«Accusare un uomo non significa difendere una causa, è solo accusare un uomo. E quest’uomo è innocente». Così l’avvocato difensore del card. Philippe Barbarin, arcivescovo di Lione (Francia) chiudeva la sua arringa davanti alla corte di appello di Lione che doveva confermare o meno una condanna del tribunale a sei mesi con la condizionale per l’accusa di mancata denuncia di un prete aggressore, Bernard Preynat.
La sentenza di assoluzione odierna, al termine del processo di appello, ha un evidente significato giuridico rispetto all’interpretazione del reato di «mancata denuncia». Ha un peso nella coscienza ecclesiale, travagliata dal tema degli abusi e divisa sul comportamento del cardinale. Ha un impatto sull’opinione pubblica dopo anni di informazioni che scaricavano sul cardinale di Lione tutto il peso del ritardo della Chiesa istituzionale in merito.
È anche una risposta alla persistente volontà delle associazioni delle vittime di vedere riconosciute le proprie buone ragioni, anche al di là del singolo caso.
Umiltà e riconoscenza
Le vittime e le loro associazioni hanno ottenuto che l’opinione pubblica ed ecclesiale prendesse consapevolezza del problema e delle violenze. È un merito che viene loro largamente riconosciuto.
Nel discorso finale dell’ultima assemblea episcopale a Lourdes (5-10 novembre 2019) il presidente, Eric de Moulin-Beaufort, arcivescovo di Reims, ha detto: «Abbiamo capito che le persone vittime non domandano la compassione, né la compensazione delle loro sofferenze. Esse chiedono verità. Quanto raccontano ce l’ha fatto capire: hanno sofferto e, spesso, soffrono ancora degli atti subiti, ma anche dei silenzi, delle cecità, dell’oscuramento, talora volontario, di molti attorno a loro, compresa la sfera ecclesiale e le autorità della Chiesa. Ci impegniamo a riprendere i contatti, ciascuno con le vittime che conosciamo, per manifestare loro concretamente che riconosciamo la duplice causa delle loro sofferenze (…). Siamo consapevoli che nessuna disposizione può recuperare quello che è successo. Né appianare quello che si è vissuto. Chiediamo con umiltà di tentare di rinnovare una relazione».
Da parte della Chiesa non ci sarà nessun utilizzo della sentenza contro le vittime, nessun tentativo di giustificare la cecità e i ritardi con cui si sono affrontati gli abusi. Anche perché vi sarà probabilmente un ricorso in cassazione e quindi il procedimento non è ancora terminato. Ma soprattutto perché il processo al prete accusato, Bernard Preynat, si è appena concluso con la richiesta di otto anni di reclusione per i fatti delittuosi che hanno interessato decine di ragazzi, riconosciuti dallo stesso accusato. Troverà conferma il cammino ecclesiale di purificazione, di memoria penitente, di provvedimenti in ordine alla piena tutela dei minori.
Le ultime decisioni in merito dei vescovi francesi sono stati l’attivazione delle “cellule di ascolto” nelle diocesi, la formazione di una commissione nazionale indipendente (guidata da Jean-Marc Sauvé) per fare chiarezza sui fenomeni delittuosi a partire dagli anni Cinquanta ad oggi, l’avvio della collaborazione fra alcune diocesi e le procure della Repubblica per l’indagine previa dopo la segnalazione degli abusi, l’offerta alle vittime di un riconoscimento finanziario a prescindere dai procedimenti giudiziari civili.
Il cambiamento di sensibilità è bene espressa dalla presidente dei religiosi e religiose francesi, suor Veronique Margron: «Davanti all’ampiezza del male commesso, delle complicità attive o passive, qui e dappertutto, è indispensabile rimuovere la pretesa ad ogni presunzione o di eccellenza nella santità, nella verità, nella morale, nell’umanesimo. Cercare dolorosamente la precisa dimensione delle nostre turpitudini. Diventare di nuovo servitori dell’umano nella sua intangibile dignità».
Inversione di tendenza?
Nel caso specifico di Barbarin, sotto processo nel febbraio del 2016 per fatti consumati negli anni Novanta, si riconosce in genere un ritardo nel comprendere la gravità del dramma delle vittime e una gestione malaccorta della comunicazione. Prosciolto dalle accuse è stato di nuovo chiamato alla sbarra dall’associazione La Parole libérée e condannato a sei mesi nel marzo del 2019. Le sue dimissioni sono state respinte da papa Francesco in attesa della conclusione del processo.
Dal 24 giugno 2019 la diocesi ha un amministratore apostolico, mons Michel Dubost. È improbabile che il cardinale possa continuare la sua funzione di arcivescovo, ferito e devastato dalle accuse a cui negli ultimi mesi rispondeva sempre: «Non so davvero cosa non abbia fatto». Il suo proscioglimento, richiesto dalla difesa e dal pubblico ministero, gli permetterà un qualche altro servizio ecclesiale.
La sentenza rappresenta un primo e rilevante segnale di inversione di tendenza non solo nei tribunali francesi, ma più ampiamente nell’opinione pubblica. La devastazione degli abusi può conoscere un riscatto e un’istituzione che se ne fa carico può riconquistare la fiducia. E questo grazie a coloro che nel tribunale hanno perso, cioè le vittime.
Bellissima notizia.