Prosegue la riflessione di Ghislain Lafont sul sacrificio simbolico. In questo quarto post egli riprende la intuizione di una “eucaristia in Paradiso” e la interpreta come “chiave ermeneutica” di tutta la storia della salvezza, fino alla pienezza di Cristo e alla missione della Chiesa. Un testo bello, forte e toccante.
Le mie due riflessioni precedenti (Un’eucaristia in paradiso? e Sacrificio simbolico) hanno tentato di mettere in luce il lato essenziale del sacrificio: esso è agente di umanizzazione, poiché permette un atto di riconoscimento non solo del Dio che è e che parla, ma anche di sé e degli altri. Esso struttura una società di soggetti, certamente diseguali poiché il Dio rivelato vi è riconosciuto e accettato come Dio nella misura in cui l’uomo trova la propria identità e la sua collocazione, nella loro autenticità e limitatezza. Ma la disuguaglianza qui non impedisce, bensì permette la comunione vera fra tre soggetti: Dio, sé e gli altri. Si tratta dunque di un sacrificio simbolico, che può essere anche detto sacramentale. Vorrei provare a dire qui che tutta la teologia sacramentaria potrebbe essere pensata alla luce di questo primato, mettendo provvisoriamente tra parentesi l’aspetto della redenzione dal peccato; di sicuro si tratta solo di una “epoché”, non di una soppressione: ma essa mi sembra necessaria se vogliamo andare avanti.
Storia sacra in Paradiso
Il libro della Genesi ci parla dunque dell’“inizio”, della costituzione primitiva dell’umanità. Giochiamo per un istante il gioco di questo inizio e immaginiamone il seguito. Che cosa sarebbe accaduto se in quel giardino l’uomo e la donna avessero resistito alla tentazione e vivessero pacificamente, dopo la rinuncia del serpente? In realtà, dopo il superamento della tentazione, l’uomo e la donna non sono più gli stessi: erano innocenti e tali rimangono, ma non sono più ingenui, né su Dio che da benefattore si è fatto interlocutore, né su loro stessi, perché la loro nudità naturale è divenuta nudità cosciente. Seppure non abbiano la conoscenza del bene e del male, tuttavia hanno compreso di essere sotto la parola di Dio: è precisamente questo che ora li definisce. Essi sono in ascolto: Dio, che aveva parlato degli alberi, di quelli donati con larghezza e di quello che aveva riservato per sé, dirà forse altre cose? Come manifesterà di nuovo il dono che vuole fare loro, come solleciterà di nuovo la loro libertà, e ci sarà da attendersi un nuovo intervento del serpente? In termini di sacrificio: la parola di Dio che cosa farà oggetto di dono e che cosa farà oggetto di divieto? Come entrerà in gioco lungo il tempo il sacrificio simbolico? Come giungerà alla sua pienezza?
Sembra così legittimo immaginare che l’Eden, come luogo eucaristico, conosca anche il tempo di una storia sacra, che possa mettere poco a poco l’umanità nell’orbita di una comunione perfetta. In definitiva, Dio non cesserebbe di parlare prima di aver detto tutto, e questo tutto, come sappiamo, è il Figlio suo. L’inizio della lettera agli Ebrei avrebbe potuto dire degli uomini innocenti ciò che dice degli uomini peccatori:
Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo. Questo Figlio è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola. (Eb 1, 1-3)
Se è così, il termine finale dell’economia iniziata nell’Eden doveva essere un triplice e perfetto riconoscimento: di Dio come Padre, di sé come figlio nel Figlio e degli altri come fratelli e sorelle, in una comunione che tende all’infinito. E il risultato di questa economia sarebbe stato lo stesso che all’inizio: un amore sufficiente per ascoltare la parola in un movimento di accoglienza della novità e di consenso alla perdita di alcune acquisizioni, fino a che Dio fosse tutto in tutti e che tutti fossero tali in se stessi. In secondo piano il credente scopre il configurarsi della dinamica divina in cui ogni persona è verso l’altro, dell’altro e con l’altro, in una circolarità infinita.
