo smarrimento iniziale, chi non è ostile di principio alla speculazione ha cominciato a osservare il mondo circostante con occhi diversi.

Come mai non solo le nostre città, ma anche i luoghi riservati allo svago sono stati progettati per ammassare la gente? Perché le persone che fanno i lavori di cui abbiamo più bisogno sono relegati in fondo alla gerarchia sociale? Come mai molte delle attività che svolgevamo quotidianamente si sono rivelate per nulla indispensabili?

La lista di domande oziose potrebbe essere ben più lunga e oscillare dalla curiosità con cui abbiamo registrato il rapporto schizofrenico delle persone con il sapere scientifico («va bene, sì, ma solo se è immacolato») all’improvvisa riscoperta dell’importanza dello Stato, dalla constatazione dell’evanescenza dei rapporti di solidarietà fondati solo su interessi convergenti (Ach Europa!) allo smascheramento della faccia truce del processo di civilizzazione (il cuore di pietra dei paesi «frugali») o all’urto doloroso con la sconcertante polisemia del concetto e della pratica della libertà. Nessuno di questi interrogativi, a pensarci bene, è di competenza esclusiva di una disciplina scientifica accademicamente certificata. Ciascuno, perciò, quando se li pone, è costretto a fare da sé.

«Eppure c’è una Chiesa»

A conti fatti, l’umore che sto cercando di evocare non è poi così diverso da quello a cui Eugenio Montale ha dato voce in alcuni versi sciolti, scritti in un altro anno fatale della storia recente, il 1968: «Ho contemplato dalla luna, o quasi, / il modesto pianeta che contiene / filosofia, teologia, politica, / pornografia, letteratura, scienze, / palesi o arcane. Dentro c’è anche l’uomo, / ed io tra questi. E tutto è molto strano» (corsivo mio). È questo lo stupore filosofico che ho cercato di evocare sopra. Uno solleva il capo, sgrana gli occhi, si gratta la testa e dice tra sé e sé: «Mmmm, è tutto molto strano». Dopo di che i pensieri cominciano a rincorrersi.

Leggendo il bel libro di Marcello Neri, Fuori di sé. La Chiesa nello spazio pubblico (EDB, 2020), l’impressione che se ne ricava è che sia stato scritto in uno stato d’animo simile. Di fronte a un mondo inceppato da un microrganismo patogeno più subdolo che letale è come se l’autore si fosse fermato a contemplare una vita sociale ridotta ai minimi termini, quasi cristallizzata, e si rigirasse nella bocca una frase che, quanto più viene ripetuta, tanto più si rivela essere un condensato di stupore: «Eppure c’è una Chiesa».

Da questa osservazione minima prende poi avvio una meditazione stratificata che, ripercorsa a ritroso, rivela la forma precaria di una costellazione teorica in bilico tra pareidolia e pattern recognition, tra l’illusione di un riconoscimento e un’autentica agnizione. Più in particolare, è dall’urgenza di comprendere una fase storica che a Neri sembra avere un delicatissimo «carattere costituente» (p. 15) – e a cui viene riservato nel Preludio un monito da ultima spiaggia: «è ora o mai più» (p. 18) – che trae origine l’affresco storico proposto nel libro.

Come ogni affresco degno di questo nome, anche quello dipinto in Fuori di sé non ammette ripensamenti e richiede una mano ferma. La maturità intellettuale dell’autore, teologo di lunga esperienza e ampie letture, si rende riconoscibile principalmente nella precisione e fermezza dei suoi giudizi sotto i quali si avverte però una generosità ermeneutica che traspare dalla rassicurante voce fuori campo che accompagna per mano il lettore in una navigazione sotto costa dove le insidie si nascondono in ogni ormeggio. Per ribadire quanto detto sopra, la conoscenza non è un affare semplice nemmeno quando il desiderio di capire scaturisce dalla meraviglia. Il più delle volte, anzi, lo stupore è solo l’inizio di un viaggio pieno di insidie.

Nel prosieguo proverò a ripercorrere questo itinerario, anche se, per ragioni di spazio, non potrò fare molto di più che ricostruire a grandi linee il denso ragionamento di Neri e suggerire alla fine una chiave di lettura parzialmente trascurata nel testo. Nessuna recensione, per quanto scrupolosa, può tuttavia sostituire lo studio approfondito di un testo che è calorosamente consigliato a chiunque abbia a cuore il destino, non solo della Chiesa, ma di beni umani irrinunciabili come la giustizia, l’autogoverno, la solidarietà, la fraternità, la speranza.

