La possibile nomina di un nuovo vescovo ausiliare per la diocesi di Bilbao ha riaperto il problema della partecipazione del popolo di Dio nella scelta e nella nomina dei suoi prelati. Durante il papato di Francesco, si è rafforzata la convinzione che la designazione di chi deve presiedere una Chiesa deve avvenire ascoltando il parere di coloro che sono direttamente interessati. E farlo, ricuperando una tradizione cattolica quasi bimillenaria, per fedeltà alla sinodalità proclamata nel Vaticano II e senza trucco né inganno, vale a dire, con chiarezza e trasparenza.
Si deve a papa san Celestino I (422-432) ciò che, dal secolo V, è un criterio fondamentale indiscutibile nell’organizzazione della vita ecclesiale: nessun vescovo deve essere imposto. Questa sentenza è stata messa in pratica in diverse maniere nel corso della storia, finché un’intollerabile ingerenza dei poteri civili finisce con lo stravolgere la legittima partecipazione del popolo di Dio.
Il vescovo di Roma si riserva tale diritto, richiesto dalla difesa della libertà della Chiesa e per garantire la fedeltà dei successori degli apostoli unicamente ed esclusivamente al Vangelo.
Nel concilio Vaticano II i padri conciliari sono consapevoli che l’intromissione dell’autorità civile nella elezione dei vescovi (la cosiddetta crisi gallicana) appartiene al passato, anche se ne rimangono dei rimasugli.
Nel post-concilio si cerca di recuperare, grazie alla sinodalità e alla corresponsabilità battesimale, il protagonismo che tradizionalmente ha avuto il popolo di Dio in problemi che toccano la vita ordinaria e, soprattutto, quelli che riguardano il suo futuro a medio e a lungo termine. Ciò spiega la richiesta di un maggiore protagonismo e di una maggiore trasparenza nell’elezione dei propri vescovi (siano titolari, coadiutori o ausiliari) e l’esigenza di cambiare l’attuale normativa giuridica al riguardo.
Com’è noto, la nomina dei vescovi è retta dal canone 377 § 1, un testo tanto importante quanto ignorato, almeno in una delle due modalità che riconosce e sanziona: «Il sommo pontefice nomina liberamente i vescovi, oppure conferma quelli che sono stati legittimamente eletti».
1) Il papa «nomina liberamente»
Nella prima parte è formulato tassativamente ciò che, per la grande maggioranza dei cattolici, sembra essere l’unica via possibile: il papa nomina liberamente tutti i vescovi del mondo.
Se la creazione del collegio cardinalizio fu una delle decisioni più importanti nella rivendicazione del diritto che aveva la Chiesa di Roma di scegliere liberamente il proprio vescovo (il papa), l’assunzione della responsabilità ultima nell’elezione dei vescovi obbedisce alla medesima esigenza: garantire il diritto del popolo di Dio a scegliere liberamente i propri pastori in armonia con la responsabilità che ha la Santa Sede di garantire l’unità della fede e la comunione tra tutte le Chiese.
Non è stato questo l’intento dei redattori del Codice del 1983 i quali – nell’enfatizzare la libertà papale – trascurano la prassi più tradizionale e finiscono col sanzionare una forma di governo più vicina all’assolutismo che non alla sinodalità e alla corresponsabilità ecclesiali. Un’opzione del genere spiega lo sviluppo dettagliato scandito dai canoni sul procedimento da seguire per garantire la libertà del papa nell’elezione dei vescovi, sia diocesani, sia coadiutori o ausiliari.
Quando si tratta di scegliere un vescovo diocesano o un prelato coadiutore, spetta al nunzio proporre alla Sede apostolica una terna di candidati accompagnata da un’informazione valutativa dei medesimi. Al discernimento compiuto dal nunzio occorre aggiungere il parere dell’arcivescovo e dei vescovi della provincia ecclesiastica a cui si deve provvedere, come pure del presidente della Conferenza episcopale.