Il peccato e le sue conseguenze
Il peccato è accaduto, come fonte di divisione, di isolamento, di morte, di odio, di distruzione, e non cessa di moltiplicarsi, iscrivendosi nella terra e nelle società. Ma, come ho detto, vorrei lasciare provvisoriamente questo aspetto al di fuori della mia riflessione.
Ciò che colpisce, in effetti, nel leggere la Genesi, è la immediatezza del perdono. L’uomo non muore subito, non scompare. Dio continua a parlargli, fosse anche sotto forma di un giuramento. L’uomo e la donna generano e, se il peccato continua, Dio reagisce rinnovando la sua alleanza. Se l’episodio drammatico di Caino e Abele manifesta lo scacco della fraternità, arriva un terzo figlio, Set, inizio di una nuova stirpe. Se questa si esaurisce, tutto ricomincerà dopo il diluvio con Noé. Una pedagogia costruttiva si sviluppa all’interno di una moltiplicazione del peccato. Questo non è negato, la sua ostinazione viene riconosciuta, i rimedi immaginari vengono denunciati, ma una rieducazione morale e liturgica viene elaborata, mediante una Legge adattata alla debolezza degli uomini; la rivelazione prosegue, mediante la Profezia che è invito ad un comportamento adeguato al punto in cui ci si trova. Viene sempre rinnovata una proposta della Parola, perciò l’invito al sacrificio simbolico è sempre attuale e permanente: questo è l’unico luogo possibile di incontro e di riconciliazione. Questo invito è forse la chiave ermeneutica fondamentale di tutta la Bibbia. Allora viene Gesù.
Il sacrificio spirituale del Figlio
Gesù, che è innocente, viene assimilato agli uomini in cerca di riconciliazione con Dio: è il senso del battesimo in cui egli riconosce come tutti gli altri una vocazione divina. Vi è dichiarato Figlio prediletto ed è investito della missione della salvezza: stabilire il Regno universale grazie alla conversione di Israele. Come Adamo nella sua pienezza originaria, viene sottoposto alla prova: ascolta parole che non vengono da Dio e che lo distoglierebbero dal servizio che deve compiere, sostituendolo con un potere immaginario. Egli oppone ad esse la parola venuta da Dio. Così si manifesta in una situazione di sacrificio simbolico: egli ascolta e continuerà a farlo, modellando la sua condotta su ispirazione dello Spirito.
Gli uomini lo riconosceranno come un profeta, colui che dice le parole di Dio e che, in un primo tempo, mostra i segni straordinari della propria missione. Questi segni non sono fine a se stessi: se si guarda Gesù solo come un taumaturgo che fa miracoli, non se ne trae il messaggio del Regno di cui i miracoli sono solo una porta simbolica. Infatti sono il segno che il Regno di Dio è vicino, che occorre ascoltare colui che lo annuncia e rimodellare l’attesa adottando la sua parola profetica, anche se ci invita a prove difficili: ad andare al di là della lettera del periodo precedente e a reinterpretare la Legge e le tradizioni alla luce di ciò che Gesù propone. Vivere la liturgia (il sabato e le tradizioni) alla luce non solo di ciò che era, ma anche di ciò che deve venire e che Gesù rivela.
Intorno a Gesù, quattro gruppi possono essere identificati: le folle, avide di una salvezza immediata per ciascuno e per tutto il popolo; i discepoli chiamati, che si rivelano di buona volontà, ma di debole intelligenza a proposito della persona di Gesù; i farisei, forse i più vicini a Gesù a livello di conoscenza e di interpretazione della Legge: tuttavia poco disposti a lasciarsi convincere e che l’ostilità degli altri conduce all’ odio. Infine qualche singolo individuo preso in generale tra i poveri, capaci di comprenderlo: il paralitico, il cieco nato, un altro cieco (lo stesso?) Bartimeo, l’anziana donna al tempio, il centurione ai piedi della croce, Maria madre di Gesù.
Gesù finisce col morire, per mano di coloro che avrebbero dovuto accoglierlo, ma che sono rimasti nel loro immaginario religioso. Fino alla fine egli resta in ascolto e, quando Dio resta in silenzio, egli non abbandona la invocazione del Padre. La Croce è così l’azione simbolica per eccellenza. La Risurrezione è senza dubbio la risposta del Padre: il «Tu sei mio Figlio», pronunciato all’inizio, giunge qui alla sua pienezza.