Prigioniera del suo passato recente

Per riprendere il filo del discorso, torno all’esclamazione che ho messo in bocca all’autore per dare un volto allo stupore che anima la sua ricerca: «eppure c’è una Chiesa». In effetti, durante i primi mesi della pandemia, di fronte allo spettacolo di piazza San Pietro deserta, dei riti funebri vietati, degli edifici di culto svuotati, dei sacerdoti morti di Covid-19 e di un generale risveglio d’interesse per le questioni ultime, sono stati in molti, credo, a guardare la Chiesa e la sua opera con occhi diversi. C’è una Chiesa, dunque. D’accordo, ma come ci è la Chiesa nel nostro tempo? È forse lì come un residuo del nostro passato religioso? Oppure è sopravvissuta come un fortilizio dove si sono rintanati i true believers nell’attesa di una rivincita che pare profilarsi all’orizzonte? Oppure esiste come un operoso laboratorio culturale proiettato verso un futuro ancora difficile da mettere a fuoco?

Marcello Neri, lo si capisce fin dalle prime pagine del libro, oscilla nel suo ritratto del passato, presente e futuro della Chiesa tra due sentimenti contrastanti. Da un lato, il tono del suo ragionamento è dettato dal senso pressante della fine di un’epoca. Dal suo osservatorio personale, la tarda modernità, o postmodernità che dir si voglia, avrebbe sancito infatti il tramonto definitivo di quella costellazione culturale entro cui ha preso forma il confessionalismo cattolico sotto la spinta dello scisma protestante e della Guerra dei trent’anni.

Tale constatazione di decesso, comunque, rifugge da qualsiasi enfasi apocalittica in quanto è bilanciata cumulativamente da (1) un gusto inconfondibile per le sfide che il tempo nuovo ha in serbo per i non rassegnati; (2) una fiducia non di maniera nelle «forze creative» (p. 15) di cui ancora dispone la fede cristiana; più in generale da (3) un’apertura verso l’ignoto che, pur non assumendo quasi mai i tratti concitati della profezia, ne eredita comunque lo spirito battagliero.

Il punto di partenza del discorso di Neri, come dicevo, è una diagnosi del tempo molto critica verso lo stato di salute della Chiesa cattolica, descritta a più riprese come una verspätete Kirche: un’istituzione prigioniera del suo passato recente. Tale ritardo storico pone la Chiesa in una condizione che è sia uno stato di attesa guardinga sia il lento ma inevitabile approssimarsi a un bivio cruciale. La posta in gioco, in definitiva, è proprio l’uso del tempo. La duplice esperienza del tempo – cronologico e messianico – tipica dell’esperienza di fede cristiana si ripropone infatti nelle nuove circostanze storiche in una veste che esalta la dimensione cairologica del tempo vissuto.

Mi spiego meglio. La Chiesa è un’istituzione mondana e non può che operare all’interno della cornice del tempo omogeneo e vuoto dei calendari. Simultaneamente, però, il suo darsi da fare nel tempo ha senso solo se serve per custodire la possibilità di un altro tempo, il «tempo di Dio» (p. 98), in cui la salvezza deve poter fare irruzione nella storia mettendo a soqquadro ogni ordine di priorità mondano. È proprio la preminenza del tempo messianico in quanto condizione d’intelligibilità del tempo cronologico che dovrebbe spingere la Chiesa fuori di sé, cioè al di là dei confini identitari del proprio corpo istituzionale.

Per ribadire il punto: la Chiesa c’è, dunque, ma il suo uso del tempo non risponde alla logica né della sua genesi né della sua destinazione. A che cosa risponde, allora? E a quale contingenza storica rischia di non sopravvivere?

La risposta che Marcello Neri offre a questo quesito cruciale per la sua diagnosi critica ha un debito esplicito con l’influente genealogia della civiltà moderna elaborata in cinquant’anni di studi da Paolo Prodi, alla cui memoria il libro è dedicato. In questa prospettiva, detto concisamente, la matrice contrastiva della modernità, cioè «il dualismo moderno del potere fra il sacro e il profano» (p. 47), assume un profilo inconfondibile nel cono d’ombra proiettato dal suo tramonto, che ha inizio dopo la Prima guerra mondiale e culmina nell’odierna crisi degli ordinamenti liberaldemocratici.

Per usare il lessico di Karl Jaspers, il «crinale senza ritorno» (p. 17) della postmodernità è una sorta di controrivoluzione assiale che sigilla il divario tra terra e cielo scavato dalle grandi religioni storiche trasformando il dinamismo teleologico moderno in una corsa all’innovazione compulsiva e autoreferenziale in cui ogni differenza ideologica o etica significativa viene smussata e inglobata nei meccanismi spersonalizzanti della produzione e del consumo.

