Il secondo intervento di Ghislain Lafont, all’interno del confronto di questo blog, identifica lo spazio per una nuova teologia eucaristica in una “decostruzione” della teologia classica, per liberarla da una lettura troppo segnata da una interpretazione del sacramento dell’altare come «rimedio al peccato». Una «eucaristia in paradiso» diventa la provocazione ad una risistemazione del sapere classico sulla comunione, sul sacramento e sul sacrificio. Che non va affatto perduto, ma può essere conservato solo al costo di un profondo e illuminante ripensamento.
Come è noto, ci sono due racconti sulla creazione dell’uomo all’inizio della Genesi. Il primo segue l’ordine cronologico della creazione, dal caos primitivo all’apparizione dell’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio. Nel testo, questa espressione è immediatamente glossata con la menzione della differenza sessuale: «maschio e femmina li creò». Poi viene una duplice benedizione di Dio espressa con la parola. La prima si traduce concretamente nel duplice dono della fecondità e della signoria sulla terra, sul mare e su tutte le creature che vi abitano. La seconda riguarda il nutrimento: essa è comune agli uomini e agli animali e riguarda tutti i vegetali. Si può notare qui che la parola sul cibo limita in qualche modo ciò che di per sé sarebbe possibile all’uomo: se egli domina la terra e il mare, ivi compresi animali e pesci, tuttavia può mangiare solo ciò che Dio gli dona: «l’erba che produce seme».
Nel secondo racconto, l’uomo è creato per primo, modellato dalla sabbia del deserto e animato dal soffio della vita. L’uomo vivente è collocato da Dio in un giardino meraviglioso e sente di nuovo una parola che riguarda il suo nutrimento: egli può mangiare dei frutti di tutti gli alberi del giardino (cosa che non lo fa uscire dal mondo vegetale) ma ad eccezione di uno tra di essi, dell’albero della conoscenza del bene e del male. Questa eccezione è espressa in una maniera un poco drammatica: al divieto di mangiare si aggiunge una minaccia in caso di trasgressione. Tale minaccia tuttavia rivela all’uomo di essere libero e di poter restare vivo finché osserverà il comandamento di Dio: libertà e immortalità si aggiungono, quindi, a fecondità e signoria.
Poi entra in questione la solitudine dell’uomo. Per rimediarvi, Dio crea diversi esseri viventi e li conduce all’uomo, ma questi non risolvono la questione. Fanno parte della categoria di esseri su cui l’uomo esercita la sua signoria. Per questo il «faccia a faccia che sia simile all’uomo» è creato a partire dal suo stesso corpo. In un certo senso, l’uomo e la donna sono una sola carne, si riconoscono l’un l’altro e la loro tranquilla nudità esprime la condizione per cui nulla si oppone alla loro piena comunicazione.
Se riprendiamo l’insieme di questa descrizione della creazione, la vediamo segnata da una immensa generosità. Diremo che è “paradisiaca”: è vero, e questo paradiso viene da Dio. Ma resta il fatto che in questo dono armonioso rimane un duplice “punto cieco”, un “buco nero” che si manifesta a livello del nutrimento. Dio dona il cibo largamente, ma non in maniera illimitata: il cibo permesso è circondato dal cibo vietato, in modo che quando l’uomo e la donna mangiano ciò che è germogliato nel loro giardino, nello stesso tempo mettono in opera la loro signoria sulla terra e riconoscono e accettano la parola di Dio. Questa azione naturale del nutrirsi è quindi anche “azione simbolica”, essa esprime un ascolto e una obbedienza. Questo “punto cieco” tocca poi anche Dio stesso: il suo comandamento, che ha definito per l’uomo uno spazio di libertà, lascia Dio disarmato davanti all’uso di questa libertà; se l’uomo la trasgredisse, Dio nulla potrebbe e patirebbe il rifiuto della parola! Certo, Dio è onnipotente, ma è una onnipotenza che parla, e che dunque dipende da una risposta.