Inoltre, il nunzio dovrà ascoltare il parere di “alcuni” membri del collegio dei consultori e del Capitolo della cattedrale «e, se lo riterrà opportuno, richieda anche in segreto e separatamente il parere di altri del clero diocesano e religioso, come pure di laici distinti per saggezza» (377 § 3). Questo è il procedimento abituale, «a meno che non sia stato stabilito legittimamente in modo diverso».
Il vescovo ausiliare. Quando si tratta della scelta di un vescovo ausiliare, spetta al vescovo diocesano sollecitante proporre «alla Sede apostolica un elenco di almeno tre presbiteri idonei a tale ufficio» (377 § 4).
Anche all’inizio di questo canone è detto che si deve procedere in questo modo, «a meno che non sia stato stabilito legittimamente in modo diverso».
La differenza tra un vescovo coadiutore e un ausiliare sta nel fatto che il primo ha diritto di succedere al titolare, mentre il secondo è un aiutante. Il Codice di diritto canonico lascia intravedere la diversa responsabilità dell’uno e dell’altro nel medesimo processo elettivo: il diocesano e il coadiutore sono nominati dalla Santa Sede su proposta del nunzio, l’ausiliare su proposta del vescovo titolare.
Come si può vedere, la responsabilità del vescovo diocesano è molto grande nella nomina di un vescovo ausiliare; non così in quella di un coadiutore, anche se il margine di manovra può risultare frutto di negoziati con il nunzio o con alcuni dei cardinali che integrano il dicastero per i vescovi, nelle cui mani si trova spesso la penultima decisione.
La figura del vescovo ausiliare (non così quella del coadiutore) continua a presentare molte riserve teologiche, per quanto la sua istituzionalizzazione sia servita, per esempio, a rinnovare il collettivo episcopale durante il pontificato di Paolo VI, come è avvenuto in Spagna negli ultimi anni del franchismo.
Tuttavia, si tratta di un modo di accedere alla successione apostolica che non deve ignorare ciò che così decisamente sostiene il canone 6 del concilio di Calcedonia (431), quando dichiara nulla ogni ordinazione episcopale che non sia effettuata per una Chiesa determinata: «Nessuno dev’essere ordinato liberamente né vescovo, né diacono, né in generale per funzioni ecclesiastiche, se non è stato specificamente assegnato ad una Chiesa di una città o di un villaggio, a una cappella di un martire o a un monastero. Il santo concilio ha deciso, per coloro che saranno ordinati in maniera assoluta,¹ che l’ordinazione rimanga senza effetti e che, per la malizia di colui che ha imposto loro le mani, costoro non possono in nessun modo esercitare (le loro funzioni)».
Secondo questo canone, è l’ordinazione per presiedere a una comunità ciò che abilita ad essere considerato successore degli apostoli e a far parte del collegio apostolico. La recezione di questa verità è di tale importanza che, nel concilio Vaticano I, ci si chiese se i vescovi senza diocesi abbiano il diritto di sedersi nell’aula conciliare e, pertanto, di partecipare ai dibattiti e alle decisioni conciliari.
Inoltre, la validità del decreto calcedonese spiega che le liste delle successioni episcopali, a volte determinanti nella testimonianza delle vera fede, non sono mai determinate secondo la linea dell’imposizione delle mani, ma secondo la successione nella cattedra, cioè secondo la presidenza di una Chiesa.
Non c’è da meravigliarsi che numerosi teologi mettano in questione la figura del vescovo ausiliare, nonostante gli sforzi attuali per rispondere alla formalità richiesta aggiudicando a questi prelati la presidenza di diocesi antiche, esistenti a loro tempo, ma oggi senza vita. È quanto è conosciuto come nomina “in partibus infidelium” (nelle terre degli infedeli). Il sedimentarsi di questa pratica – e la fragilità che presenta – indica come continui a perdurare una recezione istituzionale della teologia conciliare circa l’episcopato.
