Il vociare che arriva da Piazza San Pietro, riscaldata dai primi tepori primaverili, non disturba. Anzi, sembra rendere l’immagine di una Chiesa che si proietta sul mondo, e dal mondo riceve. Il card. Lazzaro You Heung-sik, prefetto del Dicastero per il clero, esprime già nella postura questa medesima proiezione. Seduto sulla punta del divano e proteso su di noi, parla come un fiume in piena con quella passionalità che solo un’autentica gioia cristiana sa dare.
- Eminenza…
No, no, che eminenza… Io sono Lazzaro, il povero don Lazzaro, povero perché anch’io come Lazzaro, l’amico di Gesù, sono un risuscitato, un graziato.
- In che senso don Lazzaro?
Vede, io ho ricevuto il battesimo, la nuova vita, a 16 anni. La mia famiglia non era credente, e del cristianesimo non sapevo pressoché nulla. Ma venni iscritto a una scuola cattolica, semplicemente perché le scuole cattoliche erano tra le migliori. So che il vostro direttore era un professore di religione al liceo, beh, diteglielo che l’ora di religione fu decisiva per la mia vita! Quante cose importanti può fare un insegnante di religione: può addirittura creare un cardinale!
Ma c’è anche un’altra categoria di persone a cui debbo molto: sono le suore. Io non avevo mai conosciuto una suora prima di allora, poi furono loro a introdurmi al cristianesimo ma soprattutto a prendersi cura di me come persona, come giovane ancora un po’ confuso e alla ricerca di un percorso di vita. E lo fecero con tanta discrezione e tanto amore. Furono loro a indicarmi la via del seminario, poco dopo aver ricevuto il battesimo nel 1966. Loro videro la mia vocazione prima che la scoprissi io. Ancora oggi provo tanta riconoscenza e affetto ogni volta che incontro una suora. Io voglio bene alle suore.
- Poi è divenuto prete…
Sì. L’esperienza del seminario è stata esaltante, dal punto di vista umano prima ancora che dottrinale. I miei orizzonti si allargarono, e con essi anche tanti nuovi amici. Penso sia stato proprio per la bellezza di quella mia esperienza che poi mi sono trovato ben felice di essere rettore del seminario, e ora a occuparmi della formazione dei preti di tutto il mondo. Ma siete sicuri che la vita del povero Lazzaro interessi a qualcuno?
- Certo che sì, perché la storia di una persona dice più delle sue parole…
Io ve la racconto essenzialmente per un motivo. Cioè, la mia storia è un po’ paradigmatica della diffusione del cattolicesimo in Corea. Come ha sottolineato papa Francesco quando venne in Corea nell’agosto del 2014, la fede cristiana non si è affermata attraverso i missionari provenienti dall’estero ma ha una radice autoctona, è il frutto delle menti e dei cuori dello stesso popolo coreano, assetato di curiosità intellettuale e di ricerca della verità. Come appunto è la mia storia. La storia di Andrea Kim Taegon mi fu ispiratrice da giovane, e tutt’oggi costituisce un esempio di autentica vita cristiana. Lui ha donato la vita per il Vangelo e per la Chiesa e ho sempre guardato a lui come un esempio, una vita riuscita. Per questo, a tutti i pontefici che ho avuto l’opportunità di conoscere ho ripetuto, facendole mie, le sue parole: «Sono pronto a dare la vita per la Chiesa».
- Don Lazzaro, com’è finito qui?
Questo dovreste chiederlo al papa. L’ho conosciuto durante la Giornata della gioventù asiatica, alla quale accompagnavo trecento giovani coreani. Non so cosa possa mai averlo colpito del «povero Lazzaro».
- Proviamo a immaginarlo noi allora. Il cardinale “don” Lazzaro unisce in maniera inusuale e sorprendente una forte carica di empatia, sostanziata da una gentilezza tipicamente orientale, con una spiccata attitudine decisionale…
La cultura del mio Paese è permeata di un forte spirito gerarchico. È qualcosa che ereditiamo dal confucianesimo, ma che vive anche nella cultura cattolica. Diciamo che dalle nostre parti il voto di obbedienza non è poi così pesante… Ma tornando alla domanda sul perché mi trovo qui, le posso solo rispondere che tutta la mia vita è stata orientata dalle sliding doors che la grazia in modo misterioso e imperscrutabile mi ha donato. La scuola cattolica, poi il battesimo, poi le suore di cui vi ho parlato, poi il ritorno in seminario come rettore, poi ancora l’episcopato, e infine qui davanti a questa finestra che affaccia su questa incredibile piazza del colonnato.
