Il titolo di questo piccolo libro si ispira a un verso di Rainer Maria Rilke, la cui prima spiegazione sarebbe da cercare in quel pensiero di Van Gogh che, sopraffatto da «un terribile bisogno – oso dire quella parola? – di religione», usciva fuori, di notte, a dipingere le stelle. La notte che avvolge questo tempo difficile è, nell’evidenza, necessaria – con la determinazione di attraversarla senza fughe – a poter vedere le stelle, che sono il riflesso dei sentieri che queste pagine vorrebbero offrire.
Gli autori sono coinvolti a vario modo nel Centro Fede e Cultura “Alberto Hurtado” della Pontificia Università Gregoriana, che attraverso la pratica del pensare insieme, cerca di farsi carico delle sfide dell’intelligenza cristiana della vita, e delle culture che la abitano generandola nelle sue pieghe, che sempre più profonde cercano rabdomanti prima di teoreti. Al suo interno ha una proposta didattica offerta a studenti laici, prevalentemente sotto i trent’anni, la Scuola Macrothymia: una parola che custodisce nel suo radicamento biblico il debito alla tenacia e alla saggezza contadina, che conosceva la speranza come necessità. Bisogna rischiare e sopportare ogni genere di fatica e di rinuncia, investendo tutto, finanche le lacrime, nella prospettiva che il seme germogli (Sal 126). Vedere lungo, pensare in grande, scarnifica, impoverisce, investe al prezzo di lacrime che solo Dio sa teneramente raccogliere: «Solo un pianto ci salva adesso» (Mariangela Gualtieri). Affamati di parole che, almeno esse, abbiano il coraggio di affrontare la radicalità del presente, noi non vogliamo disperdere il pianto e i timori di questo momento, provando a riprendere a pensare insieme.
Siamo di fronte a un evento traumatico, a uno sgambetto teso alla storia. Ma non è Dio che si smentisce, quanto le nostre narrazioni a essere sconfessate, le nostre trasformazioni a essere contraddette, costretti, benedetto sia Dio, a un nuovo apprendistato. Più globale di qualsiasi guerra che si dica mondiale, più profondo dello zero di qualsiasi ground, più fragoroso di un muro che crolla senza riunire un continente, più devastante di una centrale nucleare che implode, più radicalmente egualitario di ogni utopia.
La pandemia del Covid-19 ha sfondato tutte le categorie e rimescolato i punti di riferimento, costringendoci a ridefinire le nostre esistenze a partire da spazi e tempi che, improvvisamente, non sono più a misura dei nostri corpi, capovolgendo i punti di sguardo, come neanche nella lucida visionarietà di un Kafka. Abbiamo scavato nelle memorie senza trovare analogabili soddisfacenti: ragione, lavoro, relazione, vicinanza, sicurezza, democrazia, povertà, disabilità – ma anche fede, Chiesa, spiritualità, sacramenti, prossimità – erano e sono ancora lì, ma non sono come prima. Lo vediamo, ma non sarà facile dirlo fino in fondo, soprattutto perché i nostri traumi, le nostre vulnerabilità, attraversano il presente sbattendoci in faccia un futuro che rischiamo di perdere.
Abbiamo bisogno dello sguardo profetico per reggere il dolore della Gloria di Dio che si congeda dal Tempio e dalle teofanie della vittoria, senza per questo venire meno alla sua alleanza e promessa. Affidiamoci alla pratica sapiente di vivere credendo che, anche se i segni della grazia possono venire meno, non può venire meno la grazia. Non ci deve mancare la lucidità per riconoscere che dalla radice da cui tutti proveniamo, oggi stanno nascendo sì cose nuove, ma perché il turbine sta scuotendo la foresta e i rami secchi si schiantano, anche alcuni di quelli su cui siamo ancora seduti.
Ci sono stati momenti della storia in cui le Chiese, per fragilità o per distrazione, non sono state capaci di fissare l’orizzonte; altri momenti, peggiori, in cui hanno preferito perdersi nei rimandi ristretti e consolatori dello specchietto retrovisore della vita, ammalandosi per inerzia. Ma ci sono stati anche tempi in cui le Chiese hanno riconosciuto il Signore che passava in mezzo a loro, più simile a una lievissima brezza che a un vento impetuoso, più prossime a un viandante che si inserisce nel racconto di quello che appare un fallimento, che a un progetto che si realizza.
Il nostro tempo si è interrotto, una frattura si è instaurata e non sappiamo nemmeno quanto durerà l’incrinatura, e quanto profonda, figuriamoci l’eventuale cicatrizzazione. Noi, corpi nel tempo, ci scopriamo feriti là dove nemmeno immaginavamo. Non si tratta di inventare narrazioni consolatorie, siano esse costruite su teodicee della fragilità umana o su apocalissi apocrife, ma di cercare parole che sappiano dire i processi mentre vengono vissuti, e contribuire, per quel che possiamo, a «svegliare l’aurora» (Sal 57), convinti che nessuno si salva da solo.
Centro Fede e Cultura Alberto Hurtado (a cura di), «Vedo la notte che accende le stelle». Sentieri in tempo di pandemia, con contributi di Giuseppe Bonfrate, Stella Morra, Vincenzo Rosito, Marco Ronconi, Manuela Terribile, Marcello Neri, EDB, Bologna 2019, e-book, 0,99 euro.