Il peso della curia vaticana e delle “lobby”. È arcinoto che il successore di Pietro non può governare da solo una Chiesa con oltre 1.300 milioni di cattolici e con più di 5.000 vescovi. Ha bisogno della curia. E la curia opera, ovviamente, nel suo nome. Ma è anche altrettanto vero che il papa non può nemmeno controllare tutti i movimenti e le persone della curia né essere al corrente di ciò che è in gioco quando stanno maturando disposizioni intermedie allo scopo di facilitare una sua decisione.
È qui che si rivela l’importanza del ruolo che svolgono i membri e le “lobby” della curia e il peso delle loro convinzioni, «amicizie e paure». Nessuno mette in discussione lo sforzo che compiono – e nella maggioranza dei casi è così – per anticipare una decisione che sia conforme a ciò che ritengono siano le convinzioni del papa. Ma è anche difficilmente confutabile che esistano sempre dei margini di manovra in cui di frequente hanno un’enorme importanza le loro diagnosi e i criteri personali e, ovviamente, i gruppi o le lobby.
Pertanto, è vero che il Papa “nomina liberamente” i vescovi, ma è anche vero che il suo intervento in queste nomine dev’essere inteso – eccetto in alcuni casi molto concreti – in senso molto ampio, cioè con l’aiuto spesso determinante della curia e, più concretamente, della Congregazione per i vescovi in cui non mancano persone con un indiscutibile protagonismo (soprattutto se sono della nazione a cui appartengono alcuni dei candidati) e, ovviamente, senza escludere la possibilità di un intervento eccezionale della Segreteria di Stato.
2) Il papa «conferma coloro che sono stati legittimamente eletti»
Ci sono lettori del canone 377 § 1 che ignorano o accantonano la sua seconda parte dove si sostiene che il sommo pontefice «conferma coloro che sono stati legittimamente eletti». È così che il Codice di diritto canonico accoglie l’intervento – certo molto limitato – di alcune diocesi nella scelta dei loro rispettivi vescovi.
Attualmente, una trentina di diocesi tedesche, austriache e svizzere sono abilitate – in alcuni casi, per diritto concordatario – a intervenire nell’elezione dei loro rispettivi prelati, sia presentando una terna a Roma o scegliendo – normalmente attraverso il capitolo della cattedrale – uno dei tre presentati al Vaticano. È un procedimento misto (e chiaramente migliorabile), che permette di raggiungere il tanto auspicato punto di equilibrio tra i desideri della Chiesa locale e la responsabilità della Santa Sede. Questa è una prassi molto diffusa in Germania, in Austria e generalizzata in tutte le diocesi della Svizzera.
Proposta. Pochi mettono in discussione la bontà del fatto che la Santa Sede si sia riservata l’ultima parola nella grande maggioranza delle scelte episcopali di fronte alle inaccettabili ingerenze gallicane. E nessuno, moderatamente informato, mette in discussione che l’elezione dei vescovi sia stata – nella tradizione più venerabile e prolungata della Chiesa – il risultato di un accordo “cattolico” tra la volontà dei fedeli direttamente interessati e la responsabilità della Santa Sede per vigilare e garantire l’unità della fede e la comunione ecclesiale.
Evidentemente, invocare in maniera esclusiva la scelta dei vescovi per votazione popolare può presentare – in definitiva – dei rischi per la fedeltà al Vangelo. L’esempio irrefutabile è l’ipotesi di una diocesi a maggioranza xenofoba e razzista la quale finisca con la scelta di un vescovo del medesimo o simile profilo. Ci sono casi in cui la scelta democratica e la doverosa fedeltà al Vangelo possono entrare in collisione. È stata questa cautela a far mettere a fondamento una necessaria “riserva” papale (“reservatio”) in ogni elezione.
Una simile cautela ha fatto sì che sia la Santa Sede a confermare, ratificare o “riconoscere” (“recognitio”) coloro che sono stati legittimamente nominati.
