Autonomia differenziata: una questione nazionale

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Sentinella quanto resta della notte?[1]

Il 5 marzo scorso, i vescovi delle diocesi di Sicilia hanno reso pubblico un comunicato stampa per esprimere le loro preoccupazioni riguardanti i contenuti del disegno di legge sull’autonomia differenziata, evidenziando i rischi per la tenuta della coesione sociale del paese che potrebbero derivare dalla sua realizzazione. Il testo dei vescovi siciliani è stato presentato qualche giorno dopo su queste pagine da Giuseppe Savagnone[2].

La stessa preoccupazione è stata espressa dal card. Matteo Zuppi che, nell’introduzione ai lavori della sessione primaverile della CEI – che si è tenuta dal 18 al 20 marzo – ha affermato che

«suscita preoccupazione la tenuta del sistema Paese, in particolare di quelle aree che ormai da tempo fanno i conti con la crisi economica e sociale, con lo spopolamento e con la carenza di servizi». A questo riguardo, egli auspica che «non venga meno un quadro istituzionale che possa favorire uno sviluppo unitario, secondo i principi di solidarietà, sussidiarietà e coesione sociale, (…) nella consapevolezza che “il Paese non crescerà, se non insieme”, come peraltro già ricordato in passato»[3].

I vescovi calabresi prendono posizione

In occasione della Domenica delle Palme, il 24 marzo, anche la Conferenza Episcopale Calabra (CEC) è intervenuta sulla questione, presentando un documento in cui vengono espresse forti critiche nei confronti del regionalismo differenziato, in continuità con quanto i vescovi italiani avevano già espresso in passato, attraverso tre documenti, pubblicati rispettivamente nel 1948 (I problemi del Mezzogiorno, Lettera collettiva dell’Episcopato meridionale), nel 1989 (Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno) e nel 2010 (Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno)[4].

Nel testo citato, i vescovi calabresi spiegano perché, dal loro punto di vista, la realizzazione dell’autonomia differenziata potrebbe avere esiti disastrosi sul piano della coesione sociale.

Essi evidenziano innanzitutto un dato di realtà, che la ricerca sociale sta indagando già da tempo, per cui le disuguaglianze in Italia hanno una natura anche territoriale, e generano un divario non solo sul piano economico-produttivo, ma soprattutto su quello civile. La conseguenza più immediata è che il contenuto effettivo dei diritti sociali di cittadinanza cambia a seconda dei luoghi, mentre in uno Stato unitario essi vanno assicurati a tutti a prescindere dal luogo di residenza e dal grado di sviluppo produttivo locale.

Il progetto di autonomia differenziata renderebbe «ancora più opache le prospettive del Paese perché, proprio negli ambiti da cui dipende la qualità e l’estensione dello sviluppo umano autentico, le Regioni vogliono fare da sole, chiedendo più poteri e risorse».

Osservazioni critiche

Sono particolarmente incisive le osservazioni critiche relative a quella parte del disegno di legge che subordina l’attuazione della riforma alla determinazione dei Lep (livelli essenziali di prestazione) e dei relativi costi e fabbisogni standard. Per la CEC, sono almeno quattro i motivi per ritenere che la soluzione prospettata per eliminare le disuguaglianze territoriali non sia sufficiente.

Il primo poggia sulla constatazione che, nell’ambito della tutela della salute, la regionalizzazione del sistema sanitario e la definizione dei livelli essenziali di assistenza sanitaria (Lea) «non solo non hanno ridotto i divari di tutela della salute tra i territori, ma li hanno addirittura amplificati, come dimostrano i dati sulla migrazione sanitaria».

Il secondo motivo di perplessità riguarda il tema dei costi e dei fabbisogni standard: «la premessa per uno sviluppo vero dei territori»  – argomentano i vescovi  – «non può limitarsi alla mera definizione di servizi minimi essenziali, né alla definizione rigida di un budget di spesa – che finirebbe con il penalizzare soprattutto le aree interne delle Regioni più deboli – ma esige invece l’adozione di modelli di intervento capaci di valorizzare le risorse e aderire ai bisogni delle persone che vivono nei luoghi, in tutti i luoghi, territori urbani e non, città e piccoli paesi».

Il terzo rilievo sottolinea l’incongruenza di quella parte del disegno di legge in cui si afferma che «dall’applicazione della presente legge e di ciascuna intesa non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica», per cui non si comprende da dove si prenderebbero le risorse necessarie per garantire i Lep.