In questo senso, ogni cibo assunto dall’uomo e dalla donna nel paradiso può essere detto “eucaristia”, ossia riconoscimento e azione di grazie a Dio che dona e che vieta, lode dell’identità divina e “sacrificio”, ossia accettazione e offerta di un limite posto dalla Parola di Dio.
Senza dubbio la tentazione era necessaria per permettere all’uomo e alla donna di fare del loro pasto un “sacrificio spirituale”. La tentazione in effetti divide e oppone ciò che era unito. Satana si rivolge a un solo membro della coppia, propone una spiegazione che divide l’uomo da Dio: Dio sarebbe geloso, e quindi, disprezzando la sua parola, l’uomo potrebbe arrivare alla sua vera statura, quella di un dio. Dunque, parola contro parola, e qui l’uomo comprende che cos’è la sua libertà: dire con una azione l’identità che riconosce a Dio e a se stesso. Siamo sulla soglia della tragedia, che s. Agostino esprime in termini di amore: amore di Dio o amore di sé?
Si comprende allora che, anche nello stato di innocenza, “l’amore è già sempre ferito”: l’economia dell’amore è quella di una preferenza e l’espressione di questa implica una certa perdita che, secondo l’espressione di Newman, è un guadagno, loss and gain. Acconsentire al limite per ritrovarsi nell’incontro. Per questo io penso che nell’Eden vi sia stata la proposta di una eucaristia, “sacramento e sacrificio”, secondo i termini più classici: il cibo assunto, mentre nutre effettivamente, esprime anche un riconoscimento nel senso profondo di questo termine (sacramento) verso Dio e verso la sua parola; esso implica nello stesso tempo una offerta che comporta la rinuncia all’autonomia assoluta, per stabilire la comunione (sacrificio).
Questo tema di una liturgia “eucaristica” nel mondo della innocenza primitiva mi sembra abbastanza estraneo alla tradizione teologica. In essa la sacramentalità appare legata in generale alla realtà del mondo peccatore e riscattato, per il fatto che essa significa e realizza la redenzione compiuta nel dolore dal Cristo. Essa mette a disposizione dei credenti la riparazione delle distorsioni causate nel mondo, nello spirito e nel corpo degli uomini, in seguito al rifiuto originale opposto a Dio. Prima del peccato, invece, vigeva una armonia organica e gerarchica. Il Dio onnipotente ed eterno ha creato tutte le cose con sapienza e ha promulgato una legge giusta e coerente con il suo disegno iniziale. L’uomo, la più alta delle creature, è anch’esso perfetto: in lui le realtà superiori, che sono dell’ordine dello spirito e quindi immateriali, dominano le inferiori e materiali e non dipendono in alcun modo da esse. Perciò, per quanto riguarda tanto la conoscenza quanto la grazia, una mediazione sacramentale, che riguardasse necessariamente il corpo, sarebbe disordinata e inutile (cf. per esempio la Summa Theologiae di s. Tommaso, III, 61, 2). L’uomo, perfettamente equilibrato in origine, in armonia prestabilita con la legge di Dio, in effetti avrebbe dovuto obbedire alla legge, di cui avrebbe compreso immediatamente il legame con la vita eterna. Su questo piano della intellegibilità, di una perfetta razionalità, la disobbedienza, in un senso incomprensibile, risulta ingiustificabile, poiché tutto era disposto alla perfezione. Ora, comunque essa ha avuto luogo. Bisognerà dunque che il Figlio di Dio stesso venga nella carne ferita e ponga il gesto perfetto dell’obbedienza alla volontà di Dio. Ciò restaurerà l’ordine infranto. Ci sarà allora posto per i sacramenti, che significano questa obbedienza del Cristo, mettendola a disposizione dell’uomo, in modo significativo ed efficace.