Ebbene, è questa responsabilità che continua a fondare ai nostri giorni la convenienza che la Santa Sede continui ad avere questa riserva nell’elezione di qualsiasi vescovo. Tuttavia, quando la “riserva”, legittima e necessaria, finisce per diventare indipendente e ignora il parere della Chiesa locale, si può incorrere in errori madornali, come è accaduto nella storia della Chiesa e come continua ad accadere oggi. Pertanto, sarebbe auspicabile che l’attuale canone modificasse la proposizione subordinata con quella principale, facendo in modo che ciò che molti considerano un’eccezione o un privilegio (l’intervento del popolo di Dio nella nomina dei vescovi) torni ad essere il modo abituale: «Il sommo pontefice conferma coloro che sono stati legittimamente eletti o, in situazioni eccezionali, nomina liberamente i vescovi».
È vero che il Codice di diritto canonico attribuisce al nunzio la facoltà di consultare (in alcuni casi) determinate persone. Ma è altrettanto vero che tali consultazioni sono chiaramente insufficienti e per niente trasparenti.
Le procedure arbitrali non rispettano, come sarebbe desiderabile, le regole più elementari della sinodalità e della corresponsabilità, né “la logica cattolica” che devono presiedere a tutta la vita della Chiesa e anche, ovviamente, alla sua organizzazione, al suo funzionamento interno. Quando non si osservano debitamente, non solo si può cadere nell’errore di scegliere un vescovo razzista o xenofobo, ma si possono anche sacrificare diocesi intere per interessi criticabili (spesso politici) di persone influenti nella curia vaticana o di “lobby” ecclesiali.
Sono moltissime le diocesi ad essere vittime di questo gioco di interessi estranei o, nel migliore dei casi, di diagnosi trasversali e persino contrapposte riguardanti il loro futuro quando si nominano vescovi, anche se ausiliari. Il prezzo pagato – o non pagato, quando si è proceduto in un certo modo – può essere visto da chiunque voglia vederlo.
Il Forum dei preti della Biscaglia. La cosa normale è che si attivi una procedura in cui, sia garantito (senza trucco né inganno) il doveroso rispetto della volontà del popolo di Dio («nessun vescovo venga imposto»), e si coniughi un tale rispetto con l’ineludibile responsabilità papale di vigilare sull’unità della fede e sulla comunione ecclesiale (la “reservatio” e la “recognitio”).
Questo è il contesto entro cui si iscrive l’impostazione del Forum dei preti della Biscaglia dello scorso 23 aprile 2018, quando afferma che la scelta di un nuovo vescovo (titolare, coadiutore o ausiliare) dev’essere preceduta da «uno studio della situazione e dei bisogni della diocesi» e «dal successivo discernimento negli organismi di corresponsabilità (in particolare, nel Consiglio pastorale diocesano e nel consiglio presbiterale) circa la convenienza o meno di nominare un nuovo vescovo»; cosa incontestabile nel caso di assenza di un titolare; e opinabile nei casi di un coadiutore o ausiliare.
In questo studio della situazione e dei bisogni «dovrebbe esserci una sezione specificamente dedicata a valutare» (quando si chiede un coadiutore o un ausiliare) «i compiti propri e i relativi impegni» del vescovo che viene incaricato a presiedere la diocesi.
E, «nel caso che il risultato del discernimento sia di nominare» un nuovo vescovo, «si dovrà attivare una procedura di partecipazione che, oltre che corresponsabile, sia chiaramente trasparente tanto nella definizione del profilo ritenuto appropriato quanto nelle proposte di possibili candidati».
Alla luce di queste condizioni elementari di trasparenza e di partecipazione si capisce la conclusione a cui è giunto il Forum: «Ignorare o dare per scontati questi primi passi elementari e sollecitare possibili nomi di candidati», vorrebbe dire «delegittimare tutte le decisioni che potrebbero essere prese successivamente e fornire argomenti a coloro che sostengono di trovarsi di nuovo davanti a un altro vescovo imposto… per ragioni e interessi occulti e inconfessati».
E si comprende, ugualmente, il successivo rifiuto di partecipare ad una consultazione in cui non ci sia stato alcun discernimento sulla necessità o meno di un vescovo ausiliare, consultazione che, per di più, sarà segreta e riservata esclusivamente ai membri del Consiglio pastorale diocesano e al Consiglio presbiterale. Si capisce che, procedendo in questo modo, non si rispettano le regole più elementari della sinodalità e della trasparenza. È semplicemente una fuga in avanti.
