Dal 7 al 9 marzo 2018, la COMECE (Commissione degli episcopati della Comunità Europea) celebra la sua Assemblea plenaria di primavera a Bruxelles. Si tratta di un’Assemblea elettiva, durante la quale si conoscerà il nome del successore dell’arcivescovo di Monaco, cardinal Reinhard Marx, giunto alla fine del suo mandato come presidente. Mercoledì 7, in serata, Marx ha tenuto un discorso di congedo durante un ricevimento un suo onore al quale ha preso parte anche il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker.
Il card. Marx ha concluso il suo mandato di presidente della COMECE con un discorso programmatico, in un gesto che mostra la sua sintonia con il profilo più alto del progetto europeo: raccogliere un’intelligenza, umile e sapiente, dell’esperienza che sta alle spalle e farla funzionare come dinamica virtuosa per un avanzamento complessivo dell’Unione Europea.
In quella che appare essere quasi una “confessione”, appassionata e convinta, non si nasconde nulla. Né i momenti di scoramento personale davanti all’impasse burocratica e politica che avvinghia le procedure dell’UE. Né la condizione di crisi, multiforme e complessa, che attanaglia l’Europa e le sue istituzioni, rischiando di far implodere l’idealità del progetto nel momento della sua massima urgenza storica.
Ma proprio perché programmatico, il discorso di Marx non si lascia avvincere dallo spettro delle crisi del continente come orizzonte ultimo, rassegandosi al suo sgretolamento quasi per inerzia (politica e culturale dei paesi membri). La storia dell’Europa è una storia di crisi attraversate, di interruzioni, di slittamenti, da cui attingere per l’invenzione quasi dal nulla di un nuovo, inatteso, passo dell’Unione.
Lasciando la presidenza della COMECE, si percepisce come il card. Marx abbia imparato a conoscere sulla propria pelle quel paradosso contraddittorio che è l’Europa come Unione, nel suo realizzarsi come comunità di nazioni che auspicano di andare oltre se stesse: per disegnare uno spazio originale, transitivo, addirittura trasversale alla propria stessa storia, di un vivere-insieme che può essere sentito come solidale valore aggiunto rispetto a una semplice convivenza gestionale di storie separate tra loro.
È dentro questa storia, contraddittoria, enigmatica, ambivalente, dell’Europa che stanno anche le Chiese – nella visione che il card. Marx consegna non solo al futuro della COMECE, ma più ampiamente a tutto il continente europeo. Nelle parole del presidente uscente le Chiese locali europee non guardano dall’alto né le vicende né le istituzioni europee; ma si ritrovano profondamente intrecciate a esse – non alternative o esterne, ma compagne di un viaggio che unisce nella destinazione di tutti.
Proprio questo legame, nella sua passione e persuasione, apre lo spazio per una franchezza di parola che la fede deve alla configurazione dell’Unione. Non per un senso di altezzosa alterità, né per presupponenza, ma affinché il progetto europeo non si areni nella miopia di uno sguardo che si ripiega su se stesso.
Richiamando due passaggi del discorso di papa Francesco in occasione del 60° anniversario della firma dei Trattati di Roma, Marx assume il compito lì delineato per l’Europa come compito di cui devono farsi carico le Chiese locali europee raccolte nella COMECE – come se il mandato per l’Europa fosse il mandato per il cattolicesimo stesso. Detta altrimenti, l’Unione Europea e l’Europa come compito delle Chiese cattoliche in essa.
«Anche in futuro mi impegnerò con passione affinché le Chiese continuino ad accompagnare positivamente questo progetto esigente e di grande respiro dell’Unione Europea» – un discorso programmatico, che si chiude con una dichiarazione di affettuosa amicizia, quasi una dichiarazione d’amore… Forse l’affezione di cui l’Europa ha oggi più bisogno.