Vorrei aggiungere un altro momento «casuale» che, soprattutto per l’economia della nostra conversazione, è molto importante: quello dell’incontro con la Parola. Un giorno incontrai un sacerdote focolarino che mi introdusse alla Parola di Dio in un modo diverso da quello a cui ero abituato. Fino ad allora io guardavo al Vangelo nella sua bellezza, nella sua morale, ma da lontano, non incarnato nella concretezza della mia giornata. Mi raccontò come il Vangelo gli avesse insegnato ad accogliere senza pregiudizio pure chi gli era ostinatamente contro. Capii che la Parola non va letta ma vissuta. Questo per me fu un incontro vero con Gesù. E cambiò radicalmente la mia vita. Perché vivere da cristiano non è altro che vivere il Vangelo.
Oggi ho in tal senso un esempio grande: papa Francesco. Quando ci dice di tornare al Vangelo, ci dice questo. La fine della cristianità ci impone di ripensare radicalmente la nostra presenza nel mondo, e la risposta di papa Francesco è semplicemente questa: vivere il Vangelo. Come fa lui. «La Chiesa in uscita», «l’ospedale da campo», «le periferie del mondo», «misericordiosi perché misericordiati»: tutte le parole proprie di papa Francesco non sono altro che la declinazione di questo «ritorno al Vangelo». A chi si interroga su Francesco dico: «Volete capire il papa? Leggete il Vangelo!». Quando predica, papa Francesco fa sempre vedere che, se nelle piccole cose della vita quotidiana mettiamo l’amore che Gesù ci insegna, queste cose diventano grandi perché l’amore genera amore, rompe le nostre solitudini, produce relazioni buone e trasforma la nostra vita facendola diventare una vita buona.
- Oggi lei è a capo del Dicastero che orienta quasi mezzo milione di sacerdoti nel mondo. Chi è il prete oggi?
È difficile descriverlo, perché il processo d’inculturazione del cattolicesimo nei cinque continenti è profondo, e questo determina profili spesso molto diversi da Paese a Paese. Al fondo rimane la sacramentalità del ministero che evoca l’idea di sacerdozio che era di Gesù, ma vi sono sensibilità e interpretazioni del ruolo molto varie. Quando parlo di sacramentalità non mi riferisco a uno status di esclusività quanto piuttosto all’incarnazione della legge dell’Amore nella vita di colui che è chiamato a Cristo.
Il paradigma del buon prete – ovunque si trovi nel mondo a vivere e a operare – è la legge dell’Amore, che supera qualsiasi altra norma morale o canonica. Il prete è chiamato a orientare all’amore, e può efficacemente farlo solo se lui stesso vive nell’amore. L’amore non è la ricerca di una perfezione inibita dal limite umano, ma l’accoglienza misericordiosa di questo limite. Vivere il Vangelo non è codificare una legislazione morale ma rendere felici gli altri mettendoli in contatto con l’amore infinito e misericordioso di Dio.
- E questo effettivamente avviene con il prete di oggi?
Mah, come vi dicevo ci sono situazioni molto diverse; capite bene che esercitare il ministero presbiterale nell’Occidente secolarizzato, se non proprio scristianizzato, non è la stessa cosa che essere prete in Africa o in Asia. Se, come dicevo prima, il paradigma comune a tutti è la declinazione della legge dell’Amore, vi sono alcune prassi che dovrebbero – e spesso sono – comuni in ogni parte del mondo. Penso innanzitutto alla centralità della Parola. Non solo perché la Parola apre il cuore, ma perché se la Parola non è posta al centro prevale la cultura, si rimane assorbiti dalle culture di riferimento.
E poi la preghiera. Il prete che non prega costantemente finisce con l’inaridirsi. Si diventa impiegati del religioso. Non si sviluppa lo spirito altrui senza alimentare il proprio. Lo dico non con la perentorietà di un superiore ma a partire dalla mia esperienza personale. Non potrei fare quello che faccio, ed essere quello che sono, se non cominciassi ogni giornata con una camminata di preghiera nei giardini vaticani fino alla Madonna di Lourdes.