¹ Qui l’aggettivo “assoluto” va inteso nella sua derivazione latina di “ab solutus”, cioè privo di vincoli, in questo caso privo del legame con una Chiesa locale.
Participación laical en nombramiento de obispos
El posible nombramiento de un nuevo obispo auxiliar para la diócesis de Bilbao ha reabierto el problema de la participación del pueblo de Dios en la elección y nombramiento de sus prelados. En el papado de Francisco se ha reforzado el convencimiento de que la designación de quien ha de presidir una Iglesia local ha de realizarse escuchando el parecer de los directamente afectados. Y hacerlo, recuperando una tradición católica casi bimilenaria, por fidelidad a la sinodalidad proclamada en el Vaticano II y sin trampa ni cartón, es decir, con claridad y transparencia.
Al Papa S. Celestino I (422-432) se debe lo que, desde el siglo V, es un criterio rector incuestionable en la organización de la vida eclesial: ningún obispo debe ser impuesto. Esta proclama ha sido puesta en práctica de diferentes maneras a lo largo de la historia hasta que una insoportable injerencia de los poderes civiles acaba pervirtiendo la legítima participación del pueblo de Dios. El obispo de Roma se reserva dicho derecho, urgido por la defensa de la libertad de la Iglesia y buscando garantizar la fidelidad de los sucesores de los apóstoles única y exclusivamente al Evangelio.
En el Concilio Vaticano II los padres conciliares son conscientes de que la intromisión de la autoridad civil en la elección de los obispos (la llamada crisis galicana) pertenece al pasado, aunque quedan restos de ella. En el postconcilio se busca recuperar, gracias a la sinodalidad y corresponsabilidad bautismal, el protagonismo que tradicionalmente ha tenido el pueblo de Dios en cuestiones que afectan a la vida ordinaria y, sobre todo, en aquellas que comprometen su futuro a medio y largo plazo. Ello explica la demanda de un mayor protagonismo y transparencia en la elección de sus obispos (sean titulares, coadjutores o auxiliares) y la exigencia de cambiar la actual normativa jurídica al respecto.
Como es sabido, el nombramiento de los obispos se rige por el canon 377 & 1, un texto tan importante como desconocido, al menos en una de las dos vías que reconoce y sanciona: «el Sumo Pontífice nombra libremente a los Obispos o confirma a los que han sido legítimamente elegidos».
1. El Papa «nombra libremente»
En la primera parte se formula taxativamente lo que para la gran mayoría de los católicos parece ser la única vía posible: el Papa nombra libremente a todos los obispos del mundo.
Si la creación del colegio cardenalicio fue una de las determinaciones más importantes en la reivindicación del derecho que tenía la Iglesia de Roma a elegir libremente a su obispo (el Papa), la asunción de la responsabilidad última en la elección de los obispos obedece a la misma exigencia: preservar el derecho del pueblo de Dios a elegir libremente a sus prelados en armonía con la responsabilidad que tiene la Sede Primada de garantizar la unidad de fe y la comunión entre todas las iglesias.
No es éste el interés de los redactores del código de 1983 quienes – al enfatizar la libertad papal – descuidan la práctica más tradicional y acaban sancionando una forma de gobierno eclesial más cercana al absolutismo que a la sinodalidad y corresponsabilidad eclesiales. Semejante opción explica el detallado desarrollo que presenta en el cuerpo canónico el procedimiento que se ha de seguir para preservar la libertad del Papa en la elección de los obispos, ya sea diocesanos, coadjutores o auxiliares.
