All’improvviso un “piccolo” virus sconvolge il mondo, facendo di tutti (pan) un solo popolo (demos): per la prima volta un “villaggio globale”. Sconvolge fino alle fondamenta, facendo cadere, una a una, case di carta, sicurezze vuote, preoccupazioni di superficie.
Mette a nudo il fondo più veramente umano nell’esplosione insperata di generosità fraterna che ci unisce di fronte alla sofferenza e alla morte. Impone il dominio di ciò che la psicologia chiama “principio di realtà” e di quello che millenni fa la Bibbia qualificò come la tentazione di voler essere come Dio. Con una differenza: la psicologia, per lo meno un tipo di psicologia, ci lascia indifesi di fronte all’istinto di morte: il libro della Genesi accende una speranza di salvezza per il futuro.
Ma la speranza – lo sapeva Péguy – è una bambina fragile e piccola. Ha bisogno di attenzione. L’umanità si trova a un crocevia dove ha una nuova occasione di imparare. La Modernità, nel suo entusiasmo di emancipazione, ha creato cattive abitudini, tipiche di ogni adolescenza: i giovani, carichi di ragioni per protestare, esagerano in ciò che propongono; gli anziani difendono il passato già finito, però conservano valori che non si debbono abbandonare (l’ultimo libro di Habermas, Auch eine Geschichte der Philosophie, di oltre 1.700 pagine, insiste sulla saggezza dei novant’anni). Parlando a partire dalla teologia, ciò comporta che di fronte alla sfida del male tutti, tanto la tradizione religiosa quanto la protesta atea, hanno da imparare.
Urgente è unirsi nella lotta: mediante il dialogo critico nelle interpretazioni, traendo profitto da ciò che unisce nella pratica, prima di arrivare alle differenze nella teoria. Per fortuna, noi esseri umani siamo complessi, e molte volte mettiamo in pratica anche quello che non sappiamo. Qualcosa di nuovo sta avvenendo. Nella sanità, nei servizi, nella vicinanza assistiamo a un lavoro unito e congiunto, senza tessera di partito né certificati di battesimo, senza distinzione di sesso e anche senza frontiere nell’investigazione. Perdersi in attacchi o accuse, convertendo il male in apologetica difensiva o nell’accusa di essere la “roccia dell’ateismo”, rappresenta una reazione sterile.
Inoltre, è una reazione culturalmente anacronistica. Perché le posizioni correnti partecipano entrambe, conservatrici e progressiste, a uno stesso pregiudizio acritico: credere nella possibilità di un mondo-senza-male. Oggi sappiamo che questo non è che un mito obsoleto, che religiosamente sogna paradisi primitivi e freudianamente fantasie infantili di onnipotenza. Al di fuori delle discussioni pro o contro la teodicea, oggi tutti sappiamo che il male è il prodotto inevitabile di un mondo necessariamente finito. Lo sanno i filosofi che, con Spinoza, insegnano che «ogni determinazione è una negazione» e con Hegel che la contraddizione è la legge di ogni realizzazione finita. Lo sa pure il senso comune, insegnando che non si può bere e soffiare contemporaneamente e che non è possibile fare frittate senza rompere le uova.
Nel non avvertirlo sta la trappola, invisibile perché premoderna, del famoso dilemma di Epicuro: o Dio può e non vuole, e allora non è buono; o vuole e non può, e allora non è onnipotente… Perciò, se il mondo-senza-male è un concetto impossibile e contraddittorio, trarre conclusioni da esso equivarrebbe a dire che Dio non è buono perché non vuole far quadrare il cerchio o non è onnipotente perché non fa ferri-di-legno.
Quando questa evidenza si fa esplicita, tanto anacronistico è continuare a credere in un Dio ammettendo che, se voleva, poteva non solo por fine al coronavirus ma a tutta la sofferenza del pianeta, quanto negare la sua esistenza, riconoscendo l’autonomia del mondo e sapendo che quanto in esso capita ha sempre una causa intra-mondana.
La religione ha bisogno di attualizzare la sua immagine di Dio e rispondervi con processioni o suppliche che hanno senso solo presupponendo che è possibile un mondo-senza-male. Per la stessa ragione, l’ateismo ha bisogno di essere conseguente e non negare Dio perché non interferisce nelle leggi fisiche o non controlla la libertà umana.
Fare questo passo ha conseguenze importanti, chiare a livello pratico ma più oscure per il senso della vita e della storia. Innanzitutto: stiamo progredendo. Il mondo è oggi illuminato da un’onda quasi gravitazionale di solidarietà fraterna che ci unisce tutti contro il male, il nemico comune. Dura lezione, però lezione.
Le differenze appaiono su un altro livello. Chi non crede in Dio ha davanti a sé il compito di configurare la sua vita e darle senso dentro la semplice immanenza. In essa potremo vincere il coronavirus: però dobbiamo tener conto del fatto che il male continuerà a essere presente con altri volti, compreso l’ultimo: la morte, questo «padrone assoluto» di cui parlò Hegel.
Chi crede in Dio ha il compito urgente di rendere attuale la sua immagine.
Un Dio che crea per amore e vive consegnato alla sua creazione, però con una presenza che non può essere evidente, perché fonda e promuove senza interferire rispettando l’autonomia delle creature: sia quella delle leggi fisiche (Whitehead parla felicemente di Dio come «poeta del mondo»), sia soprattutto quelle della libertà.
Il Vangelo, dando forma alla nostalgia più profonda del cuore umano, consiste nel proporre la scoperta che Dio, perché è in grado di crearci dal nulla e ha il potere di non lasciarci ricadere nel nulla, riscattandoci dalla morte, divenuta così l’«ultimo nemico» da essere vinto. Nel frattempo, ci è compagna nel cammino: la storia non è prova, ma condizione di possibilità dell’esistenza; e il male non è castigo, ma il pedaggio inevitabile della crescita in ogni esistenza finita.
La speranza è possibile, nonostante il male. E l’umanità ha diritto di sentirsi accompagnata. Anche in questo Whitehead ebbe parole che amo e che vale la pena citare in questo tempo specialmente bisognoso: «Dio è il gran compagno, l’amico nella sofferenza, che capisce».
Bellissimo