Siamo nel 1978. Dopo tre anni di attesa sui sedici «voti» o richieste alla Santa Sede da parte del sinodo delle diocesi tedesche, è giunta la risposta: un sì, tre no, dodici «bisogna attendere».
Dal sinodo di Würzburg al Katholikentag 1978
Dal 1971 al 1975 a Würzburg si è celebrato il sinodo che, in otto sessioni plenarie, intendeva aggiornare la vita cristiana alle esigenze del popolo tedesco. Nei documenti approvati erano state sostenute alcune posizioni in contrasto con il Codice di diritto canonico.
In un primo momento, Roma era intervenuta notificando ai vescovi il suo veto a sostenere posizioni diverse da quelle della legislazione canonica, provocando scossoni drammatici.
Si decideva di avanzare richieste alle competenti congregazioni romane perché rivedessero la posizione cattolica su sedici punti riguardanti la vita di tutta la Chiesa, tenendo conto delle motivazioni avanzate dai sinodali tedeschi.
Tardando anni la risposta, in varie occasioni, era stato espresso il disagio dell’attesa, finché al Katholikentag di settembre 1978, il vescovo di Speyr, F. Wetter, dietro esplicita richiesta dei convenuti, rivelava che la risposta era già giunta nel marzo 1978 e forniva informazioni sul contenuto.
Roma accettava un solo «voto»: la possibilità di celebrare il sinodo delle diocesi tedesche ogni dieci anni. Un netto no veniva espresso dalla Santa Sede alle richieste di poter aumentare il numero delle preghiere eucaristiche, di concedere la facoltà ai sacerdoti di amministrare il sacramento della cresima, di togliere l’impedimento della diversità di confessione religiosa nel matrimonio.
Riguardo a una maggiore libertà di praticare l’intercomunione (come nei matrimoni misti) e di ammettere i divorziati risposati ai sacramenti, Roma rispondeva che bisognava attendere ulteriori studi e una maggiore uniformità di consenso nella Chiesa.
Sugli altri dieci «voti» si rispondeva che bisognava attendere la riforma del diritto canonico. Tra questi c’era la richiesta di ammettere al presbiterato anche uomini sposati, di concedere il diaconato alle donne, di permettere che uomini e donne qualificati ricevessero il mandato ufficiale per la predicazione nel servizio liturgico di determinate comunità, di lasciare libertà nell’ordine dei sacramenti (confessione prima dell’eucaristia per la prima comunione dei bambini).
La delusione era alle stelle in un’ampia porzione del cattolicesimo tedesco e, in particolare, nei sinodali. Campeggiava lo slogan: «Oramai non rimane che il ricordo di una speranza». Con «La nostra speranza, una professione dinamica di fede in questo tempo», il sinodo si congedava il 24 novembre 1975.
Giovanni Paolo II in Germania
Giovanni Paolo II dal 15 al 19 novembre 1980 è in Germania. Prima del viaggio note personalità del mondo teologico protestante e cattolico, tra le quali Küng, Greinacher, Heinemann, Haag, Moltmann, Gollwitzer, Zahrnt, Boll, firmano una lettera, manifestando il loro disaccordo.
A Monaco, al termine dell’ultimo giorno del viaggio del papa, Barbara Engl, dirigente della gioventù cattolica, abbandonando il testo scritto e concordato, esprime la sua insoddisfazione e quella dei giovani. Esprime la sua perplessità sul celibato obbligatorio dei preti e chiede una più larga partecipazione delle donne ai ministeri della Chiesa. L’arcivescovo, il card. Joseph Ratzinger, impallidisce.
Il vescovo Joseph Maria Reuss, ausiliare di Magonza, per anni rettore del seminario della sua diocesi, mi riceve nel 1982. Ha da poco pubblicato un libro dove si esprime sul celibato dei preti obbligatorio. Il libro ha suscitato vivaci reazioni e riscontrato ampi consensi. È molto schietto:
«Tenendo conto del significato che riveste la celebrazione dell’eucaristia, si deve riflettere seriamente se, nonostante le obiezioni sollevate, non sia da ritenere una via percorribile quella di ordinare uomini sposati impegnati in famiglia e in una professione».
Di tutt’altro parere il card. Joseph Höffner, arcivescovo di Colonia, che mi riceve il 22 novembre 1984:
«Celibato e conferimento del sacerdozio agli sposati non sono problemi nuovi. Il celibato è da milleseicento anni che è discusso e lo sarà sempre. È la contraddizione nei confronti del mondo».
La «Dichiarazione di Colonia»
Il 6 gennaio 1989 esce la famosa Dichiarazione di Colonia, Firmata da 163 teologi dell’area linguistica tedesca (Austria, Svizzera, Germania occidentale, ma anche Olanda). Significativo il titolo: «Per una cattolicità aperta e contro una cattolicità messa sotto tutela», che esprime riserve e interrogativi assai diffusi sulla situazione ecclesiale del tempo. Tra i firmatari, i moralisti di fama mondiale Böckle e Häring, l’esegeta Haag, il canonista Huizing, i teologi Küng, Metz e Schillebeeckx.
«Quanto abbiamo potuto osservare in questi tre settori ci pare abbia un valore di segno rispetto al cambiamento in atto all’interno della chiesa postconciliare in termini di: a. una strisciante trasformazione di struttura dei rapporti di competenza giurisdizionale vigenti all’interno della gerarchia; b. una progressiva riduzione delle chiese locali a soggetti in regime di tutela; c. un rifiuto dell’argomentazione teologica; d. una riduzione dell’ambito di competenza dei laici all’interno della chiesa; e. un antagonismo proveniente dall’alto e volto ad acuire i conflitti esistenti nella chiesa mediante il ricorso a provvedimenti disciplinari. Siamo convinti che non ci è più consentito di tacere. Riteniamo che la presente dichiarazione sia necessaria: in ragione della nostra responsabilità per la fede cristiana; in funzione dell’esercizio del nostro servizio di maestri di teologia; a causa del rispetto che dobbiamo alla nostra coscienza; e in base alla solidarietà che dobbiamo a tutti i cristiani e cristiane che abbiano avuto occasione di scandalo dai recenti processi evolutivi in atto nella nostra chiesa o che addirittura abbiano perso la loro speranza in essa» (Il Regno-Attualità, 4/1989, p. 71).
La Dichiarazione fa il giro del mondo, suscitando commenti severi da parte del card. Ratzinger. Karl Lehmann, presidente della Conferenza episcopale, viene convocato in Vaticano il 13-14 novembre 1989. Rispondendo alle critiche mosse dalla Dichiarazione, sbotta: «Non abbiamo paura di Roma».