Cuando se trata de elegir un obispo diocesano o un prelado coadjutor, corresponde al Nuncio proponer a la Sede Apostólica una terna de candidatos acompañada de un informe valorativo de los mismos. Al discernimiento aportado por el Nuncio hay que añadir el parecer del arzobispo y de los obispos de la provincia eclesiástica a la que se ha de proveer, así como el del presidente de la Conferencia Episcopal. Además, el Nuncio tendrá que oír la opinión de “algunos” miembros del colegio de consultores y del cabildo catedralicio «y si lo juzgare conveniente, pida en secreto y separadamente el parecer de algunos de uno y otro clero, y también de laicos que destaquen por su sabiduría» (377 § 3). Éste es el procedimiento habitual «a no ser que se establezca legítimamente de otra manera».
Cuando se trata de la elección de un obispo auxiliar, corresponde al diocesano solicitante proponer «a la Sede Apostólica una lista de, al menos, tres de los presbíteros que sean idóneos para ese oficio» (377 § 4). También en el inicio de este canon se indica que se ha de proceder de esta manera «si no se ha provisto legítimamente de otro modo».
La diferencia entre un obispo coadjutor y otro auxiliar radica en que el primero de ellos tiene derecho a suceder al titular, mientras que el segundo es un ayudante. El código de derecho canónico deja ver la diferente responsabilidad de uno y otro en el mismo procedimiento electivo: el diocesano y el coadjutor son elegidos por la Santa Sede a propuesta del Nuncio; el auxiliar, a propuesta del obispo titular.
Como se puede apreciar, la responsabilidad del obispo diocesano es muy grande en el nombramiento de un obispo auxiliar; no así en el de un coadjutor, aunque su margen de maniobra puede quedar recortado como fruto de negociaciones con el Nuncio o con algunos de los cardenales que integran el dicasterio para los obispos y en cuyas manos se encuentra, frecuentemente, la decisión anteúltima.
Ordenación absoluta y obispo auxiliar. La figura del obispo auxiliar (no así la del coadjutor) sigue presentando muchas reservas teológicas, por más que su institucionalización sirviera, por ejemplo, para renovar el colectivo episcopal durante el pontificado de Pablo VI, como así sucedió en España durante los últimos años del franquismo.
Sin embargo, es una forma de acceder a la sucesión apostólica que no acaba de sacudirse lo que tan contundentemente sostiene el canon 6 del concilio de Calcedonia (451) cuando declara nula toda ordenación episcopal que no se efectúe para una Iglesia determinada: «ninguno debe ser ordenado de manera libre ni obispo, ni diácono, ni en general para funciones eclesiásticas, si no ha sido asignado en particular a una Iglesia de una ciudad o aldea, a una capilla de mártir o a un monasterio. El santo concilio ha decidido, para los que sean ordenados de manera absoluta, que la ordenación quede sin efectos y que, por la maldad del que les ha impuesto las manos, éstos no puedan en parte alguna ejercer (sus funciones)».
Según este canon, es la ordenación para presidir una comunidad lo que habilita para ser considerado sucesor de los apóstoles y formar parte del colegio episcopal. La recepción de esta verdad es de tal entidad, que en el Concilio Vaticano I se plantea si los obispos sin diócesis tienen derecho a sentarse en el aula conciliar y a participar, por tanto, en los debates y decisiones conciliares. Además, la vigencia del decreto calcedonense explica que las listas de las sucesiones episcopales, a veces determinantes en la atestiguación de la verdadera fe, jamás sean establecidas según la línea de la imposición de manos, sino según la sucesión en la cátedra, esto es, según la presidencia de una Iglesia.
No tiene nada de extraño que bastantes teólogos cuestionen la figura del obispo auxiliar, a pesar de los esfuerzos actuales por cumplir la formalidad exigida adjudicando a estos prelados la presidencia de diócesis antiguas, existentes en su tiempo, pero sin vida en la actualidad. Es lo que se conoce como el nombramiento «in partibus infidelium» («en tierras de infieles»). El decantamiento por esta práctica -y la fragilidad que presenta- indica que sigue pendiente una recepción institucional de la teología conciliar sobre el episcopado.