Tradizione e diritto

A questo appuntamento cruciale della storia la Chiesa arriva con un fardello di strumenti teologici, ecclesiologici e pastorali in larga misura disfunzionali. Per cominciare, il suo funzionamento è appesantito da una comprensione sclerotizzata e feticizzata della tradizione che fa sì che «forse per la prima volta nella storia, [essa] non riesc[a] strutturalmente mai a essere dove il cristianesimo effettivamente è» (p. 72). Detto in altri termini, la tradizione, pur essendo un fattore di stabilizzazione essenziale nel flusso della vita e dell’esperienza umana, non può mai essere autosufficiente. La pur indispensabile chiusura dei possibili dipende cioè da quell’apertura originaria che è «il rendersi presente di Dio nel vissuto di Gesù di Nazaret» (p. 63), al cui servizio dovrebbe sempre porsi la tradizione ecclesiale nella consapevolezza che la sua funzione è «quella di autorizzare il suo superamento» (p. 53).

In questo ricorso alla tradizione come un bene disponibile a prevalere, pertanto, è il desiderio di controllare in un regime di monopolio la messianicità del tempo immunizzandola dai rischi connessi alla sua esteriorizzazione in un mondo, quello della modernità compiuta, il cui governo è demandato per cause di forza maggiore a un potere secolare da cui ci si attende tutt’al più il riconoscimento della propria non autosufficienza in una situazione di duopolio del potere tra Stato e Chiesa.

All’obiettivo dell’istituzionalizzazione integrale della tradizione e del suo distacco dall’«operosità quotidiana della fede» (p. 75) ha dato un contributo fondamentale il diritto canonico che, a partire dal Concilio di Trento, ha subito una metamorfosi epocale passando «dall’essere un corpus pluriforme, legato all’esercizio pratico della giurisprudenza ecclesiale, all’univocità deduttiva della figura del codice quale unica fonte centralizzata del diritto nella Chiesa, rispetto alla quale la giurisprudenza non assume che il ruolo passivo di applicazione letterale della norma codificata – senza un vero e proprio spazio di ermeneutica contestuale della legge positiva» (p. 77).

Tale furia regolatrice, che procede in parallelo a quella della società disciplinare moderna, ha condotto, da un lato, a una «totalizzazione codificata» (p. 81) della comunità dei credenti e, dall’altro, a una positivizzazione della «potestas gerarchica, concentrandola nel luogo di massima evidenza della sua indefettibile unità – ossia nel romano pontefice» (p. 84), a cui viene affidato il ruolo storicamente inedito di causa prima dell’intero corpus di norme che disciplinano la fede personale e la sua traduzione in pratiche religiose quotidiane.

Nel momento, però, in cui cambia radicalmente il contesto storico e il potere migra «nelle mani invisibili e senza luogo delle potenze tecno-finanziarie» (p. 57), il duplice irrigidimento ecclesiale, finalizzato alla custodia della tradizione e alla costruzione di un ordinamento giuridico schermato rispetto a ogni esteriorità, ha come conseguenza la diaspora della «fede intesa come ricerca storica della verità evenemenziale del Dio cristiano» (p. 89). Ed è a questo punto che si ripropone la questione della mediazione fra l’istituzione ecclesiale e la dimensione pubblica della storia umana che nella nuova situazione non può più essere assolta efficacemente dal diritto canonico.

Solo ora, infatti, l’irrilevanza pubblica della teologia e la riduzione della profezia alla sfera intima della santità personale possono apparire per quello che sono: un tradimento della vocazione messianica del cristianesimo e una defezione rispetto alla missione di far irrompere e agire nella storia umana il «futuro anteriore del tempo di Dio» (pp. 41 e 140). La Chiesa, insomma, c’è, ma è come se avesse barattato la sua ragion d’essere per la sopravvivenza.

Fantasia teologica e intelligenza pratica: le risorse

Per riassumere, una Chiesa arroccata attorno a una variante ecclesiale della societas iuridice perfecta e immersa nel tempo non cairologico in cui si cristallizza una fedeltà statica alla tradizione, è chiamata oggi a fare i conti con l’esaurimento delle ragioni storiche che avevano, se non giustificato, quantomeno assecondato tale processo di confessionalizzazione. E mentre dilapida le sue energie in dibattiti di retroguardia o lotte tra fazioni curiali, l’istituzione nel suo insieme fatica ad ammettere che il suo principale problema non sia tanto ritrovare se stessa, quanto piuttosto «sfuggire a se stessa», sia all’interno del recinto ecclesiastico sia nell’esteriorizzazione del cristianesimo come patrimonio culturale messianicamente neutralizzato.