Mi sembra che questa problematica della teologia classica sulla sacramentalità non riesca a dare tutto il suo valore all’aspetto intrinsecamente relazionale della parola. Tale teologia si fonda sulla onnipotenza della parola del Dio infinito; ora, la parola onnipotente è creatrice: essa non sperimenta alcun “faccia a faccia”, non si rivolge a nessuno. Essa è assolutamente performativa: ipse dixit et facta sunt, «egli dice ed è fatto». Se, poi, questa parola si rivolge ad un destinatario, essa è qualcosa di simile ad un imperativo categorico: che si obbedisca o non si obbedisca a questa legge senza fondamento, conta solo la onnipotenza di colui che parla. Ma, nel racconto della Genesi, non sembra essere così: la parola indirizzata, anche se è divina, non è onnipotente in modo assoluto. Anche se prende la forma di un comandamento formale, ha bisogno di essere ascoltata e compresa dall’uditore che decide della propria risposta. L’ascolto, a sua volta, presuppone il riconoscimento della autorità di colui che parla; essa include anche – almeno implicitamente – la coscienza che l’uditore ha di se stesso: “è proprio lui che mi si rivolge e sono proprio io che rispondo”. Si comprende allora che la tentazione di Satana non riguarda immediatamente l’atto da compiere (mangerà? non mangerà?), ma le due identità: quella di Dio (è giusto o ingannatore?) e quella dell’uomo (è o non è come un dio?). Lì dentro non vi è alcun peccato, ma il caso serio di uno scambio di parole. La decisione di fronte alla tentazione implica allora ciò che prima ho chiamato sacramento e sacrificio: mangiare o non mangiare significa e realizza la relazione tra le due identità, divina e umana; la verità delle due identità non si scopre se non mediante l’accettazione di un limite, quindi di una negazione. E il risultato di questo sacramento è la risposta alla domanda: chi è Dio? Chi è l’uomo? E l’instaurazione della vera relazione tra uomo e Dio.
Se tutto ciò che precede è giusto, si vede che vi è posto per una “nuova teologia eucaristica”, governata non dalla economia della riparazione del peccato, ma dalla considerazione del simbolismo costitutivo del mistero di Dio in rapporto all’uomo (all’interno del quale certo si dovrà inserire il mistero della redenzione). Si potrebbe immaginare che l’impostazione da seguire debba essere allo stesso tempo una sorta di “decostruzione” della teologia classica e una “costruzione” della teologia nuova. Per decostruzione non intendo distruzione, ma analisi degli elementi, spiegazione della loro articolazione, identificazione dei benefici e denuncia delle insufficienze. Ne potrebbe nascere, poco a poco, una ricostruzione sulla nuova base del simbolismo originario, ma che conservi, collocandoli diversamente, gli elementi della teologia classica.
Pubblicato il 22 febbraio 2018 nel blog: Come se non.
Mi pare una lettura interessante che potrebbe inserirsi bene in un’ottica storico salvifica, evolutiva e cristologica, in cui Gesù si rende vero interprete dell’Eucaristia rimettendo in essere l’originale piano di Dio corrotto dai progenitori… Ma io non sono un teologo.
Commemoratio Feria Quinta infra Hebdomadam I in Quadragesima
Orémus.
Da, quǽsumus, Dómine, pópulis christiánis: et, quæ profiténtur, agnóscere, et cæléste munus dilígere, quod frequéntant.
Per Dóminum nostrum Iesum Christum, Fílium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitáte Spíritus Sancti Deus, per ómnia sǽcula sæculórum.
R. Amen.
Ho la sensazione che la nuova teologia eucaristica sia guardare l’Eucarestia, che abbiamo sotto gli occhi e vicinissimo a noi, con un binocolo rovesciato. In questo modo la vedremo piccola e lontana e troveremo in nuce alcuni elementi e non tutta la sua ricchezza. Questo ribaltamento di prospettiva mette al centro la creazione e spinge in periferia la Redenzione. Cristo diventa una evoluzione della creazione e non Dio che dona Suo Figlio agli uomini perché possano diventare ed essere a pieno titolo figli di Dio e non semplicemente creature di Dio. La proposta di p. Ghislain Lafont appare molto accattivante. Personalmente la trovo come una elaborazione devozionale, come tanti atti devoti.