El peso de la curia vaticana y de los «lobbies». Es de sobra conocido que el sucesor de Pedro no puede gobernar por sí solo una Iglesia de más de 1.300 millones de católicos y con más de 5.000 obispos. Necesita de la curia y la curia actúa, obviamente, en su nombre. Pero es igualmente cierto que el Papa tampoco puede controlar todos los movimientos y personas de la curia ni estar al tanto de todo lo que se pone en juego cuando se están madurando disposiciones intermedias con el fin de facilitar una decisión suya.
Es entonces cuando se pone de manifiesto el importante papel que desempeñan los miembros y “lobbies” de la curia y el peso de sus convicciones, “filias” y “fobias”. Nadie pone en tela de juicio que se esfuercen -y la gran mayoría de las veces así sucede- por anticipar una decisión que sea conforme con lo que entienden que son las convicciones del Papa. Pero también es difícilmente refutable que siempre existen márgenes de maniobra en los que con frecuencia tienen una enorme importancia sus diagnósticos y criterios personales y, por supuesto, los grupos de presión o «lobbies».
Por tanto, es cierto que el Papa «nombra libremente» los obispos, pero también lo es que su intervención en dichos nombramientos se ha de entender – si se exceptúan algunos casos muy concretos – en sentido muy amplio, es decir, con la ayuda, frecuentemente determinante, de la curia y, más concretamente, del Dicasterio para los Obispos en el que no faltan personas con un protagonismo indiscutido (y más, si son de la nación a la que pertenecen algunos de los candidatos) y, por supuesto, sin descartar la posibilidad de una intervención excepcional de la Secretaría de Estado.
2. El Papa «confirma a los que han sido legítimamente elegidos»
Hay lectores del canon 377 § 1 que desconocen o aparcan su segunda parte cuando sostiene que el Sumo Pontífice «confirma a los que han sido legítimamente elegidos». Es así como el Código de derecho canónico recoge la intervención – cierto que muy restringida – de algunas diócesis en la elección de sus respectivos obispos.
En la actualidad, unas treinta diócesis alemanas, austriacas y suizas tienen capacidad -en algunos casos, por derecho concordatario- para intervenir en la elección de sus respectivos prelados, bien sea presentando una terna a Roma o eligiendo – normalmente por el cabildo catedralicio – a uno de los tres presentados por el Vaticano. Es un procedimiento mixto (y manifiestamente mejorable) que permite alcanzar el tan añorado punto de equilibrio entre los deseos de la Iglesia local y la responsabilidad apostólica del primado. Ésta es una práctica muy extendida en Alemania, Austria y generalizada en todas las diócesis de Suiza.
Propuesta. Pocos discuten la bondad de que la Sede Primada se reservara la última palabra en la gran mayoría de las elecciones episcopales frente a las inaceptables injerencias galicanas. Y nadie, medianamente informado, discute que la elección de los obispos ha sido – en la tradición más venerable y prolongada de la Iglesia – el resultado de un acuerdo “católico” entre la voluntad de los fieles directamente concernidos y la responsabilidad de la Sede Primada por velar y garantizar la unidad de fe y la comunión eclesial.
Evidentemente, apelar de manera exclusiva a la elección de los obispos por votación popular puede presentar – en el extremo – algunos riesgos de fidelidad al Evangelio. El ejemplo irrefutable es la hipótesis de que una diócesis mayoritariamente xenófoba y racista acabara eligiendo un obispo del mismo o parecido perfil. Hay ocasiones en las que la elección democrática y la fidelidad debida al Evangelio pueden colisionar. Es esta cautela la que ha estado fundamentando una necesaria “reserva” papal (“reservatio”) en toda elección.
Semejante cautela ha llevado a que la Sede Primada confirmara, ratificara o “reconociera” (“recognitio”) a los legítimamente nombrados. Pues bien, es esta responsabilidad la que sigue fundamentando en nuestros días la conveniencia de que la Sede Primada siga teniendo dicha “reserva” en la elección de cualquier obispo. Sin embargo, cuando la legítima y necesaria “reserva” acaba independizándose y desoyendo el parecer de la Iglesia local, también se incurren en crasos errores, como así ha sucedido en la historia de la Iglesia y como sigue aconteciendo en la actualidad. Por eso, sería deseable que el actual canon cambiara la oración subordinada por la principal, haciendo que lo que muchos entienden que es una excepción o privilegio (la intervención del pueblo de Dios en el nombramiento de los obispos) volviera a ser lo habitual: «el Sumo Pontífice confirma a los que han sido legítimamente elegidos o, en situaciones excepcionales, nombra libremente a los Obispos».