Detto più concisamente, la Chiesa è come se fosse prigioniera della sua vittoria di Pirro contro le versioni apertamente antireligiose del progetto moderno. Il fatto, cioè, di essere entrata in competizione con lo Stato postvestfaliano sul suo stesso terreno l’ha resa istituzionalmente inadatta a predicare il valore universale, non settario, della propria missione.

Per invertire la tendenza, nota l’autore in più passi del libro, la Chiesa dovrebbe riscoprire la fantasia teologica e l’intelligenza pratica che le hanno consentito in passato di rispondere alle innovazioni storiche anche mettendo «a repentaglio l’integrità del suo corpo istituzionale» (p. 15). Un simile sacrificio di sé sarebbe tanto più indispensabile oggi proprio per preservare il legame con le fonti spirituali dell’operosità evangelica che, non essendo un patrimonio separato da difendere a discapito del resto dell’umanità, andrebbero piuttosto condivise il più liberalmente possibile in vista di un’azione comune nello spazio storico. È in quest’ottica che la teologia viene ripetutamente sollecitata a cercare gli strumenti più efficaci per alimentare la fiducia nella rilevanza pubblica del proprio sapere.

A questo scopo può avere senso sia cominciare propedeuticamente da un «abbozzo di ecclesiologia politica» (p. 8), quale quella delineata in Fuori di sé, sia optare invece per la «conversione pastorale» auspicata da papa Francesco, che non significa affatto «riallineamento disciplinare» (p. 124) della teologia, bensì il suo prodigarsi in una forma di sperimentalismo culturale rivolto all’umanità intera, nella consapevolezza che storia della salvezza e storia umana si intrecciano di continuo in maniere che sfuggono a qualsiasi presa di distanza dogmatica dalle pratiche popolari della fede.

Questa riscoperta del nucleo messianico dell’esperienza cristiana del mondo non incontra comunque solo ostacoli sul proprio cammino. Tra le macerie lasciate dietro di sé dal disfacimento della modernità europea, da cui dipende la fortuna del «sistema tecno-finanziario che ha monopolizzato il potere abbandonando ogni dovere civico e civile del suo esercizio» (p. 34), germogliano infatti anche i semi della vita religiosa che esercita oggi un fascino insospettabile sulle generazioni più giovani.

Quando parla del «carisma nella vita religiosa» (p. 31) e del suo «tratto squisitamente politico e pubblico», Neri ha in mente consigli evangelici di ispirazione latamente francescana come: (1) la «critica all’ossessione del possesso come proprietà esclusiva e intangibile, privata, coltivata per sé e fine a se stessa» (p. 35); (2) il «vincolo fraterno della vita religiosa», grazie al quale viene perseguita creativamente e immaginativamente «una riscrittura continua della forma condivisa ed egualitaria del vivere-insieme fra persone che non si sono scelte tra loro (che è la condizione comune del vivere nella dimensione pubblica della socialità umana)» (pp. 36-37); e infine (3) un ripensamento allo stesso tempo realistico e messianico delle relazioni gerarchiche nella «ricerca continua di un modo non egemonico di esercitare il potere» (p. 39) e di limitazione e controllo «evangelico» della sua gestione provvisoria all’interno delle pratiche comunitarie.

Questo tipo di normatività dal basso, esemplare, che non dipende dalla «stasi della ripetizione ma da un’incessante attualizzazione all’interno di contesti culturali diversi e pluriformi» (p. 30), è precisamente il prototipo di sperimentalismo teologico orientato al futuro capace di rispondere all’urgenza suscitata «dall’irruzione inattesa del tempo messianico, con la sua richiesta di sospensione e ribaltamento degli ordini costituiti» (p. 39). Più in particolare, l’intreccio di teoria e prassi tipico dell’osservanza comunitaria dei comandamenti evangelici entra in risonanza con la natura opposizionale della fede cristiana, impegnata da sempre a destreggiarsi tra la sua traduzione istituzionale, con l’annessa temporalità cronologica, e la sua manifestazione come «pratica quotidiana dell’operosa reazione all’irruzione […] del tempo di Dio» (p. 98).