Il sacrificio spirituale della Chiesa
La Chiesa potrebbe essere descritta come la comunità che ha ricevuto la testimonianza apostolica della morte e resurrezione di Gesù come atto fondatore dell’ultima tappa della storia della salvezza, quella che conduce l’umanità al Regno di Dio. Seguendo l’esempio di San Paolo, al capitolo 12 della Lettera ai Romani, essa potrebbe definirsi come “sacrificio spirituale”, in una sorta di atmosfera di umiltà, di carità reciproca, di gestione misurata del sapere: è questo che la rende gradita a Dio. Questo testo d’altra parte viene spesso citato dal Concilio Vaticano II. La Chiesa non finisce mai di meditare questo Mistero di Gesù nel quale si identifica con la sua vita quotidiana: lo approfondisce, lo confronta con le conoscenze, con le esigenze, con le sconfitte del mondo presente, al fine di rendere la sua missione più vera. La Costituzione Gaudium et spes dava, per così dire, un ritratto di questo sacrificio spirituale nel mondo contemporaneo, ossia nella seconda metà del XX secolo. In un certo senso, Laudato si’ ne è una rilettura parziale e aggiornata al primo quarto del XXI secolo: vi si descrive una situazione di cui si propone una analisi, si tenta un discernimento e si definisce una azione. Una tale comprensione del Mistero non è mai finita poiché il tempo reca sempre il suo contributo. Come dice il n. 8 della Costituzione Dei Verbum sulla Rivelazione, la contemplazione, lo studio, il senso cristiano, l’impulso dei Vescovi fanno progredire questa comprensione, soprattutto perché lo Spirito Santo orienta nella Chiesa e per il mondo la “voce vivente del Vangelo”. Il testo al quale mi riferisco descrive bene questo gioco di memoria che fa la Chiesa: allo stesso tempo ancorata al passato del Cristo e aperta al suo avvenire e a tutto ciò che può rivelarne il senso.
A partire da qui, noi vediamo meglio in che cosa consiste il sacrificio spirituale della Chiesa. Si tratta anzitutto di ascoltare il messaggio di salvezza che risuona continuamente in essa, acquisendo una familiarità con la Parola, secondo il versetto del salmo 119 (118), tanto caro al Card. Martini: «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino». Essa rivela senza posa il Cristo alla Chiesa. Questo è senza dubbio il luogo della preghiera comune e personale. Questo ascolto implica anche la vigilanza di uno spirito profetico, poiché finché non giunge la fine, vi è spazio per l’approfondimento creativo di cui parla il testo citato da Dei Verbum 8: l’ascolto richiede un discernimento spirituale. In secondo luogo, questo sacrificio consiste nel vivere secondo la norma evangelica della carità, come aveva visto bene il fariseo onesto che raccoglieva l’ultima parola profetica di Gesù (Mc 12, 28-34). Nel suo testo famoso sul sacrificio (De civitate Dei, X, 1-7) sant’Agostino aveva ben compreso ed espresso tutto ciò. E aveva correlato questo sacrificio spirituale al sacrificio liturgico della Chiesa.
Il sacrificio eucaristico
Che cos’è dunque l’eucaristia in questa prospettiva? Si potrebbe descriverla così: nella preghiera rivolta a Dio essa è celebrazione memoriale della carità crocifissa del Cristo; della sua continuazione nel mondo presente attraverso l’ascolto e la vita; della comunione misteriosa che va da ciò che Cristo ha sofferto a ciò che i suoi membri oggi soffrono; della anticipazione simbolica del momento in cui tutto sarà compiuto.
Ciò che occorre assolutamente custodire, in una teologia eucaristica, è senza dubbio la reciprocità costante tra la comunità evangelica, che si impegna nel sacrificio spirituale, e la comunità liturgica, che fa memoria del Cristo. Una non è senza l’altra, in un rapporto di reciprocità, e ciò che costituisce il legame è in ogni caso la realtà del sacrificio simbolico, rifiutato da Adamo e reso perfetto da Gesù.
Pubblicato il 19 marzo 2018 nel blog: Come se non.