Es cierto que el código de derecho canónico faculta al Nuncio para consultar (en algunos casos) a determinadas personas. Pero es igualmente cierto que dichas consultas son manifiestamente insuficientes y nada transparentes. Los procedimientos arbitrados no respetan, como sería deseable, las reglas más elementales de la sinodalidad y corresponsabilidad ni la “lógica católica” que han de presidir toda la vida de la Iglesia y también, obviamente, su organización, su funcionamiento interno. Cuando no se cuidan como es debido no sólo se puede caer en el error de elegir un obispo racista o xenófobo, sino que también se pueden sacrificar diócesis enteras por criticables intereses (frecuentemente políticos) de personas influyentes en la curia vaticana o de “lobbies” eclesiales. Son muchísimas las diócesis que son víctimas de este juego de intereses ajenos o, en el mejor de los casos, de diagnósticos cruzados y hasta enfrentados sobre su futuro cuando se nombran obispos, aunque sean auxiliares. El precio pagado – o no pagado cuando se ha procedido con cierta mesura – está a la vista de quien lo quiera ver.
Conclusión. Por eso, lo normal es que se habilitara un procedimiento en el que, garantizando (sin trampa ni cartón) el respeto debido a la voluntad del pueblo de Dios («ningún obispo impuesto»), se articulara semejante respeto con la ineludible responsabilidad papal de velar por la unidad en la fe y la comunión eclesial (la “reservatio” y “recognitio”). Éste es el marco en el que se inscribe el planteamiento del Foro de curas de Bizkaia del pasado 23 de abril de 2018 cuando sostiene que la elección de un nuevo obispo (titular, coadjutor o auxiliar)
Ha de estar precedida de «un estudio de la situación y necesidades» de la diócesis, «así como del subsiguiente discernimiento en los órganos de corresponsabilidad (particularmente, en el Consejo Pastoral Diocesano y en el Consejo del Presbiterio) sobre la conveniencia o no de nombrar» un nuevo obispo; algo indudable en el caso de ausencia de un titular; y opinable en los casos de un coadjutor y auxiliar.
En tal estudio de situación y necesidades «tendría que haber un apartado específicamente dedicado a evaluar» (cuando se solicita un coadjutor o u auxiliar) «las tareas propias y las dedicaciones a las mismas que desempeña» el obispo «al que se le ha encomendado presidir la diócesis».
Y «en caso de que el resultado del discernimiento fuera nombrar» un nuevo obispo, «habría que activar un procedimiento de participación que, además de corresponsable, fuera inequívocamente transparente tanto en la determinación del perfil que se considere procedente como en las propuestas de posibles candidatos».
A la luz de estas condiciones elementales de transparencia y participación se entiende la conclusión a la que llegan: «obviar o dar por hecho estos primeros y elementales pasos y solicitar posibles nombres de candidatos, deslegitimaría todas las decisiones que se pudieran adoptar posteriormente y cargaría de razones a quienes sostienen que nos encontramos de nuevo ante otro obispo impuesto» «por motivos e intereses ocultos e inconfesables».
Y se entiende, igualmente, su negativa posterior a participar en una consulta en la que no ha habido discernimiento alguno sobre la necesidad o no de un obispo auxiliar y que, además, será secreta y reservada exclusivamente a los miembros del Consejo Pastoral Diocesano y Consejo del Presbiterio. Entienden que, procediendo de esta manera, no se respetan las reglas más elementales de sinodalidad y transparencia. Es, sencillamente, una huida hacia adelante.
Il testo è stato pubblicato su Periodistadigital il 9 maggio 2018.