A questo riguardo, si aggiunge una quarta obiezione:

«se anche si recuperassero le risorse per attuare i Lep, tutto ciò non rappresenterebbe il volano di un vero cambiamento. Se si guardano le cose dai contesti più periferici, risulta evidente che la vera questione è quella di dotare i territori delle infrastrutture sociali necessarie per programmare, progettare, gestire, rendicontare e valutare gli interventi ordinari. La questione dei livelli essenziali di gestione è prioritaria rispetto a quella della determinazione dei livelli essenziali di prestazione. Se analizziamo a fondo la situazione calabrese, per esempio, vediamo che la spesa per i servizi sociali in Calabria è tra le più basse del Paese e che si riesce a impiegare solo una parte delle risorse disponibili per la debolezza delle infrastrutture locali. È per questo motivo che bisognerebbe intervenire per rimuovere quegli ostacoli che impediscono un funzionamento istituzionale efficiente».

Secondo la CEC, la riforma, trascurando l’esistenza di questa criticità, non farebbe altro che alimentare tali disfunzioni.

Solidarietà e giustizia

Nella parte conclusiva del testo, i vescovi di Calabria spiegano in che senso la realizzazione del regionalismo differenziato sia in contraddizione sia con lo spirito della nostra Costituzione, sia con le prospettive di uno sviluppo autenticamente umano del Paese.

Essi non condividono la logica secondo cui le Regioni che costituiscono la locomotiva del Paese debbano essere messe nelle condizioni di produrre sempre di più e meglio, perché questo – secondo i promotori della riforma – determinerebbe un effetto-traino per tutte le altre Regioni. La strada suggerita è invece quella che passa dal riconoscimento delle differenze e dalla valorizzazione di ogni realtà particolare, soprattutto delle aree più periferiche:

«i contesti che non ce la fanno vanno accompagnati, riconoscendo nella solidarietà tra territori un valore costituzionale da difendere e un impegno pastorale che il popolo di Dio che è in Italia va incoraggiato a perseguire perché progredisca nella sua ricerca di fedeltà al Vangelo. Nella prospettiva di uno sviluppo umano autentico, le difficoltà dei territori con infrastrutture più deboli, con rendimento istituzionale insufficiente, non vanno interpretate come un freno per chi è più veloce, ma come un problema comune, da cui venire fuori insieme».

È una posizione che essi ritengono coerente con il principio di giustizia sostanziale, per cui a tutti vanno assicurate pari opportunità di accesso ai diritti di cittadinanza, eliminando gli ostacoli, attraverso politiche effettivamente redistributive e con il principio di solidarietà istituzionale, che fonda la sussidiarietà verticale, la quale si esplicita non attraverso provvedimenti di tipo normativo-sanzionatorio, ma mediante l’accompagnamento intenzionale dei territori più deboli.

Come già affermato dai vescovi italiani nei decenni passati, essi sono convinti che la questione riguardi tutto il Paese, che avrà un futuro

«solo se tutti insieme sapremo tessere e ritessere intenzionalmente legami di solidarietà, a tutti i livelli. A questo riguardo, si propone che in tutte le comunità diocesane e in tutti i territori si organizzino occasioni di approfondimento e di pubblica discussione su questo tema e si promuovano adeguate forme di mobilitazione democratica, legando solidarietà e giustizia».

Un appello a tutti i vescovi

Sarebbe importante che anche nelle altre diocesi italiane, soprattutto del Centro Nord, potessero darsi analoghe opportunità di riflessione e di impegno responsabile.

In particolare ci sembra che la questione dell’autonomia differenziata incoraggi le comunità cristiane a porsi alcune domande importanti: che cosa potrebbe voler dire ascoltare il vangelo e tentare di annunciarlo in un contesto che dà forma istituzionale agli egoismi territoriali? Che idea della persona e della comunità c’è sotto? Cosa significa oggi per le comunità cristiane e per i singoli battezzati e battezzate leggere profeticamente il presente in maniera attenta alle dinamiche personali e interiori – ma in uno stesso movimento contemplativo ed etico – alle questioni sociali e politiche?

Il confronto serrato con tali questioni – stessa cosa si potrebbe dire del rapporto con la salvaguardia della pace o con le questioni della povertà e della giustizia – potrebbe aiutare a far atterrare molti discorsi sulla teologia pubblica o sul ruolo culturale e politico dei cristiani. Discorsi – fatti spesso da élites un po’ troppo autocompiaciute – che tendono a rimanere a mezz’aria, singolarmente incapaci di «mordere» i problemi dell’esistenza concreta di tante persone e comunità umane.


[1] Is, 21,11-12. Si veda anche l’ancora attuale intervento di G. Dossetti, Sentinella, quanto resta della notte?, in Id., La parola e il silenzio. Discorsi e scritti 1986-1995, Paoline, Milano 2005, 251-260.

[2] G. Savagnone, I vescovi siciliani sull’autonomia differenziata, in SettimanaNews del 13 marzo 2024.

[3] https://www.chiesacattolica.it/card-zuppi-la-chiesa-puo-e-deve-essere-segno-di-speranza/

[4] Si veda l’interessante ricostruzione di M. Prodi, Tre lettere dei Vescovi sul Mezzogiorno italiano, in Rassegna di teologia, 2/2020, 259-283.

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