Note conclusive

Un aspetto dello stile di pensiero di Marcello Neri che calamita l’attenzione di chi, come l’estensore di questa nota critica, ha dedicato molto tempo negli ultimi anni allo studio del nuovo dibattito sulla secolarizzazione – argomento che taglia trasversalmente molti dei temi discussi finora – è il carattere schiettamente binario della macchina interpretativa da lui congegnata per contestualizzare storicamente e analizzare nel dettaglio le cause della crisi strutturale della Chiesa cattolica nel crepuscolo della modernità (tempo messianico vs tempo cronologico; Chiesa vs Stato; tradizione vs esperienza; diritto canonico medievale vs diritto canonico moderno; profezia vs utopia; ecc.).

Per andare direttamente al punto, Neri non sembra più di tanto preoccupato da un pericolo contro cui hanno messo in guardia molti critici della tesi classica della secolarizzazione. Mi riferisco al rischio di fare leva su concetti, esempi, vicende e teorie che spiegano troppo, inducendoci a trascurare aspetti della questione che dovrebbero invece starci a cuore in quanto possono avere un impatto rilevante sulle conseguenze pratiche delle nostre diagnosi processuali.

Il principale antidoto metodologico escogitato dai decostruttori del teorema della secolarizzazione per fare fronte a questo problema è la moltiplicazione delle angolature esplicative e narrative. L’obiettivo ultimo di un simile oneroso esercizio di rifrazione non è soltanto rendere giustizia al carattere non lineare, ramificato, in qualche caso francamente caotico della storia moderna, ma anche trovare il giusto punto di bilanciamento nella polisemia dei concetti indispensabili per soddisfare l’urgenza conoscitiva da cui trae slancio anche la riflessione di Marcello Neri.

In proposito, il primo esempio che salta agli occhi, una volta terminata la lettura del libro, è il rischio che, nell’ambito assai articolato delle valutazioni forti che danno profondità all’agire umano, la dimensione teologica (intesa come «sapienza linguistica delle persuasioni fondamentali in cui ne va dell’identità morale del cittadino», p. 110) finisca per fagocitare l’etico o lo spirituale, restringendo più del dovuto i parametri con cui vengono misurate le sfide che abbiamo di fronte, le risorse di cui disponiamo e le reali possibilità di giungere a una sintesi all’altezza delle nostre aspettative.

Ma quanto è effettivamente rischiosa la sottovalutazione del pluralismo etico e spirituale moderno per chi, come Neri, è disposto a barattare la stabilità garantita da un’identità ecclesiale schermata contro l’eccesso moderno di contingenza in favore della «follia» di chi è invece disponibile a dilapidare la propria rendita di posizione pur di lasciare socchiuso nella storia umana un uscio attraverso cui possa fare irruzione un tempo in grado di accogliere pienamente l’eccedenza delle esperienze limite umane?

L’insidia, a ben vedere, non sta tanto nell’«azzardo dell’inedito» (p. 76), che è probabilmente inevitabile, ma concerne piuttosto la qualità politica dell’alleanza con gli uomini e le donne di buona volontà auspicata fin dalle prime pagine di Fuori di sé. È da essa, infatti, che dipende in ultima istanza la realizzazione di un destino genuinamente comune o, detto altrimenti, di una «nuova costituzione del mondo e di un inedito ordinamento delle relazioni» (p. 18) che riannodi «i fili spezzati di una condivisa fraternità» (p. 21). La fraternità in questione, non va dimenticato, non è certo più quella di Caino e Abele. È piuttosto la solidarietà tra estranei che, per evocare Zygmunt Bauman, sono comunque alla ricerca del modo più rispettoso per essere «individualmente, insieme».

In ogni caso, affinché il desiderio di andare fuori di sé anziché restare tranquillamente rintanati entro i propri confini identitari si meriti un elogio teologico quale quello formulato da Marcello Neri nel suo utile affresco teorico, occorre ritagliare uno spazio adeguato, da un lato, a una sana collera profetica contro le ingiustizie del tempo presente, e dall’altro, a una fede incrollabile nel fatto che gli esseri umani meritino di essere giudicati più sulla base delle loro virtù che non dei loro vizi.

Se c’è una cosa che si può dire con certezza di Fuori di sé è che contiene entrambe in dosi tali da permettere ai suoi lettori e lettrici di incamminarsi con fiducia verso il futuro anche in un tempo dominato dall’incertezza come quello che stiamo vivendo.

Marcello Neri, Fuori di sé. La Chiesa nello spazio pubblico, EDB, Bologna 2020, pp. 144.

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Un commento

  1. Pietro 19 gennaio 2021

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