E poi, infine, la vita comunitaria. Un sacerdote che vive in solitudine, o anela alla solitudine, non è ben formato. So bene che la vita comunitaria è spesso difficile, irta di ostacoli e di reciproche incomprensioni. Ma sono proprio queste difficoltà che forgiano il carattere di un buon prete, nel senso della capacità di accogliere, di essere pazienti, di essere umili, di essere aperti e comprensivi delle tante alterità che offre il mondo. La vita comunitaria deve essere poi aperta al mondo. Il presbitero deve avere buone e intense frequentazioni con i laici, con le famiglie. Per non perdere la dimensione del reale. Questo è il vero antidoto a quel pericolo sempre incombente che è l’autoreferenzialità.
- Non crede che vi sia anche un problema teologico, vogliamo dire il superamento di un’idea ancora oggi diffusa della supposta superiorità ontologica del prete?
Guardi, io sono un uomo, un prete, semplice: non mi addentro in questioni teologiche che spesso mi appaiono disquisizioni non immediatamente connesse alla vita in Cristo. È senz’altro vero che io e voi agli occhi di Dio siamo uguali, che il sacramento che dà il carattere è il battesimo in Cristo. Però penso anche che in una religione, come la nostra, che si basa sulla «mediazione» del Dio Uomo, la figura del sacerdote è analogicamente quella di un ministro che media cielo e terra. Di colui il cui compito è aprire le porte. È quanto ci dice Gesù: per loro consacro me stesso, perché loro siano consacrati per gli altri. Dall’altro lato, il ministero del prete si sostanzia di una Chiesa laicale forte: il prete deve sempre ricordare che il sacerdozio ministeriale esiste in quanto c’è il sacerdozio universale; e non viceversa.
- La valorizzazione del sacerdozio battesimale e della ministerialità della Chiesa implica anche una rivalutazione del ruolo delle donne…
Veramente mi meraviglio che questa sia ancora considerata un’eccezione. Chi è rinato dallo Spirito Santo e, immerso nella vita di Cristo, è diventato ormai suo discepolo, dovrebbe vivere quella comunione che deriva dall’essere diventato una nuova creatura: non c’è né giudeo né greco, né libero né schiavo, dice san Paolo. Quindi né uomo né donna. Talvolta diamo ancora l’impressione di essere un universo maschilista e, per questo motivo, la società spesso ci giudica male.
Grazie a Dio però, anche grazie ai percorsi teologici e pastorali su questo tema e soprattutto grazie agli impulsi e alle scelte di papa Francesco, siamo in cammino. Dobbiamo trovare strade buone e valide per superare alcuni aspetti canonici riguardo ai ruoli di governo e di responsabilità e, soprattutto, vincere le nostre resistenze pastorali quando si tratta del normale coinvolgimento delle donne nella vita della Chiesa. Personalmente, come ho raccontato anche in un libro, penso che il cammino si fa con gesti concreti: nominare donne per incarichi di governo, nominare lettrici e accolite. Io avevo inserito una donna nell’équipe del seminario e incoraggio scelte di questo tipo.
- Cosa porta della sua esperienza in Corea in questo nuovo incarico?
C’è un punto che mi sta molto a cuore. La diffusione del cattolicesimo in Corea è stata agevolata dalle istanze di libertà che implicava in una società e in una cultura inquadrata in una rigida stratificazione sociale. Una società, come dicevamo prima, molto gerarchica e improntata da un classismo escludente. Il senso di fratellanza a prescindere, che è proprio del cristianesimo, ha avuto in quel contesto un effetto liberatorio, accolto con favore da gran parte della popolazione. Questo spiega anche perché la Chiesa coreana abbia un buon seguito tra i giovani: i giovani amano la libertà.
Qui in Occidente invece la Chiesa è percepita come un’istituzione normativa che discerne nella morale il bene dal male, cioè essenzialmente una struttura conservativa. Ecco, io penso che la nuova pastorale a cui ci invita papa Francesco dovrebbe recuperare questo anelito di libertà, presentare gioiosamente il Vangelo come vera fonte di vera libertà. La buona notizia non è un elenco di permessi e di divieti, ma Gesù risorto: la tomba vuota che annuncia che non moriamo più. C’è una felicità più grande? Tornare al Vangelo significa allora annunciare nient’altro che Gesù risorto, primizia anche della nostra risurrezione.
- Pubblicato su L’Osservatore Romano, 18 aprile 2023
Eminenza don Lazzaro annuncia il cristianesimo futuro come Pastore che proviene da un confine del mondo ancora più lontano ma che si farà vicino là dove lo spirito confuciano troverà nel Vangelo il suo compimento.